Il nomos della terra nel diritto internazionale dello "Jus Publicum Europaeum"

(da àtopon, Vol. I, 1992)

Carl Schmitt
tr. it. Milano 1991
tit. orig. Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, 1950

Giuseppe Lampis

Carl Schmitt e il nomos della terra:
il nichilismo giuridico del nostro tempo

Carl Schmitt è un grande pensatore della politica e un grande indagatore del significato del nostro tempo.

A suo avviso noi ci troviamo all’indomani di un rovesciamento epocale di valori, essendoci allontanati da quello che da lui è definito il “nomos della terra”.

L’impulso originario a creare un ordine ( Ordnung ) e a situarlo e localizzarlo ( Ortung ) è culminato nella straordinaria realizza ­ zione dello  Jus publicum Europaeum, ma ormai sia questo sia l’Europa sono stati detronizzati dal passaggio all’età dell’unificazione globale del pianeta sotto il dominio scientifico-tecnico-industriale.

In questa età, il nuovo “ritiene di non aver più bisogno di una legittimazione e di una copertura giuridica” (p. 24) e dunque si pretende legittimato in quanto nuovo.

Il progresso scientifico-tecnico-industriale unifica l’umanità e abolisce il “nemico” esterno. Non c’è più stato sovrano accanto ad altri stati sovrani, ma un’unica società planetaria senza sovrani. Il nemico è derubricato a delinquente all’interno di una società sostanzialmente già pacificata, la politica è aboli­ta e sostituita dal paninterventismo della polizia criminale. Non si dà più guerra tra stati reciprocamente riconoscentesi come sovrani, e il conflitto – alimentato dal continuo sorgere di soggetti nuovi non statuali – si configura come “guerra civile mondiale”.

Siamo, dunque, in una vicenda di tipo vichiano, in cui una nuova barbarie – la “ingens sylva” – spodesta le opere della ragione oggettiva e revoca ferocemente la civiltà dello  jus al suo culmi­ne. Si tratta del ritorno di un nuovo che sa di antico, di quel regno di belve che per G. F. W. Hegel e K. Marx è la società civile o il puro economico prestatale.

In questa situazione, accade che il nemico misconosciuto come esterno e “sovrano” paritetico si affaccia come interno e forse ancora più radicale. Il  polemosprimordiale della coppia antago­nista, amico nemico, costitutiva della vita politica non può essere abolito e, così, il nemico da esterno e “razionale” si fa interno e il mondo che si è nuovamente aperto diventa nemico a sé stesso.

L’età della “politica della guerra civile mondiale” (perché la scomparsa degli stati sovrani di tipo europeo non vuole dire scomparsa dell’essenziale polemicità della politica intesa come fondazione di cosmi giuridici) è l’età della diffusione di nuovi soggetti della politica, che si pretendono legittimati per il loro mero esserci. “Il diritto arbitrario del più forte (la cosiddetta forza normativa del fattuale) è una espressione della metamorfosi dell’essere in un dover essere, del fatto in legge” (p. 63). Il mero fatto di esserci è preteso come sufficiente a fondare valore. I concetti di stato e sovranità sono accantonati, e “costituzione, legge, misura, sono semplicemente trasformate in altrettanti metodi di una permanente trasmutazione di valori; in tal modo sorge il moderno fenomeno della rivoluzione legale” (p. 22).

È l’avvento di un nichilismo globale: “le moderne opinioni intorno al diritto e alla legalità si adeguano alla rapidità del progresso scientifico-tecnico-industriale, mentre in precedenza i rivoluzionari hanno sempre mantenuto un certo rapporto con qual­che passato storico” (p. 14). La coscienza moderna nasconde l’ag­gressività nella sua concezione del progresso, una aggressività che è distruttiva.

La negatività dell’epoca della tecnica e dell’industria 

Al contrario, l’autentica rivoluzione è fonte di razionalità : essa libera il campo dagli ostacoli che si frappongono all’at­tuazione della ragione e cioè al dispiegarsi della volontà legi­slatrice.

