Editoriale vol. IV

Annamaria Iacuele

 

Negli articoli come nelle voci congressuali di questo numero di «Atopon», risuona l’esigenza di trascendenza espressa in maniera privilegiata attraverso la dimensione simbolica, vista come significativo momento del cammino dell’uomo alla ricerca del senso dell’esistenza.

La civiltà occidentale, trascinata alla deriva dalla sua stolta superbia, ha forse perso definitivamente il respiro metafisico di quella dimensione simbolica che costituisce la funzione fondamentale del pensiero umano?

È questa la domanda che con grande inquietudine si pone e ci pone Gilbert Durand, dopo un trentennio di studi e di ricerche dedicate alle strutture antropologiche dell’immaginario, alle trame simboliche archetipiche e alle costellazioni del mito che intessono il sapere umano.

Lo studioso, in opposizione alla progressiva pietrificazione della cultura nella morsa del meccanicismo e del materialismo e alla nuova minaccia rappresentata dalla nascita di una sedicente civiltà delle immagini che sta invertendo le nostre usuali modalità epistemologiche, ci richiama alla transdisciplinarità come ad una modalità di approccio al magistero supremo del sapere aperto all’evidenza del nascosto e all’epifania del mistero.

G. Durand vede il mondo immaginario (non-luogo concreto, ma senso che simboleggia ogni luogo) come aldilà transdisciplinare e dunque luogo del metasapere (entre-savoir), trascendenza a cui deve tendere nel suo itinerario l’immanenza di ogni disciplina.

Il saggio di Giuseppe Lampis traccia un’ermeneutica della maschera.

I mascheramenti e in generale ogni sembiante esteriore non possono essere usati con disinvoltura come involucri neutri ed inerti. Al contrario l’autore «muovendo dal nesso inscindibile di apparenza e realtà, di sembrare ed essere» mostra che dietro il corpo e il volto e le loro dinamiche si è sempre intuita, fin dalla preistoria, una carica di forti polarità. Gli uomini, attraverso la maschera entrano in contatto con le potenze dell’invisibile e solo un duro percorso preliminare di educazione iniziatica, evitando che questa esperienza si risolva  in un effetto devastante, introduce al riconoscimento e all’accettazione di quello che la cultura greca ha indicato come il proprio daimon, il genio della trasformazione.

Lima de Freitas, nel saggio dedicato alle «cifre simmetriche come simbolo della divinità», di cui qui pubblichiamo la seconda parte (per la prima vedi «Atopon» vol. III, 1994), vede nei numeri il segno di una comunione primordiale tra la «materia» e lo «spirito», una sorta di manifestazione delle strutture archetipiche di un unico mondo. Ci sarebbe un solo e stesso Urgrund (assetto fondamentale dell’Universo nella sua totalità) di cui possiamo discernere la più primordiale manifestazione comune sotto forma di Numeri. Questa idea, così cara ai pitagorici e agli alchimisti di un Unus Mundus, sembra oggi trovare conferma nella fisica recente di David Bohm come pure nella psicologia del profondo di C. G. Jung.

Sotto il palpitare e la diacronia del mito, ci sarebbe l’energia irradiante, «immobile» e acronica di un numero o di una costellazione numerica; nel crogiuolo segreto dei numeri si formerebbero le prime concezioni di divinità e di forza, di causalità e di fatalità, di origine e di fine, di vita e di morte. L’autore rimanda ai miti di differenti culture che rivelano l’origine del fuoco celeste e la sua struttura trinitaria e in particolare esamina il mito dell’eroe Kumaphari degli indiani Sipaia e la narrazione biblica dell’apparizione del roveto ardente a Mosè.

