La psicoanalisi come metanoia (da àtopon Vol. III)

Comunicazione tenuta al
II Convegno Internazionale di Psicoantropologia Simbolica e Tradizioni religiose dell’Istituto MYTHOS: Simboli della trasformazione – L’uomo come tensione creatrice

A. Iacuele e M.P. Rosati

Compito essenziale e prioritario della psicoanalisi ci sembra debba essere quello di porsi l’interrogativo fondamentale sull’uomo. E riteniamo che oggi più che mai essa non possa tralasciare questo compito, ma debba riflettere sulla maniera di confrontarsi esso.

dore_purgatorio3In un momento in cui la psicoanalisi sta ricevendo un rinnovato attacco, sia da parte delle scienze mediche-biologiche, sia da parte delle confessioni religiose, più volte gli psicoanalisti, forse allo scopo di difendersi da questi attacchi, ribadiscono di voler circoscrivere l’ambito di ricerca della psicoanalisi all’interno dei limiti propri della ‘disciplina scientifica’ e di voler dunque esprimersi solo tramite un linguaggio tecnico-clinico che possa dare garanzia di fondamento epistemologico, anche se non è difficile osservare come questo linguaggio sia, nei padri della psicoanalisi e nei suoi più importanti esponenti, fin troppo mutevole, vario e personalizzato.

La psicoanalisi fin dalle origini si è mostrata come luogo di confluenza e di confronto tra l’esigenza di esattezza del pensiero delle scienze sperimentali e la disponibilità a convivere e a tollerare l’ignoto, accettando l’irriducibile complessità e dinamicità proprie delle scienze speculative e delle espressioni artistiche.

Sappiamo bene come la psicoanalisi si affacci sulla vicenda umana attraversata dal dolore e dall’angoscia e come dunque la costruzione concettuale del pensiero psicoanalitico sia sempre inevitabilmente attraversata dalla questione fondamentale della radice del male e della causa ultima della sofferenza.

Di quale cultura dunque la psicoanalisi deve assumere l’eredità, dal momento che essa pretende di occuparsi della psiche, luogo di mediazione tra corpo e spirito, e luogo dunque indefinibile e senza confini, ma luogo per eccellenza della trasformazione?

Possiamo, come psicoanalisti, limitarci al raggiungimento di un obiettivo ben definito, o non dobbiamo forse tener sempre presente che ci muoviamo all’interno di un universo simbolico in cui ogni situazione rimanda ad un’altra di cui è manifestazione, ogni detto rimanda al non detto, ogni domanda è metafora di un’altra domanda più profonda e celata?

Quale risposta può dare lo psicoanalista se non una risposta che apra su una nuova domanda e quale meta finale se non l’atopon, ciò che non ha un luogo circoscritto? Come psicoanalisti dobbiamo aver chiaro che ciò che stiamo cercando, ciò verso cui assumiamo la responsabilità di condurre gli altri, ciò che ci dà la garanzia della validità del percorso, del cammino, è proprio l’insolvibilità della domanda ultima, ben espressa dal simbolo la cui caratteristica essenziale è il richiamare, attraverso la presenza, sempre un’assenza.

Sappiamo quanto tutto ciò possa generare angoscia in chi in preda alla sofferenza cerca un rimedio immediato, una risposta sicura, un solido terreno su cui poggiare i piedi. Ma proprio questo non poter tollerare la sofferenza, che è inscindibile dalla condizione umana e che è dunque mistero, rischia di diventare causa di nevrosi e di patologia, cioè di sofferenza ancora più grave in quanto più cieca e meno trasformabile.

Compito della psicoanalisi è tenere viva la dinamica di apertura, la tensione creatrice e trasformatrice, la possibilità e la fiducia nella possibilità di riparazione che sono proprie dell’uomo sano.

Compito dello psicoanalista è allora aiutare a superare, attraverso lo strumento dell’interpretazione, la patologia che deriva dal non poter accettare la propria sofferenza e dalla paura della propria manchevolezza, della propria colpa (o sentimento di colpa), e dunque, potremmo dire, dalla paura della propria paura.

Ovviamente l’interpretazione di cui parliamo non è mai un fissare univocamente un significante ad un significato, ma è invece un muoversi attraverso l’universo simbolico.

