Gli stati molteplici dell’essere (da átopon Vol. V)

René Guénon
Trad. it. Adelphi, Milano 1996
Tit. Orig., Les états multiples de l’être, Paris 1931

Giuseppe Lampis

Guénon (Blois 1886 – Il Cairo 1951) pubblicò questo libro quattro anni prima di lasciare l’Occidente per risiedere definitivamente nell’Egitto islamico. A quel tempo aveva già prodotto una dozzina di testi, fra cui l’importante L’homme et son devenir selon le Vêdânta  (1925). Riproposto in Francia nel 1984 sulla scia di una ripresa di interesse viene tradotto qui da noi dodici anni dopo presso un editore particolarmente attento al filone antimaterialistico e spiritualistico.

stati_esserePrima che fosse legittimato in questo tipo di cataloghi, Guénon circolava in Italia solo fra ristrettissime cerchie di specialisti, accomunato nell’esilio a autori quali Nietzsche, Jung, Eliade, Heidegger, Schmitt, Evola. Tuttavia la crescente insoddisfazione per i valori correnti ha fatto sorgere il bisogno di una revisione critica anche radicale dei fondamenti filosofici della modernità1.

E, in tale contesto, Guénon, campione del pensiero tradizionale, islamista e indianista, estimatore del cattolicesimo medioevale e dell’esoterismo dantesco, autore di La crise du monde moderne (Paris 1927), è riapparso come una lettura base per chi voglia formarsi un quadro non unilaterale e preconcetto del più ampio dibattito sul significato del nostro tempo.

In questo testo, denso e compatto, Guénon riespone ancora una volta la dottrina tradizionale che, a suo avviso, ha trovato la massima enunciazione nel Vêdânta . In verità, Guénon ne espone la profonda e acuta versione del filosofo indiano Shankara (fine VIII sec.), mentre i testi della «parte finale» (tale è il significato del termine Vêdânta) dei libri Veda , codificati in sutra (versetti) nel III sec., si rifanno sostanzialmente alle Upanishad , le quali risalgono – per Giuseppe Tucci2 – almeno al VI sec. prima della nostra era. Le formulazioni upanishadiche spesso sintetiche e enigmatiche, quasi certamente di valore ipomnematico (di aiuto alla memoria e di sostegno a incontri-lezioni orali), nonché le codificazioni di mille anni dopo, condizionate dal pensiero buddista, si prestarono a varie letture e stimolarono molteplici scuole e una vastissima letteratura. Shankara, che discende da una scuola indipendente dalla codificazione predetta del III sec. d. C., sistemò i caposaldi della dottrina riuscendo a rappresentare un punto di riferimento comune di alto valore. La sua opera monumentale di commento alle principali Upanishad e ai Vêdântasutra conclude il processo di sistemazione classica del monismo vedantico.

La sua scuola si definisce adwaita , termine sanscrito che si traduce come “non-dualità ”. Guénon si rifà a essa e in essa trova l’espressione fedele e trasparente della dottrina tradizionale. La quale, peraltro, ritiene permanga identica nell’esoterismo islamico e nel taoismo estremo-orientale.

La distanza temporale tra la sistemazione e l’illustrazione adwaita e i primi testi del Vêdânta (più di un millennio) non avrebbe rilievo sui contenuti dottrinali, trattandosi di società e culture tradizionali, al cui spirito rimane profondamente estranea la propensione all’innovazione e alla cosiddetta originalità vantata dalle scuole di pensiero moderno-occidentali. Del resto, agli stessi testi più antichi si deve necessariamente presupporre una lunga sequenza di trasmissioni orali, sottomesse a regole rigorose e garantite da cerchie di depositari fortemente motivati e gelosi del sapere ritenuto sacro . Tale sequenza, che costituisce storicamente la tradizione, non verrebbe alterata dalle distanze temporali nel caso di società statiche e organizzate nelle loro gerarchie intellettuali con il fine preciso di conservare le idee tramandate. Comunque anche questo tipo di trasmissione, non intendendo diventare vuota e ripetitiva e prefiggendosi piuttosto di mantenere viva la dottrina, finisce naturalmente per produrre vari commenti e attualizzazioni successive. La stessa scuola adwaita è andata infatti evolvendosi nel corso di altri otto secoli, attraverso una vasta produzione che ha precisato i termini e colmato le oscurità iniziali di Shankara3.