CarlScmittL’autentica rivoluzione non è né permanente né distruttiva, essa s’incarna nel tipo della dittatura che Carl Schmitt definisce “sovrana” distinguendola da quella “commissaria” che rimane pur sempre nell’ambito di una costituzione vigente, da cui appunto è contemplata. La dittatura sovrana non discende da una costitu­zione ma l’instaura; essa rimuove con la propria azione tutto l’ordinamento esistente e non si limita a sospenderlo; essa impone la costituzione autentica.

Il fondamento della legittimità non è ipocritamente riposto, pertanto, nella continuità formale con norme precedenti, bensì nella capacità di interpretare il volere comune del popolo di esistere, e di esistere contro un nemico.

Il fondamento della legittimità non è giuridico ma politico, non è coerenza astratta di norme risiedenti in un soggetto puro, del tipo “umanità ”, ma è il concreto incarnarsi di una comunità che si fa tale in quanto si dà regole e razionalità. Il diritto, lo  jus, sorge da un atto pregiuridico; la “regolarità ” costituziona­le e giuridica nasce dalla “irregolarità ” fondante del combatten­te per la vita, il “partigiano”.

Le pure convulsioni innovatrici non fondano nulla di stabile se non si fanno stato.

A grandi linee, queste analisi di Carl Schmitt si svolgono sullo sfondo della lettura del maestoso pensiero giuridico politico hegeliano. E qui in lui c’è un’inquietudine particolare, una tonalità amara: lo stato è precario, relativo, storico; e, pro­prio quando si fa stato mondiale, si manifesta intrinsecamente instabile, denunciando quasi una sua impossibilità.

Direbbe Hegel che lo stato nasce proprio se sa piegare e racco­gliere sotto di sé la società civile e le sue spinte “econo­miche”, particolaristiche per essenza.

Direbbe Marx che questa è una menzogna e che ciò che verrebbe e viene piegato non è la società civile bensì una sua classe da parte di un’altra, la quale poi razionalizza giuridicamente il proprio dominio.

Ma Schmitt dice un’altra cosa ancora: che l’invadenza planeta­ria di quella cosa che da lui è chiamata “progresso scientifico-tecnico-industriale” ( la tecnica come destino di Heidegger?), e che altri chiamerebbero capitalismo, rende impossibile lo stato. In breve, la tecnica non è un particolare gruppo di interessi confliggente con altri all’interno dell’economico, riducibile all’ordine statale o perché piegata o perché vittoriosa; essa ha imposto un mondo, quello dell’organizzazione intensiva dei mercati nazionali integrati, in cui il “titolo” che dà diritto al possesso è la novità permanente e ciò è destabilizzante, distrut­tivo, nichilista. La civiltà giuridica europea ne risulta detro­nizzata e il suo frutto più maturo, il diritto internazionale, fondato sul concetto di stato sovrano, è reso impossibile.

Per quale ragione?

Per oltre due secoli, dopo le sanguinose guerre di religione intereuropee, la guerra è stata messa “in forma” e non si sono avute guerre di sterminio o annientamento. L’interventismo plane­tario odierno, promosso dalle dottrine giuridiche degli Stati Uniti d’America, ha di fatto abolito il concetto di guerra giusta con il suo simmetrico di nemico giusto.

La dichiarazione Stimson (segretario di stato U.S.A. 1932) con la quale si pretendeva negare il “riconoscimento” a mutamenti intervenuti con l’uso illegittimo della forza in ogni parte della terra, “si estende ormai a riguardare l’ordinamento spaziale della terra” (p. 407).

Si rifiuta la guerra-duello e si passa alla criminalizzazione del nemico. Il nemico, non riconosciuto sovrano ed esterno, resta in noi e la politica diventa disinfestazione criminale interna­zionale.

È l’avvento del nichilismo. Dato che il problema della politica è di affrontare il duello fondamentale con il nemico per arrivare a un ordine e radicamento ( Ordnung und Ortung ), una politica che sradica è negativa.

Il moderno rovesciamento per cui  cuius oeconomia, ejus regio, esplicitato dalla dottrina del presidente Wilson (1907) – che dovesse essere riconosciuto il governo pervenuto al potere dopo colpo di stato o rivoluzione solo dopo una sanzione costituziona­le di una rappresentanza liberamente eletta dal popolo -, assegna al più forte il potere di “assimilazione” e conglobamento planetario.