L’uomo abita infatti in un universo simbolico ed è abitato da un universo simbolico, la qual cosa lo obbliga a rinunziare a darsi un’identità definita e dunque lo spinge alla consapevolezza dell’impossibilità di un’univoca e conclusiva interpretazione della propria vicenda.

L’interpretazione deve sempre tenersi lontana dalle angustie del causalismo riduttivo, guardandosi da ogni tentazione di rassicuranti soluzioni che porterebbero solo alla cristallizzazione dell’individuo e dunque al congelamento delle sue potenzialità psichiche e alla morte spirituale.

Nella premessa del 1950 alla quarta edizione della sua fondamentale opera  Symbole der Wandlung, Jung riafferma il principio finalistico di tutto ciò che si riferisce alla psiche e ribadisce che non può mai darsi interpretazione che andando in profondità pretenda di giungere alla conoscenza di una causa ultima, ad esempio un trauma psichico, perché la causa ultima si trova sempre al di là dell’esperienza umana (considerazione questa che non è certamente estranea al pensiero psicoanalitico fin da Freud).

Dunque «… più si va in profondità, più si amplia la base. Certo essa non si restringe e in nessun caso termina in una punta, come per esempio, in un trauma psichico [e la conoscenza di] un po’ di patologia e di teoria delle nevrosi non bastano assolutamente (…) questo tipo di conoscenze consente unicamente di essere informati su di una patologia, ma ignorano tutto dell’anima che è malata» (tr. it. Simboli della Trasformazione, Opere V, Boringhieri, Torino 1970, p. 14).

Abbiamo voluto cercare un mito che potesse attraverso delle immagini poetiche avvicinarci al vissuto dell’esperienza del processo analitico, condiviso insieme sia da colui che per la prima volta intraprende questo cammino, questa odòs, sia da colui che si propone come guida al difficile percorso, lo psicoanalista, e all’esperienza di trasformazione fondamentale di questo processo che, per usare una parola antica e piena di risonanze, chiamiamo metanoia.

Siamo del resto fermamente convinti che alcune esperienze possano essere espresse in tutta la loro pienezza solo attraverso un mythos, un racconto. E al mythos sono ricorsi da sempre gli antichi sapienti (in particolare, per quel che ci concerne, i filosofi greci, da Parmenide a Platone, i quali hanno dato origine al pensiero occidentale) per trattare i più profondi e importanti argomenti.

«Se pur narrare un mito è bello, mette conto d’udire come si trovano ad essere le cose sopra la terra al di sotto del cielo». Con queste parole Socrate nel Fedone (110 b) introduce l’esposizione della sua visione del mondo.

Anche Jung, alla fine della vita, volendo parlare degli argomenti più gravi, come della vita dopo la morte, dice: «Anche adesso non posso far altro che raccontare storie [geschichten erzählen] su questo tema: mythologein (…) Per l’intelletto [verstand] il mythologein è una speculazione sterile, ma per l’anima è un’attività salutare» (Ricordi, sogni, riflessioni, cap. XI).

dore_Purgatorio2Abbiamo già affrontato in altra sede il tema dell’esperienza analitica e evocato il mito del viaggio nell’aldilà e in particolare le immagini del poema dantesco per raffigurare la situazione dell’uomo che tenta di scendere nelle profondità della propria psiche e di prendere coscienza di quelle forze che, se non illuminate da una visione superiore, da una visione dall’alto, possono renderlo prigioniero incatenandolo alla cieca necessità dell’istinto.

Vorremmo ora soffermarci sull’ultimo tratto di questo viaggio, quello della svolta, della metanoia.

Nel momento in cui Dante, sempre guidato da Virgilio, arriva all’estrema profondità della discesa infernale si ha l’epistrophé, la svolta, da cui prenderà inizio il nuovo percorso di anabasi, di risalita, che lo porterà  «a riveder le stelle».

Adempiuti i riti di trasformazione necessari a compiere, in una totalmente nuova disposizione d’animo, una completa metanoia, Dante potrà iniziare il cammino di purificazione che lo porterà in cima alla montagna sacra del Purgatorio, al Paradiso Terrestre, luogo del benessere originariamente destinato all’Uomo quale sua naturale dimora.

Nell’ultimo atto della catabasi Dante viene protetto con particolare attenzione da Virgilio, senza il cui aiuto avrebbe rischiato di rimanere vittima di quel vento infernale, che laggiù spira violentissimo e che congela i dannati pietrificandoli, e riesce così a guardare il triplice volto di Dite, l’orrida figura del male.