Guénon ha criticato in più occasioni lo spirito storicista del mondo occidentale e moderno, vedendovi peraltro uno degli aspetti più salienti della sua crisi, e gli ha addebitato il pregiudizio che impedisce di cogliere il senso delle dottrine esoteriche tradizionali.

Eppure, l’argomento di fondo del suo antistoricismo e del suo antimodernismo sta ancora più sotto il discorso sull’etica o la sociologia della tradizione. Il punto essenziale della sua critica dipende strettamente dalla natura del contenuto della dottrina. Tale contenuto infatti, caratterizzato dal massimo di astoricità, viene da Guénon in definitiva riportato a un simbolo geometrico-matematico refrattario per interna propria natura al divenire della storia.

Sarebbe come a dire che il teorema di Pitagora non trae fondamento dalla persona di Pitagora e che non è in possesso di nessun geometra storicamente accertabile come autore della sua enunciazione; quel teorema riveste il carattere di una verità evidente di per sé, avente una sua ineluttabile autonoma forza ontologica, che per esistere non ha bisogno di un suo riformulatore, e che questi tutt’al più sarebbe un ricettore e un espositore e non certo un suo creatore.

Nel caso in questione si tratta, come è noto, del simbolo polare della croce (le sei direzioni del cosmo manifestato – i quattro punti cardinali, più lo zenith e il nadir – e la settima, quella centrale, sulla confluenza degli assi, rivolta verso l’invisibile), nel quale sostanzialmente culmina il simbolismo del principio4.

La dottrina tradizionale perciò non sarebbe parto né dei maestri indiani del primo millennio a. C. né del maestro Shankara; tutti costoro ne sarebbero stati, molto semplicemente, solo docili veicoli. La dottrina in questione si pone infatti come la verità stessa tout court , anzi l’evidenza dell’infinito stesso, l’evidenza della totalità senza alcuna determinazione e nessun limite.

Ricordiamo di sfuggita che il Veda, quale suono o parola, e il Corano, quale segno sacro o glifo, sono considerati come aventi consistenza ontologica: in breve, come l’essere stesso che si afferma. Voce l’uno e segno l’altro, entrambi creativi e fondanti. Per la stessa tradizione cristiana, mediata dai concetti della filosofia neoplatonica, in principio sta il Logos – Verbum .

Ovviamente, nel linguaggio umano, la sapienza sacra tradizionale potrà solo venire riformulata secondo un’ottica che dell’ineffabile (ineffabile e inesprimibile perché infinito) altro non può dare che simboli, analogie, trasposizioni, cenni, esempi, tutti inadeguati ma utili comunque e saldamente appartenenti alla strada per raggiungere la meta.

Ma, allora, sarà poi davvero lecito parlare di ciò di cui stiamo parlando e vale a dire addirittura dell’infinito?

Un simile problema, per Guénon, può nascere solo per il condizionamento di un errore tipico della cultura filosofica occidentale, l’errore di considerare la conoscenza come qualcosa di distinto dal suo oggetto. In forza di questa premessa erronea nessun soggetto potrebbe mai conoscere alcunché, e tantomeno il tutto.

 Nel caso del tutto, la erroneità di quel presupposto si dimostra ancora più flagrante; infatti, se il tutto viene considerato come oggetto distinto dal soggetto che aspira a conoscerlo, risulterà contraddittoriamente incompleto già in partenza e quindi un non-tutto. Il tutto, al quale sia stato sottratto il soggetto che vuole conoscerlo, non sarà un vero tutto. In conclusione, la conoscenza del tutto resta inspiegabile finché si cerchi di intenderla come basata sui rapporti di un soggetto e di un oggetto separati e distinti.

La tesi esposta da Guénon vuole, per contro, che la vera conoscenza sia solo e sempre conoscenza immediata, e ciò fin dai suoi livelli più semplici, fin dalla stessa limitata e circoscritta sensazione fisica. Nella conoscenza si darebbe luogo – in sostanza – a un incontro nel quale conoscente e conosciuto si assimilano e comunicano senza restare distinti. Il perdurare di una separazione e di una distinzione vanificherebbe l’incontro. (Per il pensiero moderno, invece, la conoscenza si rende possibile proprio per la distinzione e contrapposizione di un oggetto – ob-jectum – nei confronti del soggetto).

