Àtopon: luogo di ciò che è senza luogo Intervista alla Prof.ssa Maria Pia Rosati

(Tratto dalla rivista: Materia Prima – Inerzia e Trasformazione n. V marzo 2012)
(a cura di Alessandra Bracci(*))

Introduzione

intervista1Un lungo e faticoso cammino iniziatico investe, da tempi immemorabili, a livello individuale e collettivo, l’intera umanità, ed il noto motto dell’alchimia espresso dall’acrostico ermetico V.I.T.R.I.O.L., formato dall’espressione latina “Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultam Lapidem” (Visita l’interno della Terra e rettificando troverai l’occulta pietra), nasconde il senso segreto del viaggio operato dalla coscienza verso il luogo originario, verso i territori più profondi della propria anima, alla ricerca di un centro immutabile, duro come la pietra indistruttibile e capace di ogni trasformazione. Tale centro è il Sé. La ricerca alchemica, quale antica arte di integrazione tra corpo, anima e spirito, prevede la possibilità di avviare la conoscenza della propria totalità in un continuo passaggio fra il mondo sovrasensibile della psiche e quello sensibile della materia. Come C.G. Jung descrive nel testo “Ricordi, sogni, riflessioni“: «la domanda decisiva per l’uomo è questa: è egli rivolto all’infinito oppure no? Questo è il problema essenziale della sua vita. Solo se sappiamo che l’essenziale è l’illimitato, possiamo evitare di porre il nostro interesse in cose futili, e in ogni genere di scopi che non sono realmente importanti. […] Se riusciamo a capire e a sentire che già in questa vita abbiamo un legame con l’infinito, i nostri desideri e i nostri atteggiamenti mutano. […] La più grande limitazione per l’uomo è il “Sé”; ciò è palese nell’esperienza: “Io sono solo questo!”. Solo la coscienza dei nostri angusti confini nel “Sé” costituisce il legame con l’infinità dell’inconscio»1. Può dunque l’uomo orientarsi verso tale nucleo originario, ad esso avvicinarsi e cogliere la propria totalità ? Quali caratteristiche psicologiche sono necessarie per muovere i passi verso la propria trasformazione? A ciascun essere umano è dato di affrontare una nuova visione del mondo, di guardare le persone, i viaggi, le difficoltà e le peculiari vicende come realtà e simbolo al tempo stesso. Solo allora, l’intera esistenza apparirà nella sua dimensione più autentica, «dalla sua riflessione psicologica scoprirà che le cose si uniscono fra loro attraverso un criterio chiamato affinità ; da questo criterio l’uomo potrà scoprire l’armonia delle cose e da ultimo la loro bellezza; cogliere la bellezza del mondo è cogliere la bellezza della nuova esistenza»2