Le tre facce di Dite che gli si presentano possono essere viste come la radice più profonda di quelle facoltà e tendenze dello spirito che, vissute nella loro pienezza e nella armonia con il creato, dovrebbero fare dell’uomo l’immagine vivente di Dio e dargli la piena coscienza di se stesso e insieme dell’universo (come sarà nella visione ultima che Dante riuscirà ad avere alla fine del suo viaggio, descritta nell’ultimo canto del Paradiso), ma che, pervertite e corrotte, si trasformano in orgoglio, egocentrismo, concupiscenza, le tre bestie che avevano impedito a Dante, smarritosi nella selva oscura, di raggiungere il luminoso colle della salvezza.

Com’io divenni allor gelato e fioco,
Nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo,
Però che ogni parlar sarebbe poco.
Io non mori’ e non rimasi vivo;

(Inf., XXXIV, 22-25)

Questi versi dell’ultimo canto dell’Inferno ben evocano l’atrocità di questa esperienza interiore che segna la fine, la morte del vecchio uomo, senza che ancora sia nato l’uomo nuovo e iniziata la nuova vita.

Questo momento è ben noto a coloro che durante un processo analitico si trovano nello smarrimento e nell’angoscia, non potendo o non volendo tornare nell’abisso oscuro di sofferenza dal quale sono appena usciti, ma sentendo tutto lo sgomento di fronte ad un nuovo cammino di cui ancora non conoscono nulla e di cui non possono avere che un troppo vago sentore.

Tuttavia proprio questa dolorosa esperienza è il germe di quella trasformazione che si compirà salendo i gradini del Purgatorio e che porterà alla salvezza.

Dopo questo confronto, faccia a faccia con Lucifero, il quale tritura sotto i suoi denti gli ultimi dannati, Virgilio comunica a Dante che è il momento di partire, perché è stato veduto tutto. Dante deve avvinghiarsi a Virgilio il quale risale «Con fatica e con angoscia», aggrappandosi al pelo di Lucifero, sì che ha quasi l’impressione di star ritornando nell’inferno. Eppure:

… Per cotali scale,”
Disse ’l maestro, ansando com’uom lasso,

Conviensi dipartir da tanto male”.
(ibid., 82-84)

Ed ecco che finalmente, dopo questo travaglio, Virgilio riesce a portare Dante, attraverso un buco nella roccia, fuori dal Cocito, il fiume raggelato del pianto infernale, passando «… il punto / Al qual si traggon d’ogni punto i pesi» (ibid., 110-111), cioè compiendo una completa inversione.

Ormai, ristabilita la polarizzazione dell’energia vitale verso l’alto, inizia il nuovo cammino verso la luce del giorno:

Levati su” disse ’l maestro, “in piede:
La via è lunga, e ’l cammino è malvagio
E già il sole a mezza terza riede”.

(ibid., 94-96)

Tuttavia per Dante non c’è ancora illuminazione, ma per il momento soltanto smarrimento e incertezza:

Non era camminata di palagio,
Là ’v’eravam, ma natural burella
Ch’avea mal suolo, e di lume disagio.

(ibid., 97-99)

Nel silenzio si compie il cammino che porta fuori da quel paesaggio di tomba, c’è solo il rumore di un ruscelletto, quasi lo scorrere di una linfa vitale che la nuova sensibilità restaurata dall’inversione del cammino interiore ha reso possibile percepire. È questo con ogni probabilità il quarto fiume infernale, secondo l’antica mitologia, il Lete le cui acque raccolgono le lacrime del corpo sofferente dell’uomo, vittima della caduta originaria.

Proprio quel fiume di lacrime diverrà per Dante il filo d’Arianna per uscire dal labirinto infernale.

Lo duca ed io per quel cammino ascoso,
Intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
E, sanza cura aver d’alcun riposo,
Salimmo su, ei primo e io secondo,
Tanto ch’i’ vidi delle cose belle
Che porta ‘l ciel, per un pertugio tondo;
E quindi uscimmo a riveder le stelle.