Una simile dottrina risulta peraltro contenuta (anche se non ne sono tratte le immancabili conseguenze) nel De anima di Aristotele, dove si afferma che l’anima diviene ciò che conosce.

Già la teoria della conoscenza di Platone ruotava attorno alla constatazione che l’idea (eterna e identica a sé) è impassibile e cioè non subisce modificazione a seguito dell’intervento del suo conoscitore; non essendo modificabile, essa non viene costruita dall’atto di conoscenza bensì soltanto ricevuta così come già da sempre era e come per sempre dovrà essere. Insomma, è l’idea a presentarsi da sé e non la mente a produrla. La verità si svela e presenta già pronta a chi abbia predisposizione a accoglierla. È il soggetto che soggiace all’avvento della verità e che si adegua a essa, finendo per venirne assorbito e acquisito; e dato che è lui a essere modificabile, sarà lui il modificato da quella che invece resta immutabile e sempre eguale a sé stessa. Non sarà pertanto il soggetto conoscente a appropriarsi della verità, ma a rigore quella di lui.

Ancora, la stessa tesi di Tommaso d’Aquino – che la verità consista in una adaequatio dell’intelletto e della cosa –, ancorché successivamente travisata nell’uso scolastico, altro non è che il riverbero dell’enunciato fondamentale della coestensività del pensiero con l’essere, enunciato che – come stiamo vedendo – appartiene al nucleo duro della dottrina tradizionale.

Dobbiamo rinunciare per ovvi motivi a sviluppare in questa sede le implicanze di questo nucleo nell’ambito della problematica gnoseologica della filosofia occidentale. La tesi della identificazione di soggetto e oggetto nell’atto del conoscere non è affatto estranea alla sua lunga storia e anzi vi ha trovato espressioni del massimo livello. Valga per tutti il caso dell’idealismo tedesco, anche se è doveroso tenerne presente la differenza di angolazione prospettica rispetto alla dottrina vedantica. Tale differenza consiste principalmente nel fatto che con l’idealismo si assiste allo straripante dominio del soggetto verso l’oggetto, che viene riconosciuto come suo prodotto. Inoltre si tratta proprio di un soggetto che viene inteso come coscienza.

Fra gli idealisti colui che sembra tentare una strada diversa, con segni di crisi della centralità della coscienza, è forse Schelling. Infatti nell’assoluto schellinghiano si realizza sì la identità di io e non-io ma tale identità contempla la fine del soggetto e della coscienza in una superiore unità insieme con l’oggetto e l’inconscio.

Ciò fu considerato confuso da Hegel, per il quale l’assoluto deve conservare ben risolte in sé tutte le articolazioni e le differenze, per non risultare un puro vuoto.

Per lo stesso Hegel, tuttavia, la conoscenza assoluta si realizza come il risultato culminante dell’assoluto stesso che si autoriconosce e si autoafferma; tanto che il soggetto empiricamente determinato, l’individuo storicamente concreto, in breve l’uomo che siamo noi, può pervenire a quell’alto risultato solo a patto di immettersi in un processo di successive trasformazioni che lo deindividualizzino e universalizzino. Si può certamente dire che, lungi dal perdere la soggettività (che non si limita alla mera empiricità ), egli arrivi mediante i gradi di queste trasvalutazioni a un potenziamento della stessa, e ciò attraverso l’innesto in forme via via sempre più intense e ampie di soggettività, fino alla suprema forma che coincide con lo spirito assoluto.

Non solo, ma per Hegel tale percorso degli uomini nella loro storia non si svolge fuori dall’assoluto bensì necessariamente al suo interno, sicché ne rappresenta una componente strutturale, come tutto ciò che a esso appartiene per essenza e che ne è fenomenologia (o manifestazione , direbbe Guénon).

Ma, nella soggettività dello spirito assoluto e della sua storia universale, l’uomo individuo scompare decisamente.

Nella sua Scienza della logica Hegel afferma che il finito in sé è niente e che la sua natura è costituita dal non essere. L’individuo finito, proprio per questa sua natura, intrinsecamente destinata al non essere e al perire, deve trapassare e realizzarsi nell’infinito: «il finito nel perire non è perito… è andato con sé stesso … questa identità con sé … è un essere affermativo, e quindi l’altro del finito… Cotesto altro è l’ infinito »5.