Il presente numero di Materia Prima, dedicato al tema “Inerzia e Trasformazione”, ospita fra le sue pagine il prezioso contributo della Prof.ssa Maria Pia Rosati, laureata in lettere classiche e in psicologia, ha insegnato lettere nei licei, Psicoterapia analitica presso la Scuola di Specializzazione dell’Università di Trieste, è stata professor exstrangero presso la Escuela de Psiquiatria de la Universidad Complutense de Madrid. E’ docente e analista della Scuola di Psicoanalisi Interpersonale e Gruppo analisi di Roma. Ha pubblicato (con Giuseppe Campailla) Psicologia Medica e numerosi articoli su riviste di psicologia e psicoanalisi italiane e straniere. Ha fondato nel 1981 il Centro Studi Mythos e l’Istituto di Psicoantropologia Simbolica e Tradizioni religiose (Roma) di cui è direttore. E’ direttore di “átopon” rivista di Psicoantropologia simbolica e Tradizioni religiose. Cura per le edizioni Mythos le collane Nostoi e Castalia e i Quaderni Cljpas.
intervista2Attraverso le sue parole, respiriamo lo spirito di un momento storico, era il 1933 e ad Ascona, lungo le rive del Lago Maggiore avvenivano i famosi incontri di Eranos, «una vera comunità […], composta da persone che, avendo superato sia i complessi di superiorità che di inferiorità, tutti insieme docenti e discenti, aveva un unico proposito: studiare ciò che è essenziale all’uomo, alla ricerca di se stesso, ciò che ha significato permanente ed eterno»3, e nel comprendere le tappe del suo percorso di ricerca, di studio e di progetto, la Prof.ssa Rosati, ci conduce su un terreno ove l’essere umano è chiamato a partecipare con la propria dimensione più autentica ed infinita: «Francamente non credo sia il caso di soffermarsi sulla mia persona. Il progetto della mia vita è stato, come credo per ogni ricercatore, quello di avvicinarmi al senso e al mistero della vita dell’uomo. Provenendo da studi di filologia classica, ho cercato attraverso studi di filosofia, psicologia analitica, antropologia culturale, sociologia del profondo, tradizioni religiose di comprendere il cammino dell’uomo alla ricerca della conoscenza di se stesso, del senso della vita e di ciò che è oltre la vita, della sua funzione nel cosmo ecc. Insomma mi sono posta i problemi che l’uomo si è posto da sempre e ho cercato di conoscere le risposte che di volta in volta si è dato. Posso dire che il punto di svolta è stata l’esperienza di Eranos, l’incontro con una vera comunità di studiosi appartenenti ad ogni disciplina che ogni anno si riunivano per offrire il frutto degli studi delle ricerche nel campo proprio ad ognuno e condividerlo con gli altri in un clima di assoluta semplicità e libertà spirituale. Gli studiosi non desideravano essere al passo con il proprio tempo, ma essere se stessi, una presenza attiva che mette al presente ciò che la concerne e dunque è il suo tempo, senza cadere nel suo tempo. Ad Eranos si percepiva la forza trasformante di un rito sacro. Ho avuto la fortuna di incontrare figure di altissimo livello, grandi studiosi che sono divenuti indimenticabili maestri, grazie ai quali ho intravisto più ampi orizzonti e verso i quali nutro un profondo senso di gratitudine (cito soltanto tra i molti Gilbert Durand, Jean Servier, Julien Ries, Lima de Freitas, Claudio Rugafiori). Ma soprattutto ho conosciuto una modalità nuova di avvicinare temi e problemi, quello della transdisciplinarità, spazio di apertura, di libertà, di comprensione, di tolleranza, un átopon che si fonda sull’idea dell’irriducibilità del non conosciuto. La transdisciplinarità cerca di ricomporre la scissione multisecolare all’interno del sapere, mira alla riconciliazione tra soggetto ed oggetto, tra l’uomo esteriore e l’uomo interiore e questo spererei divenisse il mito del nostro tempo. Su questi modelli, su queste imagines agentes è stato costituito sia Mythos – Istituto di Psicoantropologia Simbolica e Tradizioni religiose (1981), sia la rivista “átopon” (1982)».
Nel tentativo di ricomporre l’autentica ed originaria unità del sapere, attraverso il susseguirsi delle risposte della Prof.ssa Rosati, l’auspicio è quello di esplorare il proprio orizzonte di ricerca verso átopon, il «”luogo di ciò che è senza luogo”, eppure è sempre presente ad orientarci e a guidarci: “è il simbolo? Molti sono i suoi nomi“»4.

Perché nel mondo attuale di ricerca dell’autenticità e della progettualità l’uomo ha smarrito il rapporto con l’immaginario?

Èvero, oggi si parla molto di autenticità : autenticità vuol dire etimologicamente essere se stesso, rapporto con il Sé stesso. Che cosa significa ciò per l’uomo di oggi, occidentale o occidentalizzato, spinto ad una progettualità che mira prevalentemente ad una espansione sul piano della realizzazione mondana, della fattualità oggettivamente misurabile? Alla parola progetto associamo immediatamente studi sulle possibilità di realizzazione, tempi, costi. ecc. … L’uomo sembra valere per ciò che fa, per ciò che produce o consuma. Tutto deve avere una precisa collocazione, secondo i parametri della mondanità. Abbiamo perso l’abitudine a interrogarci su ciò a cui l’uomo è destinato, sul significato della sua vita, sulla sua possibilità di andare oltre i confini del proprio Io, (la funzione trascendente di cui parla Jung).