Gli itinerari spirituali, scaturiti dalla meditazione e dalla preghiera, e la natura delle visioni interiori sono esplorate da Raffaele Milani il quale intravvede, uscendo dai cammini tracciati separatamente dalla psicoanalisi, dalla fisica, dalla neurobiologia, un cammino comune delle ricerche umane che sappia mettere a fuoco le aree energetiche e le potenzialità di quei particolari stati della mente umana che permettono all’uomo, in consonanza con l’infinito, di accedere a quegli spazi sconfinati a cui si aprono i paesaggi delle visioni estatiche. L’immaginazione, strettamente connessa alla profezia e all’illuminazione, e privilegio dell’uomo che sa «vedere un mondo in un granello di sabbia/ e il cielo in un fiore di campo/ tenere l’infinito nel palmo della mano/ e l’eternità in un’ora» (Blake), permette alla coscienza umana di muovere verso la più alta conoscenza del Sé, verso l’eterno trascendente.

Colui che ha raggiunto quel superiore grado di coscienza che gli ha permesso di realizzare il tawhîd (la coscienza dell’unità assoluta di Dio) è considerato nel sufismo islamico «Uomo Perfetto» (al-insân al-kâmil), cioè colui che ha realizzato la sua essenza umana, il suo Sé, colui in cui l’essere si è realizzato in tutti i suoi significati, «La pupilla dell’occhio di Dio» ed a lui si guarda come a un polo, un maestro spirituale, una guida, perché «egli sta alla realtà delle realtà come l’aspetto esteriore sta all’aspetto interiore».

Il tema dell’Uomo perfetto, nel quale convergono molteplici correnti culturali e religiose delle aree in cui l’Islam si è espanso, è visto da Giuseppe Scattolincome un prezioso contributo del sufismo alla conoscenza della profondità del mistero che ogni persona umana porta in sé e come una delle dimensioni dell’Islam più aperte al dialogo con le altre culture e tradizioni religiose.

Tale dialogo deve essere considerato uno dei compiti più urgenti nei quali la cultura occidentale debba impegnarsi nell’attuale momento storico.

Tuttavia solo una cultura che sappia abbeverarsi al «profondo pozzo del passato» in una sete di verità inestinguibile, è spinta ad aprirsi ad un dialogo realmente interculturale che riesca a ritrovare, nel rispetto della singolarità di ciascuno, il senso profondo dell’esistenza umana nella totalità del cosmo.

Alla parola del passato attraverso il tema «Memoria e Coscienza, dall’orfismo alla psicologia del profondo», affrontato nel III Convegno Internazionale dell’Istituto Mythos (Roma, 1994), è dedicata la sezione Voci Congressuali che ospita gli interventi degli studiosi (storici, etnoantropologi, studiosi delle reli-gioni, psicoanalisti) che vi hanno partecipato in una visione transdisciplinare. Il convegno è stato aperto da Giovanni Pugliese Carratelli che ha offerto un quadro vivo ed affascinante del pensiero religioso orfico-pitagorico che valorizza fortemente la memoria, rappresentata dalla divina Mnemosyne, madre delle Muse. Le mitiche acque che scorrono dalla fonte di Mnemosyne sono fonte di refrigerio e di vita eterna per l’anima che vi si abbevera e in esse ritrova il ricordo della propria origine urania: «Son figlia della Greve e del Cielo stellato. Urania è la mia stirpe…».

Ma affinché la memoria sia, come ci dicono le laminette orfiche, salvezza dalla morte e recupero del tempo è necessario che essa nasca e si sviluppi nell’interiorità e sappia far fermentare e rinnovare il discorso della coscienza.

La memoria, intesa come ricordo e comprensione del senso più profondo degli eventi del passato, in una visione globale, risponde alla più profonda aspirazione della psiche: fondere la finita esperienza esistenziale con l’intuizione dell’essere, partecipe dell’eternità e infinità del cosmo.

Si è formulata l’ipotesi che un analogo cammino di ricerca di consapevolezza possa oggi essere additato dalla psicologia analitica di C. G. Jung che riconosce la storia dell’umanità, la storia personale dell’uomo e la sua esperienza del mondo fondate e strutturate sulla memoria (archetipica e personale) e basa su tale consapevolezza una possibilità per l’uomo di uscire dagli stretti confini del suo ego per porsi come meta la totalità del .

Annamaria Iacuele