E questa potrebbe essere una conclusione condivisa da Guénon. Del resto, per Hegel, la negazione non corrisponde mai a un annichilimento bensì nasce da una più alta affermazione.

Di Hegel è stato scritto ampiamente e anche che si tratti in definitiva di un mistico. In tal senso lo si è voluto riconnettere con la mistica tedesca, a ritroso da Böhme (che però Hegel definisce torbido6) fino a Meister Eckhart, e ancora più indietro alla radice neoplatonica e indiana.

Guénon non ne parla volentieri, come sappiamo. Eppure la stessa dottrina dei cicli, quella che ci confina – Hegel compreso – nella fase terminale del cupo Kali-yuga , età di decadenza e di fraintendimento, deve essere letta nei due sensi, nel senso della caduta e dell’allontanamento e insieme del ritorno e del riavvicinamento, dato che per quella stessa dottrina nessun ciclo cade fuori dell’assoluto e nessun ciclo ha il carattere di una fase esterna al principio, come un dopo che possa succedere a un prima e staccarsene. Nella dottrina tradizionale, anche il divenire del tempo trova la sua radice nell’eterno e deve svolgersi e risiedere in esso e non in un fuori impensabile e inesistente.

Tutto ciò implicherebbe una lettura bivalente dell’intera parabola della sapienza filosofica occidentale, a partire dai primi filosofi.

Ritorniamo alla questione della natura della conoscenza. Dunque, per Guénon e il suo Vêdânta adwaita , la coestensività del soggetto e dell’oggetto e la loro indistinzione nella conoscenza immediata consentono di poter dire che il sapere totale (il sapere del tutto) non consiste nella captazione del tutto da parte di un soggetto esterno e separato, bensì nella autorealizzazione del tutto da sé a sé. La conoscenza del tutto – o la verità del tutto – equivalgono alla sua realizzazione: «Brahma è verità, conoscenza, infinito» (p. 126).

Tale realizzazione è forse opera delle parti (e degli individui) che lo costituiscono? No di certo, perché il tutto non ha parti reali in sé, e nessuna somma di parti lo potrebbe raggiungere e costituire. Il tutto si pone come tale proprio perché per sua natura sta aldilà di ogni limite e aldilà di ogni indefinita somma di parti (ogni somma anche se indefinitamente grande, sarà tuttavia finita e non infinita). L’indefinito, per quanto grande possa essere, resta pur sempre un finito mentre il tutto è infinito.

Il tutto inoltre, essendo infinito, non può nemmeno limitarsi al solo campo dell’ essere, dato che l’essere si pone come espressione e forma, e queste hanno la natura del limite. Il tutto deve andare oltre sia l’essere sia la forma.

Esso non è neanche l’uno, perché l’uno è affermazione e come tale, sia pure la più alta e la più universale, resta pur sempre una determinazione. Per contro, l’infinito, il tutto, l’assoluto superano ogni determinazione.

Ecco il punto: l’assoluto della dottrina tradizionale, indù o taoista, islamica o gnostica, è niente . Enunciato paradossale, questo, sul quale bisogna intendersi. Qui, niente non equivale alla privazione assoluta, al nihil absolutum, bensì al non dell’ente determinato, al non-ente, (la differenza ontologica di Heidegger?). Il niente dell’ente determinato equivale a quella che Guénon chiama la possibilità universale, il prima di ogni specifico possibile, il non-limite.

Il niente vedantico è rigorosamente ineffabile e innominabile. Se si prova a parlarne si può darne soltanto l’idea di negazione di ogni possibile nome e di ogni possibile traduzione in immagini tratte dal mondo della manifestazione e comunque dal mondo delle forme. Esso si può solo realizzare o vivere, per così dire, dall’interno; infatti esso costituisce l’unica, infinita, assoluta realtà. Conoscerlo e parlarne in definitiva consiste nel raggiungerlo, integrarvisi, realizzarlo. Anche se, come abbiamo visto, si dovrebbe dire con maggior precisione che esso si realizza da sé e che semmai è esso a realizzare i suoi contenuti.