intervista3Ciò può avvenire nell’átopon, il luogo senza luogo, luogo per eccellenza dell’immaginario, o meglio dell’immaginale; preferisco usare questo termine (seguendo Henry Corbin e Gilbert Durand), proprio per non incorrere nella connotazione ampiamente svalutativa del termine immaginario (non reale, di una realtà fattuale, quindi di nessun valore). Naturalmente può sembrare a prima vista contraddittorio parlare di mancanza di rapporto con l’immaginario in una civiltà che viene definita civiltà dell’immagine e in cui, come nota Gilbert Durand, dalla culla alla tomba, ogni individuo è sommerso ad ogni momento da una quantità di immagini veicolate da mass media che tendono a orientare il suo pensiero, le sue opinioni, i suoi gusti e bisogni. Invincibile il fascino di queste immagini, sempre più sofisticate, soprattutto per un occidentale abituato da secoli a una più o meno conclamata iconoclastia e alla supremazia del logos, della parola. Si parla di preoccupanti effetti, soprattutto per i più giovani, della dipendenza da audiovisivi e di crisi del libro. Proprio ciò impedisce all’uomo di raggiungere nella solitudine, nella meditazione il contatto profondo con la propria interiorità, con se stesso e scoprirsi, usando le parole della Bibbia «a immagine e somiglianza di Dio».

Il Sé stesso, il Selbst junghiano è un concetto mutuato dalla religione vedica, in cui in maniera molto esplicita, il progetto dell’uomo, la sua totale realizzazione consiste nel raggiungere la piena consapevolezza che il suo Sé il suo Atman, il suo respiro, la sua anima, sono uno con il respiro universale, la realtà Assoluta, il Brahman, l’Assoluto in Sé, sempre identico a se stesso!

Come si relazionano il mondo immaginario e l’Anima Mundi?

Platone nel Timeo, facendo sua la visione delle scienze religiose tradizionali, afferma che questo mondo nacque come un essere vivente dotato di anima e intelligenza grazie alla Provvidenza divina. In tale visione la vita e la salute (fisica e psichica) dell’essere umano era percepita all’unisono con quella delle altre forme di vita dell’universo, influenzata dalle leggi dell’armonia cosmica e soggetta alle forze numinose provenienti da spazi intersiderali. Proprio la facoltà creatrice dell’immaginazione, facoltà misteriosa, imparentata con l’infinito (sono parole di Baudelaire), permette all’uomo di sentirsi partecipe dell’Anima Mundi, di percepire il senso più profondo delle cose che attiva ogni potenzialità e anima ogni azione, in una parola di essere se stesso e partecipe del Sé. Solo l’inesauribile ricchezza del mondo immaginario ci può salvare dalla perdita di senso del tutto che sfocia nel nichilismo.

Lei ha parlato di átopon. Che cosa significa átopon? È il luogo simbolico dell’incontro con il Sé?

L’incontro con il Sé, l’esperienza del Sé non può avvenire se non nell’átopon, il luogo senza luogo, che è in tutti i luoghi, ma mai in essi circoscritto, perché concerne un livello ontologico altro da quello dell’esperienza quotidiana vissuta ad una sola dimensione.
Una metafora vedica ci parla di 2 uccelli appollaiati su uno stesso albero. Uno mangia una bacca, l’altro guarda colui che mangia. Essi, nel limpido quanto enigmatico linguaggio del Rigveda, rappresentano il primo l’Io, l’altro il Sé (Atman), pronome riflessivo. Ambedue sono aspetti della mente, ma non facile è il cammino per giungere dall’uno all’altro, dalla mente che compie un gesto alla mente che riflette su quel gesto e fa sì che tra questi momenti ci si sia un continuo scambio, in modo che si possa dire «tutti i mondi ho posto dentro il mio Sé e il mio Sé ho posto in tutti i mondi; tutti gli dèi ho posto dentro il mio Sé e il mio Sé ho posto dentro tutti gli dèi…».

