Il dèmone di Empedocle (dal Quaderno 2006: "Empedocle. Una metafisica della colpa")

Giuseppe Lampis

Si parla di dèmoni in associazione alle «anime» che nascono e in particolare in associazione ai colpevoli puniti per decreto divino. Ebbene, di che cosa sono fatte queste anime o questi dèmoni che sopravvivono alle molte particolari combinazioni viventi cui ineriscono e in cui abitano, dato che nel poema fisico si afferma che tutto è fatto solo di elementi materiali mischiati e dissolti?

 

Inoltre, perché la pena si sconta nei passaggi?

empedocleQui si pone il problema del rapporto tra il poema fisico e il poema lustrale. I due testi non sarebbero molto coerenti in specie secondo la interpretazione che fa di Empedocle un anticipatore dello spirito empirico della scienza moderna; ma perché mai un seguace dell’empirismo non dovrebbe vedere nella materia anche il proprio destino?

L’essere di Empedocle è materia e pienezza, lo era anche in Parmenide. Per questa ragione, il tema della centralità dell’io si conforma in quello della centralità del corpo e delle sue potenze.

La poesia lustrale è indirizzata a iniziati. Dunque, ci chiediamo, perché e come la pena si sconta nei vari passaggi di vita?

Il punto è incomprensibile se non si risolve il dubbio sul dèmone. Il dèmone non è niente di aggiunto alla cosa, ogni cosa è in sé già un dèmone in quanto è permeata e formata di demonicità. Le forze cosmiche che compongono e scompongono – philìa e neîkos – sono esplicitamente chiamate dèmoni nel frammento 59.

Peraltro anche in Parmenide (fr. 12) è una dèmone che, insediata in mezzo ai cieli concentrici, governa tutto, spingendo le femmine a unirsi ai maschi e viceversa.

Il dèmone è l’azione, l’attitudine, la capacità di risonanza dell’ente.

In sostanza, qui entra in gioco in modo decisivo il problema se in un universo del continuo e del pieno qualcosa possa passare e trasferirsi da un luogo all’altro.

Si risolve il problema dell’anima dèmone se si risolve il problema della maniera di passare e comunicare nel pieno. Infatti non si danno né respiro, né percezione, né pensiero, né memoria, se non si dà contatto fra diversi e lontani, se un potere dell’ente determinato non passa, appunto, nel pieno. L’anima dèmone è ciò che, a vari livelli di intensità e corposità, può passare nel pieno.

Empedocle ha assunto perfettamente la tesi di Eraclito, che il dèmone dell’uomo è il suo ethos, pensandola nel quadro di un universo tutto animato; egli potrebbe condividere perfettamente la risposta di Eraclito a chi si meravigliava di averlo trovato a scaldarsi davanti a un forno che «gli dei abitano anche qui» (test. 9).

Non c’è un’anima distinta dall’ente che trapassa da uno all’altro, ma è l’ente stesso che in quanto tale paga il debito contratto: la morte paga la nascita. L’ente in quanto tale è insieme colpa e riscatto. Questo pensiero sta nel fondo dello scenario secondo il quale la nascita (la nascita strettamente connessa con la morte) è opera insieme di amicizia e di contesa.

signorelli_empedocleOra, qui, di quali nascite si sta parlando? Ci sono nascite talmente comprensive di vita che non possono essere pagate con una sola morte, viventi che annodano in sé stessi una tale carica vitale e demonica che per restituire quanto con il loro esistere hanno separato dall’uno non basta che muoiano una sola volta. Non muoiono di una sola morte perché sono molte vite. Del resto tutti i corpi non sono semplici bensì constano di varie membra e sistemi e apparati.