La conoscenza del tutto e il sapere totale non equivalgono pertanto al sapere razionale e distintivo, alla maniera occidentale, quanto piuttosto a un vero e proprio itinerario iniziatico. Gli stati molteplici dell’essere , di cui al titolo del libro, corrispondono esattamente ai gradi del perfezionamento del destino dell’individuo che si universalizza e che mediante questo itinerario si insedia a mano a mano in livelli sempre più adeguati all’intensità del principio.

Questo percorso di universalizzazione e di ampliamento può apparire, sotto l’angolazione astratta e teorica, come un’estensione e una fuoruscita dal proprio essere, mentre invece realizza un autentico ritorno al centro dalla dispersione nel mondo della determinazione individualizzata. Più si rientra nel punto in cui tutto si raccoglie e da cui tutto procede e più si acquista sotto il profilo della realizzazione della totalità.

L’assoluto vedantico è lo zero, lo zero metafisico. Questo zero, come abbiamo riferito, non è il nihil absolutum bensì il massimo di possibilità, oltre ogni limite e oltre ogni affermazione. Oltre lo stesso uno.

Verso di esso si innalza, risvegliato, il sapiente orientale, lo yoghi , colui che domina la dispersione e si libera a gradi di ogni costrizione e di ogni limite, fino alla libertà assoluta che è quella del senza-costrizione, quella – appunto – dello zero metafisico.

Sta qui – nella idea di zero – la differenza (della quale Guénon parla sempre) tra la sapienza tradizionale e i Greci?

Già prima, nell’accennare a Hegel, abbiamo tralasciato di richiamare la sua celebre alternativa tra infinità buona e infinità cattiva. Per lui cattiva e inautentica si dimostra quella infinità che si prolunga in un’indefinita apertura. Per contro l’infinità autentica e buona, il vero assoluto, non può che risultare chiusa, sintetica, totale, perfetta e circolare, e porsi come quella infinità nella quale la fine non ricade fuori del principio.

L’infinità aperta si dimostra cattiva infinità perché postulerà un oltre e un limite, e cioè un ulteriore e secondo infinito, il quale invece non potrebbe coesistere con il primo, non potendosi dare due infiniti distinti e affiancati per la contradizion che nol consente Inf ., XXXVII, 120). Invece, l’“oltre” coincide proprio con l’infinito che tutto accoglie, supera e comprende.

Questo lo dice anche il Vêdânta. Però per il Vêdânta l’assoluto si pone come zero. Ovvero, per meglio dire, non-dualità ( adwaita ); e nemmeno si potrebbe dire uno, ché posto l’uno ­– il quale è affermazione – ne resterebbe fuori il non-uno.

Sembrerebbe una tesi identica a quella della mistica e della teologia negativa dei neoplatonici, dello Pseudo Dionigi in particolare. Eppure, per Plotino e per Proclo, l’inizio non è zero bensì uno.

Per Platone il cosmo si costituisce nella dialettica tra l’uno e il due. L’uno, il determinante, determina il due, l’indeterminato, detto «grande-piccolo»; l’uno- logos impone la forma al sostrato della diade, che gli fa da materia; e il tutto ne risulta composto da “misti” o “mediazioni” dei due coessenziali principi, tanto che alla fin fine si approda a riconoscere che il vero principio risiede proprio nella mediazione dialettica.

Anche per Platone il non-essere non si pone come assenza e vuoto di essere, nihil absolutum, niente assoluto, bensì come l’altro a cui ogni essere comunque si rapporta per essere quello che è. Ogni essere si costituisce per quello che è perché si distingue da un aliud , da tutto l’altro che esso non è; ma questo non essere che è “tutto l’altro” lungi dall’essere niente resta ancora essere.

Il non-essere si chiarisce come l’essere altro, come il diverso essere, ancora e pur sempre essere. Il “non” che, in un certo senso, circonda il singolo ente serve a renderlo possibile non meno di quanto serva a esso stesso la sua individua positività. Essere e non-essere si appartengono reciprocamente. E il non-essere fa da fondo all’essere.

Il non-essere così inteso, quale l’ambito dell’altro da ogni essere, non è però il tutto. Insomma, per Platone il tutto non è “non-essere”.

Anche i suoi numeri immaginari non hanno niente a che fare con lo zero (e semmai riguardano la speculazione sull’interazione del determinante sull’indeterminato, o del limite sull’illimitato, ricollegandosi pertanto alla sua teoria del misti).