Secondo quali modalità la dimensione corporea partecipa all’átopon? Oppure esso è solo il luogo dell’immaginario?

Ovviamente la dimensione corporea partecipa all’átopon. Perché l’uomo, come abbiamo detto, è costituzionalmente Homo simbolicus. Il suo cervello, i 2 emisferi cerebrali con funzioni differenziate, ma in collegamento tra loro grazie al corpo calloso, la funzione vicariante delle zone cerebrali, i neuroni a specchio (accenno soltanto a temi che tutti conoscono) indicano, per usare il linguaggio junghiano, che la funzione trascendente è fondamentalmente correlata alla struttura antropologica. Da più di cinquanta anni ciò è stato oggetto degli studi di Gilbert Durand e dei circa cinquanta centri di ricerca dell’Immaginario diffusi in tutto il mondo. Inoltre proprio il 18 febbraio 2012 la nomina a cardinale di Julien Ries ha segnato il riconoscimento da parte della Chiesa di uno dei maggiori teologi e intellettuali europei al crocevia dei più fervidi studi del secolo, fondatore dell’antropologia del sacro, che ha dimostrato come già più di 90.000 anni prima della nostra èra Homo habilis era già Homo symbolicus e religiosus (i due termini nella loro accezione più ampia vengono a coincidere), capace di riflettere sul senso della vita e su ciò che è oltre la vita.

Come si relazionano i suoi studi sull’immaginario in riferimento al simbolo? 

L’immaginale di cui parliamo è una immaginazione creatrice, facoltà psichica attiva in cui il singolo a contatto con la propria dimensione interiore riesce a far sì che gli avvenimenti vissuti internamente si proiettino e si elevino al valore di simboli. Si arriva in tal modo a vivere la vita stessa, nel suo svolgersi, nella sua realtà fattuale, come vita simbolica. Ma dobbiamo intenderci sull’accezione della parola simbolo (symbolon) nella quale sono presenti sia l’idea dell’unità (syn= con) sia l’idea propulsiva (bolon, dal greco ballo = lancio). Il simbolo non è qualcosa che sta al posto di qualcos’altro. Simbolo è il solo modo di dire ciò che non può essere espresso e appreso in altro modo e si colloca su un piano di coscienza diverso da quello dell’evidenza razionale; non è mai spiegato una volta per tutte, ma deve essere sempre decifrato di nuovo, così come una partitura musicale non è mai decifrata una volta per tutte, ma richiede sempre una nuova esecuzione. Dire che qualcosa è un simbolo è riconoscere a quel qualcosa un’altra dimensione non circoscrivibile nella spazialità e temporalità, per questo possiamo dire che un simbolo è sempre un átopon, la cifra di un mistero. E in particolare dobbiamo sempre tener presente la dimensione simbolica dell’uomo, della sua vita, del mondo in cui vive. Il simbolismo accompagna fin dai primordi, il processo stesso di ominazione. La ricerca antropologica di Julien Ries ci ha mostrato che, già più di due milioni di anni fa, l’Homo habilis a Oldulvai si presenta come symbolicus, dotato di sensibilità estetica, di senso di simmetria e di coscienza della creatività. E Gilbert Durand ci conferma che l’attività specifica dell’uomo, la carta d’identità dell’Homo sapiens, è l’attività simbolica, parte essenziale della creatività della psiche.

Come coniuga il tema del simbolo con il processo di trasformazione?

Come ho già detto il processo di trasformazione, in quanto forza propulsiva, è già concettualmente presente nella parola “simbolo”. La ricchezza inesauribile del simbolo è proprio legata alla possibilità di trasformazione, che è del resto la possibilità della vita. Quando viene meno la capacità simbolica è come se tutto fosse ridotto a una sola dimensione, senza sfondo, senza prospettiva. Panofsky ci ha mostrato che la prospettiva, in arte, è una forma simbolica. La psicopatologia è spesso legata proprio all’impossibilità di un pensiero simbolico di un linguaggio metaforico sì che l’individuo si sente ridotto a “una dimensione”, soffocato, schiacciato, assediato dalla realtà circostante, incapace, un sia pur minimo spazio immaginativo per la riflessione e l’elaborazione degli avvenimenti che gli permetta di trovare soluzioni alternative, trasformative.

