La fiaba mediatrice
tra culture ed esperienze umane
Dagli atti della Tavola Rotonda "Fiaba Magistra Vitae" Bracciano 15 dicembre 2009

Chiara Mantini

 

Ad Alì, Habib, Mustafa,
poiché sono stati l’anima di un lavoro che,
senza il loro impegno, non sarebbe mai nato.

Ci sono bambini che quasi non conoscono favole perché nessuno gliele ha mai raccontate o ne hanno perso il ricordo, come i ragazzi costretti a fuggire dall’Afghanistan per andare incontro alla vita. Sono i figli della guerra, arrivati in Italia dopo mesi e mesi di cammino, passando per l’Iran, l’Iraq, la Turchia, la Grecia, clandestini e ricercati dalla polizia in quanto fuggitivi. Qui hanno lo stato di rifugiati politici. Sono i ragazzi con cui lavoro e vivo ogni giorno nella comunità in cui alloggiano.

Li ho invitati a provare a raccontare qualche fiaba afgana rimasta nei loro ricordi, pur sapendo che sarebbe stato difficile il ricordo visto il loro passato e in ogni caso sarebbe stato difficile che riuscissero raccontarle in italiano viste le difficoltà che hanno con la lingua italiana.

Ho detto che avevo bisogno del loro aiuto perché volevo partecipare ad un convegno sulle favole e la multiculturalità. Il contributo iniziale dei ragazzi è stato quello di procurarmi del materiale: storie riguardanti l’Afghanistan e la loro tradizione. Poi, con il vocabolario alla mano, abbiamo lavorato alla traduzione; mentre trascrivevo le loro parole, sentivo che pian piano stava nascendo l’interesse di stare lì, insieme, a dare un senso a quei momenti.

La vita in comunità è fatta di orari, impegni, disattenzioni, faccende da sbrigare… Ci si deve ritagliare dei momenti per dialogare con i ragazzi che pure hanno un costante bisogno di essere ascoltati ma che sono travolti dal tempo che corre …

In molti di questi ritagli di tempo, Alì arrivava da me con i fogli della traduzione in mano e mi diceva: “Facciamo?”, gli altri, Habib, Aman, Mustafa, si univano o si alternavano, fornendo una parola e un aiuto. Coinvolgerli in questo lavoro è stato un modo per riconoscere il valore della loro cultura, delle loro ricchezze e conoscenze, per creare un momento di scambio profondo, culturale ed emotivo.

Naw ruz 

Èla storia di due ragazzi, Hama afgano, Fridon iraniano, che si incontrano per strada e decidono di andare insieme in una cartoleria a comprare della carta colorata per fare i regali. Mancano 12 giorni alla festa più importante dell’anno, il Naw Ruz (Capodanno) e tutte le famiglie sono impegnate nei preparativi.

(Hama racconta che in Afghanistan l’anno inizia il 21 marzo, giorno d’inizio della Primavera e che i preparativi iniziano dal 15 del mese Esfand (20 febbraio – 20 marzo).

La mamma pulisce a fondo tutta la casa, le camere e i vetri; il giorno della festa si mettono a tavola 7 vassoi di grano e lenticchie; un vassoio con sette tipi di frutta che inizia per “s” (in persiano); si colorano le uova; poi si mettono in tavola anche il Corano, uno specchio, una candela colorata, l’acqua, una spiga di grano, i dolci. Quando tutto è pronto si indossano i vestiti della festa e si aspetta il nuovo anno. Appena sentono i fuochi di artificio tutti si abbracciano e si scambiano gli auguri.

Fridon racconta del Capodanno in Iran: anche lì si uniscono a tavola tutti insieme e si prepara l’Asfin, il tavolo delle 7 “s”; dopo mangiato i genitori danno i regali ai figli e poi escono tutti insieme per andare dai parenti.

A Capodanno la strada è spettacolare: sono tutti ben vestiti e contenti e poi ci sono i fuochi di artificio.

L’albero incantato

Èil 21 Marzo, festa della primavera e del nuovo anno; il Paese è in fermento e sulla strada c’è il grande mercato di Capodanno.

lalberofecondoSadia e suo figlio Ziaullah sono rimasti soli dopo la morte del marito e la loro vita è difficile, non hanno molti soldi. Ma quel giorno avevano deciso di andare al mercatino per dimenticare i problemi e la tristezza.

Alla vista di un venditore di pere, il bambino chiede alla mamma di comprarne una e, nonostante tutto, la mamma decide di accontentarlo. Tutta la gente si accalca intorno al fruttivendolo fino a quando nel cesto non restano che poche pere.

Mentre Ziaullah addenta il frutto gustoso, si avvicina un mendicante, pieno di stracci ed affamato che chiede al venditore di dargli un frutto; il venditore infastidito lo caccia via ma Sadia, presa dalla pena per quel povero vecchio, spende un altro soldo e compra anche per lui una pera.

Il mendicante inizia a mangiare conservando tutti i semi; poi chiama Sadia e il bambino vicino a lui, scava una piccola buca e vi ripone i semi; sotto gli occhi della folla che intanto si era avvicinata per deridere l’uomo, ecco che inizia a sbocciare un alberello, che cresce fino a riempirsi di pere lucenti.

Il mendicante le coglie e ne regala una per ognuno, dicendo: “ Mi raccomando! Quando vorrete dei frutti buoni come questi, conservate i semi e piantateli, ma dovrete dividere i frutti con tutti, amici e parenti e viandanti…”

Intanto l’albero si era fatto piccolo piccolo fino a scomparire ed il mendicante era scomparso nel nulla, mentre nell’aria si sentiva un leggero profumo di pere.