La questione del “riconoscimento” dei nuovi soggetti o dei ribelli è questione chiave per la visione che fonda il diritto sulla coppia amico nemico e fa del partigiano il protagonista della politica.

Il diritto internazionale europeo moderno è costruzione piena­mente matura che concepisce l’ orbis globalmente proprio perché non esclude (come i grandi imperi preromani) il vicino, ma lo riconosce. La piena maturità si raggiunge con l’idea della coesi­stenza fra imperi, con l’idea del nemico giusto e con la limita­zione della guerra.

Insomma, il nemico non può essere abolito con una finzione giuridica: se accade, e se accade che ne sia impossibile il riconoscimento, siamo alla ritornante barbarie vichiana. Infatti, la stessa regola che presiede al “riconoscimento” del nemico cosiddetto è simmetricamente applicabile a giudicare la legitti­mità del soggetto che pretende di essere titolare del riconosci­mento stesso.

Del resto, anche nella figura hegeliana della dialettica della dominazione (servo signore), il signore ha bisogno di essere “riconosciuto” come tale da un “salvato”.

Lo sfondo religioso del diritto

Ma cosa ci si può aspettare, quale “ordine” ( Ordnung ) ci si può aspettare da chi ha perso il senso del “radicamento” ( Ortung ) spaziale concreto del diritto?

Ormai, “nella connessione esistente tra Utopia e Nichilismo, si può vedere una definitiva separazione tra ordinamento e localiz­zazione nello spazio” (p. 53). La perdita del senso concreto del confine, dell’occupazione di spazio, porta al fatto che “oggi sembra possibile pensare che l’aria divori il mare e forse anche la terra e che gli uomini stiano trasformando il pianeta in una combinazione di depositi di materie prime e di portaerei” (p. 29).

È per questo motivo che “il pensiero degli uomini deve nuova­mente rivolgersi agli ordinamenti elementari della loro esistenza terrestre. Noi siamo alla ricerca del  regno di senso della terra ” (p. 15, sott. mia).

Con queste parole, Carl Schmitt rientra nel cono d’ombra della sollecitazione di Heidegger a imparare ad abitare la terra, quell’abitare autentico che è un salvarla, liberarla, lasciarla tornare a essere se stessa. Infatti è solo in armonia con quell’abitare rispettoso e liberatorio che lo stesso costruire (il “produrre” cose della tecnica) sarà un dare senso allo spa­zio, anzi dare e concedere spazio  tout court.

L’azione degli uomini deve aprire significati e lo potrà fare recuperando il rapporto giusto tra ciò che si fa e il posto dove lo si fa. L’azione degli uomini deve creare “nomos”, “misura”.

Per capirlo, bisogna reimmergersi nella storicità autentica e concreta, in quello che Savigny, il fondatore della scuola giuri­dico-storica, intendeva per storicità ; riscoprire il profondo legame del diritto con la geografia, ma più ancora con le “fonti mitiche […] che ci sono state rese accessibili da Johann Jakob Bachofen” (p. 14).

Capiamo così che, per Carl Schmitt, collegare il diritto alla sorgente che lo alimenta, alla terra, è collegarsi a un grande archetipo che dà senso e valore. La costruzione di norme non può non fondarsi su un modello capace di conferire significato; insediarsi nel mondo e darsi un orientamento è sempre concretiz­zare un logos.

Qui si percepisce lo sfondo trascendentale e, in ultima analisi, religioso, del pensiero di Carl Schmitt. In lui il diritto non è sistema in cui l’universalità della norma è data dal suo essere riferibile a soggetti astratti e quindi indifferenti, ripetibili come puri numeri cartesiani e sradicati.

Riferire il diritto all’Umanità è utopia e impotenza. Il libe­ralismo stesso è una finzione, perché nessuna costituzione può spingersi fino a disarmarsi di fronte al suo nemico assoluto. Nessuna costituzione liberale prevede di essere abolita legitti­mamente da uno dei soggetti concorrenti. La sua finalità più alta è, semmai, la riduzione progressiva nello stato di quanti più soggetti possibile, purché ne accettino, evidentemente, il pro­getto stesso. Nessuna costituzione liberale esclude lo stato d’eccezione, anzi il cuore metagiuridico nascosto di ogni costi­tuzione è proprio lì, nella norma che sospende le altre norme per difenderle dall’attacco radicale.