(ibid., 133-139)

L’immagine dantesca, così familiare a coloro che parlano la “lingua del sì ”, ci pare rappresenti con molta forza proprio la possibilità che dovrebbe essere uno dei fattori più significativi del processo analitico: il poter utilizzare la strada stessa dell’errore, della confusione e dell’angoscia, per affacciarsi ad una nuova via, ad un nuovo cammino.

dore_purgatorio4Jung ci ha mostrato come in tutte le culture siano presenti immagini della lotta dell’eroe, aspetto della coscienza diurna, contro le forze inconsce e regressive, rappresentate da un drago o da un mostro marino che inghiotte nelle sue fauci, e della vittoria dell’uomo che esce da questa avventura libero e trasformato, avendo raggiunto un livello di coscienza più elevato.

Siamo ora con Dante in grado di vivere il momento della trasformazione che dà modo alla tensione creatrice dell’uomo di esplicarsi. Questa tensione dovrebbe portare l’uomo ad essere simile a Dio, secondo quanto dicevano gli antichi padri della Chiesa.

Se ci siamo soffermati sugli ultimi momenti del viaggio infernale è per ribadire che la purificazione e rigenerazione progressiva, attraverso le quali l’uomo può riottenere la pienezza del suo essere e la restaurazione delle potenzialità psichiche e delle capacità spirituali, può avvenire solo dopo che si siano rivelati, attraverso il viaggio nelle profondità dell’Inferno, in tutta la loro negatività, lo smarrimento e la corruzione; cioè solo dopo la catabasi necessaria alla presa di coscienza del lato ombra, dei limiti e delle manchevolezze, sia personali, sia proprie della condizione umana (possiamo dire, in termini psicoanalitici, e con Jung, inconscio personale ed inconscio collettivo).

Se l’Inferno, da un punto di vista psicologico, rappresenta il mondo della materia e del predominio della cieca pulsione, in cui «la ragione è sottomessa al talento» (per usare una parafrasi dantesca), o alle pulsioni libidiche (nel linguaggio della psicoanalisi), il Purgatorio può essere visto come il mondo della psiche.

Mentre l’Inferno è rappresentato immobile, senza speranza e senza possibilità di trasformazione, il Purgatorio, regno dominato dalla psiche, è esperienza di trasformazione che avviene attraverso una purificazione sia dei sensi sia dello spirito. Molto simile è la metafora del linguaggio alchemico secondo la quale la materia deve essere sottoposta ad una lunga serie di trattamenti affinché da essa possa liberarsi lo spirito.

L’ascesa della montagna del Purgatorio rappresenta quel faticoso cammino che l’uomo deve compiere per diventare conforme a quell’archetipo che le diverse tradizioni chiamano l’ “Uomo Vero” e il cui centro di coscienza è situato all’apice della forza spirituale, simbolicamente rappresentato dalla cima della montagna sacra in cui è collocato il Paradiso Terrestre, luogo di benessere e di felicità per eccellenza.

Soltanto se illuminato dall’alto, e con la coscienza dell’altezza, l’uomo può governare le proprie energie psichiche e somatiche realizzando così il suo vero , microcosmo che riflette il macrocosmo, l’armonia del creato nella sua totalità.

Una visione di saggezza e di serenità, anche di fronte a quelli che sembrano i momenti più difficili e le situazioni più incomprensibili, è possibile solo «a chi guardi dall’alto» dice Platone.

Ugualmente, Parmenide nel proemio del suo Poema sulla natura ci propone il mythos della sua ascesa sul carro del sole trainato dalle cavalle alate che lo portano in alto, fin dove arriva il suo desiderio: «Le figlie del Sole, lasciate le case della notte, tolti i veli dal capo, si affrettarono a spingere il carro verso la luce. Là è la porta che divide i sentieri del giorno e della notte».

Qui lo accoglie la dea rivelatrice della verità e, salutando la sorte felice che lo ha condotto fuori dai sentieri comuni percorsi dagli uomini, gli rivela il cuore della verità ben rotonda e di contro le opinioni dei mortali la cui verità non è affidabile.

Ricordiamo tuttavia la distinzione (Pugliese Carratelli, Tra Cadmo e Orfeo, Il Mulino, Bologna 1990) tra queste forme di ekstasis narrate dai filosofi greci e quelle di tipo sciamanico, alquanto differenti. Nelle visioni dall’alto, nelle ekstaseis dei nostri filosofi è sempre ribadito il primato del nous, della polimathia(copiosa erudizione), della sophia (sapienza), del phronimos (ragionevolezza) sul thumos, sul tumulto delle passioni.