Ogni giorno mi scontro con i sentimenti contrastanti che mi suscita il mio lavoro, vivendo la vita dei ragazzi ed accorgendomi che non sono affatto tristi ma, al contrario, che hanno una energia che è propria della loro età e che è universale; non c’è guerra che possa cancellarla.

Solo guardando in fondo ai loro occhi si può notare un velo di nostalgia per le famiglie che hanno lasciato e le loro terre che, a volte, non trovano spazio di espressione.

Il tema della festa è stato forte e difficile da affrontare; mi hanno spiegato la data del Capodanno e come si determinano alcuni periodi festivi sul calendario; ma alle mie domande sulle loro emozioni ho ricevuto risposte molto vaghe, come se non avessero mai veramente vissuto il Capodanno così come è raccontato nelle due favole.

Tutti i ragazzi hanno apprezzato maggiormente la storia di Ziaullah, il bambino povero che riceve il dono di un grande insegnamento di pace e di umanità.

Ci sono dei valori importanti che custodiscono dentro se stessi, c’è un piccolo seme che può dare tanti frutti e che è, forse, l’impegno costante che devono avere in Italia per studiare, ottenere il permesso di soggiorno, un lavoro… C‘è la fede che li guida, c’è la preghiera quotidiana, la solidarietà che mettono in atto all’interno della comunità poiché sono tutti fratelli e vengono tutti dalla stessa storia…

Alcuni giorni dopo questo piccolo lavoro di gruppo, un altro ragazzo, che non aveva aderito alla mia proposta, mi ha chiesto di aiutarlo in un lavoro che sta facendo al corso di italiano: “ Devo scrivere delle storie, che invento io… Mi dovresti aiutare a scriverle bene in italiano, poi potrebbero servire anche a te… Per i tuoi bambini!”

Credo di aver piantato un seme…

O forse ho preparato un terreno fertile dove i ragazzi possono coltivare i propri segreti per coglierli, poi, al momento giusto.

Nell’arco di un anno alcuni ragazzi vanno via, alcuni arrivano, altri restano per molto tempo, ed in questi continui incontri c’è sempre il momento dell’accoglienza o del saluto; sono tutte favole che vanno via per continuare a raccontarsi in un altro posto o che arrivano per essere conosciute.

I loro corpi sono come dei libri pieni di segni, cicatrici, tatuaggi che raccontano la loro vita; se ne possono osservare i movimenti ed intuire che passano molti mesi a studiare l’ambiente e le persone per capire se lì si può restare e costruire qualcosa per il proprio futuro.

In questo gioco di perlustrazione parola dell’educatore diventa importante se detta nel tono giusto e al momento opportuno e non c’è da meravigliarsi se, molto spesso, la loro risposta è un silenzio.

Ogni ragazzo è, in realtà, un narratore di storie che fa sì che il mio lavoro diventi una sorta di contenitore in cui confluiscono visi, occhi, sogni, pensieri, esperienze, tradizioni diverse; ed è proprio in questa dimensione che mi impegno per mettere in campo l’ascolto e la comprensione di cui i ragazzi hanno bisogno.

Questo piccolo esperimento sulle favole è stato un ulteriore strumento per comunicare loro che io sono lì e che la mia presenza non è soltanto funzionale alle mansioni quotidiane ma è, soprattutto, una presenza educativa, nel vero senso dell’accompagnare la loro crescita verso lo sviluppo della personalità ; ed è in questo messaggio che colgono l’occasione per iniziare a raccontarsi, sfruttando quello spazio di condivisione e di convivialità.

Ho conosciuto tante storie e quello che mi colpisce,ogni volta, è la loro capacità di ricordare ogni piccolo dettaglio del viaggio che hanno fatto. Talvolta ho l’impressione che lo arricchiscano con elementi di fantasia per rendere il racconto più interessante e per mantenere viva la mia curiosità ; in questo senso la narrazione permette lo sviluppo dell’immaginazione, attività fondamentale del pensiero infantile e molto importante anche nell’età adolescenziale poichè permette di esternare degli elementi interni che, altrimenti, resterebbero muti nell’inconscio.

Altre volte mi è capitato che il racconto era talmente lungo da doverlo rimandare al giorno dopo dicendo: – Mi raccomando ricordati dove eravamo arrivati, così domani mi racconti la fine!-

Questa interruzione è vissuta in modo positivo poiché dà un senso di continuità, fondamentale per creare la certezza che domani ci sarà ancora qualcuno disposto ad ascoltare; proprio come ogni fine turno di lavoro non è vissuto come un abbandono perché i ragazzi sanno che il giorno dopo l’educatore tornerà.

Un gruppo di lavoro che racconta e si racconta deve avere come presupposto la dimensione temporale, cioè i momenti diversi dello stare insieme e del lasciarsi; anche la pausa permette di rivivere la narrazione, di interiorizzare l’esperienza vissuta, di sviluppare la creatività.

La fine delle storie non è soltanto il loro arrivo in Italia, ma soprattutto un nuovo inizio dove confluiscono tutte le aspettative e le speranze riguardo alla permanenza in un nuovo Paese.

Mi piace pensare che, in fondo, come in ogni favola, c’è il bene e il male, la realtà e la fantasia, la cultura che si tramanda alle nuove generazioni ma, soprattutto, c’è sempre un eroe che con le sue abilità riesce a compiere la difficile impresa.

I miei ragazzi sono tutti degli eroi, portatori di un cultura che si ripete in ogni epoca, quella dell’emigrante, del viaggiatore che lascia il suo Paese per andare in cerca di fortuna.

Chiara Mantini


Articoli correlati