I Greci non conoscono e non accolgono lo zero vedantico come principio.

Adoperando il linguaggio guénoniano-vedantico, si potrebbe dire che, mentre per gli Indù l’inizio è negazione, per loro è affermazione.

Per Pitagora il principio – come poi per Platone, secondo quanto si è detto – ha natura duale: si tratta di quel finito-infinito che dà origine alle coppie successive. Tuttavia, per lui, l’infinito si colloca dalla parte del “non” e ricade perciò sul versante della materia e del male.

Parmenide si esprime fin troppo esplicitamente. Il non-essere semplicemente non è e né si può dire né si può pensare. Tanto il non-essere non è, che l’essere è forma, la più perfetta e omogenea. Anche se la ben nota sfera (8, 43) fosse soltanto e soprattutto simbolica e analogica, con essa si intenderebbe comunque una forma, rigorosamente e necessariamente coincidente con i confini dell’essere. I confini dell’essere non sono stati posti da un potere che voleva negarlo e ridurlo.

L’inflessibile Moira che stringe l’essere (8, 37) rappresenta la necessità e invalicabilità della sua stessa natura. E la Moira parmenidea non è lo zero metafisico vedantico. Per Parmenide, oltre l’essere non c’è assolutamente niente e nemmeno si può concepire alcun ulteriore ambito di possibilità reali oltre l’essere; di modo che la totalità del reale si esaurisce e si perfeziona nel solo esclusivo campo dell’essere.

Del resto «lo stesso è il pensare e ciò a causa del quale è il pensiero, perché senza l’essere nel quale è espresso non troverai il pensare» (8, 34-36).

Sembrerebbe così da escludersi che si possa trattare di mere differenze terminologiche per identici concetti, tali che la “possibilità totale”, ovverosia il non-essere del Vêdânta , sia riformulabile nell’essere parmenideo o viceversa. Né d’altronde si può intendere l’essere parmenideo in senso materialistico. L’essere parmenideo precede la stessa distinzione tra materia e non-materia e il suo carattere di pienezza non può venire equivocato e fatto rientrare in quadro concettuale posteriore e estraneo.

La physis dei primi pensatori greci non può intendersi meccanicamente materialistica, e le stesse classificazioni di Aristotele nel primo libro della Metafisica, pur essendo state prese a base per l’avvio di una tale interpretazione, non legittimano affatto un simile approdo, se non altro perché le cosiddette cause materiali dello Stagirita hanno poco a che spartire con la materia del materialismo scientifico-tecnico moderno.

Piuttosto, la perentorietà delle affermazioni parmenidee, le quali in effetti risalgono alla voce stessa della dea sovrana regolatrice; il “devi” con cui si propongono; la stringente dialettica confutatoria della odos erronea; tutto ciò potrebbe addirittura lasciar intravvedere uno sfondo polemico non solo contro la doxa meno nobile e, per così dire, quotidiana ma forse anche – e a maggior ragione – contro la visione che, pretendendo che il non-essere sia e assumendo il non-essere a principio, si fosse sentita legittimata a intendere il tutto addirittura come non-essere. L’adozione del principio che il non-essere è, anche se apparentemente volta a un disegno elevato, di liberazione dal mondo della caduca molteplicità, finirebbe invece per precipitare allo stesso livello dell’inconcludenza nichilista della doxa più banale.

Forse Parmenide va riletto anche alla luce di una dialettica con il mondo indiano, in particolare con quello nichilista-buddista, nel quadro di un vasto dibattito sulla congruità delle vie per tornare al centro, luogo della verità e della vita. (Come si sa, il carattere saliente del buddismo sta nell’aver fatto prevalere il tema della via e del metodo su quello dello stesso contenuto della verità : se ho una freccia dolorosamente piantata in corpo, a che mi serve perdere tempo nella ricerca sulla natura della freccia?)

Sia per i Greci sia per gli Indiani, la verità coincide comunque con il tutto. Nessuna verità può essere tale se non è quella totale, quella senza residui; nessun “altro” può restarne fuori. Per gli Ebrei, il vero infinito è proprio l’ altro . Dio, depositario della attualità dell’infinito, resta paradossalmente e tragicamente altro dal mondo7.