Proprio l’affermazione del nous e della coscienza (alimentata dalla memoria) di sé e della propria responsabilità contraddistingue queste esperienze da altre pericolose esperienze di tipo taumaturgico e da sincretistiche alterazioni di queste stesse dottrine.

Jung parla di un’esperienza, decisiva nella sua vita, in una lettera che scrisse a Kristine Mann, ammalata di cancro, che di lì a poco avrebbe concluso la sua esperienza terrena:

«L’angelo della morte ha prostrato anche me ed è mancato poco che mi cancel­lasse dalla sua lavagna (…) Tutto sommato la mia malattia è stata per me un’esperienza molto significativa: mi ha offerto l’occasione preziosa di gettare un’occhiata dietro il velo. L’unica difficoltà sta nel liberarsi dal corpo, nello spogliarsi e svuotarsi dal mondo e dalla volontà dell’Io. Quando si riesce a rinunciare alla forsennata volontà di vivere e succede come di cadere in una vaga nebbia, inizia allora la vera vita con tutto quello che si era pensato e non si era raggiunto. È un’espe­rienza di ineffabile grandezza. Ero libero, completamente libero e integro come prima non mi ero mai sentito».

Quindi continua con il racconto della visione che egli ebbe e del suo risveglio, al quale seguì la convalescenza, pervasa tuttavia da un sentimento di tristezza:

«Non volevo vivere e tornare in questa vita frammentaria, limitata, angusta, quasi meccanica, dove si è soggetti alle leggi di gravità e di attrazione e si è prigionieri di un sistema tridimensionale, dove si viene sballottati insieme ad altri corpi nella turbolenta corrente del tempo. Là vi era pienezza, che vuol dire soddisfazione, eterno movimento (e non movimento nel tempo) [e dopo alcuni altre frasi che qui tralasciamo] La mia vita non durerà a lungo, sono ormai segnato. Ma per fortuna la vita è diventata provvisoria. È diventata un pregiudizio temporale, un’ipotesi di lavoro per il momento attuale, non l’esistenza stessa» (C. G. Jung, Esperienza e mistero, 100 lettere, a cura di Aniela Jaffé, tr. it. Boringhieri, Torino 1982).

Torniamo alla nostra montagna del Purgatorio in cui abbiamo lasciato Dante. Essa è simmetrica alla voragine dell’Inferno e dunque comprendiamo come anche l’anabasi, l’ascesa spirituale, sia un processo lungo, che richiede grande pazienza ed umiltà, che deve passare attraverso tappe concrete simbolizzate dai gradini della montagna. Il tono poetico con cui il Poeta canta, sin dai primi passi, questo cammino è completamente mutato.

Per correr migliori acque alza le vele 
Omai la navicella del mio inge­gno,
Che lascia dietro a sé mar sì crudele;
E canterò di quel secondo regno,
Dove l’umano spirito si purga,
E di salire al ciel diventa degno.
Ma qui la morta poesì resurga,
O sante Muse, poi che vostro sono;
E qui Calliopè alquanto surga,

(Purg., I, 1-9)

Dante che ha sentito tutta la sofferenza della situazione della caduta in cui la dominanza delle pulsioni istintuali impedisce la ricettività dello spirito e quindi la vera creatività, invoca ora Calliope, la musa della poesia epica.

In molti famosi miti greci, come in quello di Orfeo, veniva affermato il magico potere della poesia e delle arti fondamento della cultura e del vivere civile, sulle forze della natura, impersonate dalle fiere. Non solo il canto del vate ammansiva le fiere più feroci, ma poteva addirittura impietosire l’inflessibile signore degli inferi tanto da indurlo a restituire a un suddito la luce del sole.

Per meglio comprendere il significato simbolico di questa invocazione alla Musa dobbiamo ricordare che la madre delle Muse è Mnemosine, testimonianza della fede nel nous, «… fonte di ogni forma del sapere, infrangibile legame tra l’eternità del kosmos e l’episodio umano delimitato dalla genesis e dal thanatos, e guida sicura nelle esperienze necessarie a dare all’anima la consapevolezza del suo vero essere» (Pugliese Carratelli, op. cit., p. 462).