Lo  jus trova fondamento su un piano più profondo. Si tratta del piano dove confliggono il bene e il male, non come esclusiva (moderna) vicenda privata e personale, ma come storia oggettiva. Il diritto è un episodio essenziale nella lotta archetipica tra bene e male. Al di là del profilo di Vico intravediamo così la gigantesca figura del  De civitate Dei di Agostino. L’Impero è una forza che trattiene l’avvento dell’Anticristo, è  kat-echon, forza “frenante” (p. 43), basata sulla decisione di combattere il male, il nulla, la fine del mondo. Con esso si voleva costruire un mondo civile per evitare il dissolvimento: così il cristiane­simo di Gerolamo, Tertulliano, Lattanzio percepiva l’Impero romano o il suo nucleo essenziale al quale dare continuità.

E, d’altronde, la continuità tra diritto internazionale medioe­vale e diritto dell’Impero romano sta “nella concreta localizza­zione spaziale in rapporto a Roma e non già in norme e idee generali” (p. 43).

Il nomos della terra

Il punto è che “ il diritto è terraneo ” (p. 20, sott. mia).

“ L’occupazione di terra costituisce per noi, all’esterno (nei confronti di altri popoli) e all’interno (con riguardo all’ordi­namento del suolo e della proprietà entro un territorio),  l’ar­chetipo di un processo giuridico costitutivo . Essa crea il titolo giuridico più radicale” (pp. 25-26, sott. mia).

Tutti gli ordinamenti preglobali erano essenzialmente terranei anche se comprendevano domini marittimi e talassocrazie. La loro trasformazione e superamento in una nuova visione appartiene alla coscienza globale della terra che interviene nell’epoca delle scoperte geografiche, con le quali la terra è compresa e misurata dagli europei.

È allora che nasce il primo  nomos della terra, che per quattro secoli sostiene un diritto internazionale eurocentrico.

La rivoluzione industriale rovescia il concetto di spazio e porta a un nuovo nomos: per l’industria l’elemento è il mare, lo spazio libero da correre. In seguito, “i concetti di terraferma e di mare libero sono stati entrambi profondamente trasformati […] da un nuovo avvenimento spaziale: la possibilità di un dominio dello spazio aereo” (p. 28), cosicché, come si è detto sopra, “sembra già possibile che gli uomini stiano trasformando il pianeta in una combinazione di depositi di materie prime e portaerei” (p. 29).

Il mare originariamente era lo spazio della libera preda. Su di esso si proietteranno le talassocrazie con le “occupazioni di mare” nelle quali si estende il concetto delle grandi occupazio­ni di terra, fondazioni di città e di colonie. “Il mare non conosce un’unità così evidente di spazio e diritto, di ordinamen­to e localizzazione” (p. 20). Esso sarà occupato da Assiri, Cretesi, Greci, Cartaginesi, Romani, Anseatici, Inglesi, ma “i grandi atti primordiali del diritto restano invece localizzazioni legate alla terra” (p. 22).

Il diritto è terraneo. “La terra risulta legata al diritto in un triplice modo. Essa lo serba dentro di sé, come ricompensa del lavoro; lo mostra in sé, come confine netto; infine lo reca su di sé, quale contrassegno pubblico dell’ordinamento” (p. 20).

La parola chiave è  nomos . Essa viene da  némein, che vuol dire dividere ma anche pascolare. Nomos è, quindi, la prima misurazio­ne da cui vengono tutti gli altri criteri di misura; la prima occupazione di terra, con relativa divisione e ripartizione dello spazio; la  “suddivisione e distribuzione originaria” (p. 54, sott. mia).

L’ordinamento sociale e politico di un popolo si fa vedere e concretizza con immediatezza proprio nella prima delimitazione del territorio del pascolo, nella misurazione della terra che si occupa. Queste operazioni danno inizio a un ordinamento e lo fissano a uno spazio. Esse sono l’espressione del  nomos .

Giuseppe Lampis


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