Alcuni versi di Montale mi sembrano rispondere alla sua domanda, esprimendo l’esigenza più profonda dell’uomo:

«Portami il girasole ch’io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l’ansietà del suo volto giallino.
Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche […]».


Che cosa ne dice del simbolismo alchemico? Può essere posto in relazione con la trasformazione della coscienza dell’Io nella direzione del Sé?


La vita dell’uomo, il suo senso, è un cammino, una ricerca, un viaggio iniziatico. L’uomo è «troppo grande per bastare a se stesso» dice Pascal: egli è nostalgia del futuro di ciò che ancora non c’è e diventa ciò che sogna, che spera, che attende e verso cui tende. è viator, in cammino verso ciò che sente gli è destinato, la propria vera essenza, il Sé. Solo se si ha ben presente la meta si può compiere il viaggio senza smarrirsi, senza rimanere fissati, intrappolati in epoche, situazioni della vita che vanno oltrepassate al momento dovuto. Le tappe di questo viaggio sono ben rappresentate dai tre momenti dell’opera alchemica (nigredo, albedo, rubedo) che prendono il nome dei colori della materia nei vari momenti di trasformazione. Carl Gustav Jung dedicò numerosi anni della sua vita allo studio dei testi alchemici. Scrisse nel suo diario (“Ricordi, sogni, riflessioni“): «Notai ben presto che la psicologia analitica concordava stranamente con l’alchimia. […] avevo trovato l’equivalente storico della mia psicologia dell’inconscio. Ora essa aveva un fondamento storico. […] Grazie allo studio di quei vecchi testi, tutto trovò il suo posto: il mondo simbolico delle fantasie, il materiale sperimentale raccolto nella mia attività professionale, e le conclusioni che ne avevo tratte». 

Come considera, nel processo di trasformazione alchemica, e più in particolare della coscienza, il tema del corpo?


intervista4L’opera degli alchimisti consisteva nell’operare sulla materia dapprima trattandola con molteplici triturazioni, lavaggi e distillazioni, al fine di separare ciò che è sottile da ciò che è spesso, e affinare ciò che è spesso e renderlo sempre più sottile. Nello stesso tempo l’alchimista mirava simmetricamente ad integrare lo spirito, volatile, alle parti più dense della materia in maniera da raggiungere progressivamente uno stato di purezza, di omogeneità perfetta di equilibrio tra i suoi componenti. Tali immagini ci aiutano a comprendere come l’alchimia debba essere intesa anche come un percorso iniziatico, simile a quello presente nei misteri iniziatici di molte religioni antiche. La prima fase, Piccola opera, ha per fine la spiritualizzazione del corpo – simboleggiata dal candeggiamento del nero originale – e il ritorno dell’anima al suo stato di purezza e ricettività originale; la terza, la suprema Grande opera, l’Opera al Rosso, mira alla reintegrazione dell’uomo nella sua originaria dignità, l’illuminazione dell’anima da parte dello spirito, chiamato a discendere in essa. Ma tutto il processo, almeno per quel che riguarda la parte dell’uomo, inizia dalla materia, dal corpo. Ricordiamo che il processo salvifico del Cristianesimo inizia con l’Incarnazione e, come diceva Tertulliano, Caro salutis cardo, la carne è il cardine della salvezza. 

Che cosa ne pensa delle immagini archetipiche?

Dobbiamo tener presente che Jung non era soltanto un neuropsichiatria e uno psicologo analista, ma anche un antropologo, uno studioso di religioni, interessato insomma al singolo individuo come all’umanità, alla filogenesi come all’ontogenesi, e in continua ricerca del senso del Tutto. Proprio questa ricerca lo ha portato a trovare quasi delle impronte, dei segnavia (per usare un termine heideggeriano) nelle immagini che costellano sia l’inconscio collettivo che individuale.
L’immagine della luce che uscendo dalle tenebre, illumina ogni giorno il mondo è un’immagine carica di senso per ogni uomo sin dagli albori dell’umanità, immagine che ritroviamo in ogni religione come simbolo di vita, rinascita e trascendenza. L’immagine della volta stellata, degli infiniti spazi siderei ha ricordato da sempre all’uomo che egli fa parte di un cosmo che anch’esso compie il suo viaggio. E ritorniamo al tema del simbolo e dell’analogia che è un continuo rimando a qualcosa che si trova ad un livello altro in un continuo gioco di specchi.