Il senso tragico e iniziatico della ricerca del vero discende dalla consapevolezza che, lungo la strada del sapere, ogni cosa che ne rimanesse fuori potrebbe revocare il valore del sapere già acquisito. Anche la minima cosa che ne rimanesse fuori potrebbe così far mutare di segno quanto già posseduto.

Tuttavia per i Greci il tutto si presenta pur sempre come cosmo, ordine, splendore, forma. O uno o essere che sia, ma sempre forma e logos. Per gli Indiani, invece, zero. Per questi, l’affermazione totale coincide con la suprema negazione, con il supremo no.

Resta da indagare se sia legittimo avvicinare questa idea all’ apeiron di Anassimandro, del quale non sappiamo molto. Mondolfo ha studiato il tema dell’infinito nel pensiero dei Greci (8) e non lo ha mai visto, presso di loro, come un indeterminato. Per i Greci veramente divino è l’essere concreto, perfezione di una potenza.

La Philippson (9) ha riletto l’ apeiron alla luce del mito primordiale dell’onniavvolgente Oceano. Coomaraswamy (10), studiando l’idea di eternità, ha ritenuto di trovare che Greci e Indiani ne hanno raggiunto la stessa intuizione.

Tutti questi cenni, sommari e certamente parziali, inevitabilmente esposti alla possibilità di dare una fastidiosa impressione di apoditticità, non pretendono di sistemare lo status quaestionis e tantomeno di definirlo. Abbiamo ciò nonostante rischiato di esprimerci così per rappresentare un’esigenza che avvertiamo vivamente: come il grande pensiero greco, davvero una delle più alte parabole dello spirito umano, nostra radice essenziale e profonda, abbia un costante bisogno di venire letto non solo alla luce degli sviluppi europei occidentali, quasi fosse questa l’unica strada per inverarlo, ma anche nell’intreccio del dibattito con l’Oriente, indiano innanzitutto, anche se non solo tale.

Nella storia delle idee, il primo sicuro filo conduttore deve essere rappresentato dalla logica interna del pensiero; tanto che proprio i nessi ideali dovrebbero fornire la mappa agli esploratori.

Alessandro andò a oriente, come già un grande dio greco, Dioniso. Non c’è dubbio che non si trattasse di una strada nuova e sulle strade aperte si va in entrambe le direzioni.

Inoltre qualcosa deve pur rappresentare il fatto che, a parte ogni altra considerazione, nella storia del mondo a cui apparteniamo, verso la prima metà del primo millennio a. C. si affacciano praticamente insieme i primi pensatori greci, le Upanishad, Buddha, Confucio, Zarathustra, i grandi profeti ebraici come Isaia, tutti inequivocabilmente diversi e caratterizzati, eppure egualmente protesi dalle loro specifiche angolazioni verso un nuovo grande tema comune: il compito dell’uomo pensante nella realizzazione della verità.

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Note:

1) In proposito cfr. Giuseppe Lampis, L’arte della politica al tramonto della modernità, Roma 1994. 

2) Giuseppe Tucci, Storia della filosofia indiana, Roma-Bari 1957 (nuova ed. 1977), p. 47. Sul Vêdânta v. pp. 136 ss. 

3) G. Tucci, op. cit., p. 140. 

4) Va tenuto presente che, per l’autore, il simbolo esprime lo stesso dinamismo interno del principio di cui fa parte integrante. In proposito, cfr. Élémire Zolla, Simbologia, in Enciclopedia del Novecento, vol. VI, Roma 1982, pp. 539 ss..

5) Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Wissenschaft der Logik; 1812-1816; tr. it., Scienza della logica di A. Moni, Roma-Bari 1974 (1925), p. 166 (sottolineature di Hegel). 

6) Hegel, op. cit., p. 132. 

7) Emmanuel Levinas, Totalité et Infini, Dordrecht 1961 (V rist. della IV ed. 1988).. 

8) Rodolfo Mondolfo, L’infinito nel pensiero dei Greci , Firenze 1934. 

9) Paula Philippson, Thessalische Mythologie, Zürich 1944; tr. it. Origini e forme del mito greco, Torino 1983, p. 255 ss. 

10) Ananda K. Coomaraswamy, Time and eternity, 1947, in Selected papers, vol. II., Metaphysics, Princeton 1977; tr. it. Tempo ed eternità, Milano 1996; (v. qui recensione a p. 129).