Inoltre, per aversi trasmigrazione dell’anima dèmone, dopo tutto non è necessario che si dia un salto ontologico rispetto alla tunica di carne del corpo. Dovendo anche l’anima o il dèmone essere di materia, si può benissimo dare la liberazione dell’elemento materiale più sottile, fine e mobile del composto, elemento suscettibile per sua disposizione naturale a portare in sé una forma più prossima agli dei e a raggiungere in essa il riverbero e la risonanza della più intensa e concentrata unità e coerenza del tutto. Questo elemento, spiccatamente propenso alla tensione verso l’alto, è il fuoco, fuoco che anche in Empedocle è luce e etere. Ogni elemento o radice può manifestare la sua forma più pura a seconda delle proporzioni in cui si mescola con gli altri.

L’etere è la luce fredda e ingenerata, indiveniente e ferma, verticale e siderale, senza cambiamenti di colore, la luce nera del polo iperboreo. Più che il sole, è il lampo. L’etere greco traduce lo ksha vedico, la luce fredda eterna che precede il sole e gli astri, il sole di mezzanotte, del solstizio di inverno – di questo si vedrà più avanti nel capitolo sul vortice – . Ma soprattutto l’etere akasha, autentico fuoco vivente, è insieme suono e parola, il lógos cosmico identificato dal fuoco di Eraclito.

La luce viaggia anche nel pieno. Il punto è affrontato nella spiegazione empedoclea del fenomeno della vista, con il fuoco interno all’occhio che esce a incontrare il fuoco esterno.

Del resto, dato che ogni elemento consta di innumeri corpuscoli, si deve pensare che la potenza di guida della luce dipende dalla configurazione della proporzione del composto. La sede del pensare, per Empedocle, è il sangue, composto squisitamente di fuoco luce. L’«io» del fr. 117 che sa e vede e ricorda è l’elemento apollineo, la luce che guarda e che guardando attraversa tutto il cosmo: il soggetto del «guardare» si slancia senza dovere uscire da sé, la proiezione con cui si connette e identifica con il guardato non importa nessun dualismo ontologico.

In sintesi, il corpo migliore e più affinato non solo non contiene un’anima prigioniera ma è contenuto da un corpo di luce di cui rappresenta la base grossolana. Il fuoco luce, l’elemento apollineo che nel cosmo tende all’alto in quanto è il più libero e dinamico, viene condannato a passare in varie misture con elementi antagonisti più grossolani e pesanti, passaggi che sono conflittuali e che per esso valgono come pene e pedaggi da pagare per liberarsi dai gravami imposti dal destino.

La leggenda vuole che Empedocle si sia gettato nel fuoco dell’Etna per concludere l’esilio con il privilegio del ricongiungimento con l’elemento nobile, da dio che era.

D’altro canto, se l’anima dèmone è materiale, ci saranno anime e dèmoni di fuoco, di aria, di acqua e di terra, ciascuna potente nei limiti delle capacità di cui l’elemento è dotato e dell’equilibrio e della proporzione con cui entra a comporre con gli altri elementi i vari enti.

Eraclito era stato nettissimo sulla natura ignea delle anime e sul pólemos cui vanno incontro; per lui le anime muoiono diventando acqua (fr. 36) e l’anima asciutta è la migliore (fr. 118).

Vedremo più avanti che per Empedocle gli uomini vengono accolti alla nascita da due dèmoni, una solare e l’altra ctonia.

Sotto la necessità di molte morti per pagare il debito, Empedocle adombra che queste riguardino viventi che contengono molte vite, le molte vite – appunto – relative a quelle molte morti. In una certa molteplicità di viventi in effetti si deve vedere circolare un vivente unico più grande che li abbraccia e li comprende.

Inoltre va considerato che le restituzioni sono multiple perché il corpo è costituito da molteplici sistemi e apparati dotati di una certa indipendenza, tant’è che varie membra (guîa), teste, braccia, occhi, ecc., poterono nascere ancora prima di essere assemblate.

Le purificazioni equivalgono a progressive morti dell’individuo mediante le quali si rovescia la tendenza alla fissazione nel particolare. Come la nascita di certe individualità è comprensiva di vari intrecci così lo scioglimento deve ripercorrere tutti i nodi.

Giuseppe Lampis


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