Si può parlare di una psicoantropologia ecobiopsicologica?

Credo si dovrebbe cercare un termine più semplice e che immaginalmente ci aiuti a comprendere il nostro rapporto con l’unus mundus. Il rischio di accostare un termine ad un altro ci può far perdere quello spirito sintetico che è purtroppo così difficile da raggiungere nel nostro mondo contemporaneo dominato dallo spirito analitico.

L’immaginario è molto simile a quello stato di trance attiva descritta come stato di «mag». È questo uno stato intermedio della coscienza entro il quale la dimensione corporea partecipa attivamente?

La dimensione corporea e quella immaginativa sono sempre correlate. Sappiamo della forza delle imagines agentes sul corpo (basta pensare alle Stimmate o ai segni della passione impressi sul corpo dei devoti, come Francesco d’Assisi). D’altra parte lo sciamano diventa tale in genere dopo una cosiddetta malattia creatrice o un’iniziazione che anche fisicamente lo metterà in grado di affondare e sostenere le durissime lotte con gli elementi, le forze della natura, i demoni, le malattie ecc. Spesso nell’esercizio della sua arte egli riporta sul proprio corpo i segni di tali combattimenti.

Come si pone átopon con il mundus imaginalis di H. Corbin? E’ anche dimensione dello psichico con una stretta relazione con il fisico, come afferma lo stesso Giordano Bruno.

La parola átopon evoca un concetto presente in Platone e Plotino, il “luogo senza dove” della mistica persiana, la terra di Hurqalya, l’ottavo clima, appartenenti a una geografia spirituale in cui «si corporizzano gli spiriti e si spiritualizzano i corpi» come scrive Henry Corbin in “Corpo spirituale e Terra celeste“.
Anche Giordano Bruno ha personalmente sperimentato e testimoniato nei suoi scritti l’enorme forza delle imagines agentes sull’uomo, sulla sua psiche, sulla sua mente, sulle sue capacità che sono sempre ad un tempo sia fisiche che psichiche. 
Dobbiamo comunque tener presente che questa modalità di pensiero che appartiene alle scienze tradizionali e, potremmo dire all’esoterismo, è in realtà sorprendentemente allineata proprio con le nuove scoperte della fisica quantistica. In particolare il nesso psiche e materia, le relazioni tra fisica quantistica e psicologia sono il nucleo del dialogo tra lo psicologo Jung e il fisico Pauli. Di tale significativo scambio di esperienze ci resta una fitta corrispondenza epistolare. Inoltre i due studiosi hanno pubblicato insieme “L’interpretazione della Natura e della Psiche” (“Naturerklärung und Psyche” – Jung e Pauli 1952). Fu il fisico Pauli a indurre Jung a pubblicare in quest’opera l’articolo “Sincronicità : un principio di corrispondenza acausale“.

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Alessandra Bracci – Dottore in Economia e Commercio, è specializzata nella definizione strategica della Customer Experience presso BMW Group Italia. Ha conseguito il diploma in Medicina psicosomatica e in Counseling Ecobiopsicologico presso l’Istituto ANEB. Capo Redattrice della rivista MATERIA PRIMA.

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Note:
 

1 Jung, C.G., (2007). Ricordi, Sogni, Riflessioni. Milano: BUR, pp. 382-383

2 Frigoli, D., (2007). Fondamenti di psicoterapia ecobiopsicologica. Roma: Armando Editore, p. 241

3 http://www.atopon.it/index.php?page=presentazione-della-rivista-maria-pia-rosati

4 http://www.atopon.it/index.php?page=psicoanalisi-e-transdisciplinarita

 


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