Già altrove abbiamo avuto occasione di soffermarci sulla fondamentale importanza che la psicologia analitica attribuisce alla “funzione trascendente” connessa con la funzione dinamica di continuo superamento e di apertura ontologica del simbolo, ed abbiamo visto come la “funzione trascendente” possa essere attivata attraverso l’arte che per la sua finalità senza scopo può elevare dal particolare all’universale e consentire il cammino verso la realtà ontologica.

All’uscita degli inferi Dante, spiritualmente volto verso la luce nascente, si situa simbolicamente all’alba del nuovo giorno.

Dolce color d’oriental zaffiro,
Che s’accoglieva nel sereno aspetto
Del mezzo puro insino al primo giro,
Alli occhi miei ricominciò diletto
Tosto ch’Io uscii fuor dell’aura morta,
Che m’avea contristati li occhi e ‘l petto.

(ibid., 13-18)

Un viaggio verso la luce dunque, uscendo dalle tenebre dell’Ade, quel viaggio di cui è simbolo il carro del sole trainato dai quattro cavalli alati che si innalzano verso la volta del cielo e che sono il simbolo del convegno.

Il primo incontro che Dante fa nel nuovo mondo è con Catone l’Uticense che rappresenta la perfezione umana naturale, ma anche il simbolo dell’amore per la libertà, considerata valore più grande della vita.

Infatti il primo passo di questo cammino di trasformazione è proprio il passaggio dalla tirannica necessità dell’istinto alla libertà.

Dante ora può chiedere di entrare nel nuovo mondo con la famosa formula:

Libertà va cercando, ch’è sì cara,
Come sa chi per lei vita rifiuta.

(Ibid., I, 71-72)

La libertà di cui qui si parla è un’affermazione dell’egemonia dello spirito sulle pulsioni istintuali, ma anche libertà dagli invischiamenti affettivi che è data dalla acquisita consapevolezza della morte del vecchio uomo.

La conquista di questa nuova identità è una meta fondamentale del percorso psicoanalitico.

L’individuo deve venir liberato dalla coazione delle pulsioni istintuali, dalla reiterazione di dinamiche intrapsichiche che sono segno-sintomo di sofferti e irrisolti conflitti affettivi che appartengono specificamente alla propria vicenda personale e soggettiva. Ma che sono al contempo segno-simbolo della più generale vicenda umana sempre in bilico tra Scilla e Cariddi: tra un regressivo bisogno di totale sicurezza affettiva ed esistenziale, che a causa della sua inappagabilità rischia di trasformarsi in angoscia persecutoria, e un bisogno di continuo trascendimento della situazione contingente che consenta all’individuo di trovare il coraggio, l’audacia di attraversare il mare dell’angoscia esistenziale, e di muovere verso un’infinita apertura, resistendo al bisogno di cercare uno scoglio cui abbarbicarsi e sul quale inevitabilmente si infrangerebbe il suo progetto di uomo.

La psicoanalisi ripropone attraverso questa lettura del problema fondamentale dell’angoscia esistenziale o dell’identità, la visione, proposta da tutte le tradizioni religiose, di un uomo collocato tra l’origine e la fine, tra l’alfa e l’omega, realtà che non gli appartengono ma che lo trascendono. Perché l’identità umana non si riduce mai ad un ruolo e a una funzione, che pure costituiscono la sua necessaria identità sociale, ma è tensione creatrice e dunque promessa di continuo superamento. Questa tensione produce sofferenza, ma libera da quella sofferenza che è patologia e che consiste nel cercare, qui ed ora, risposta al bisogno fondamentale, interrompendo così il cammino e tradendo la vera natura dell’uomo che è dinamismo e slancio creativo.

Ci sono due riti di entrata che Dante, seguendo le direttive che Catone impartisce a Virgilio, deve compiere prima di intraprendere la salita della montagna santa: cingersi di «giunco schietto» e lavare il viso per purificarlo da ogni residuo della sporcizia infernale.

È necessario cioè che lo sguardo dell’uomo, il suo visus, sia purificato dalle emozioni negative e dalle passioni che lo hanno coinvolto durante il precedente viaggio nell’inferno, cioè nei momenti più tragici e tormentati della sua vita, e che potrebbero ancora distogliere il suo spirito e offuscarlo impedendogli di divenire terso specchio della luce dall’alto.

Il bagno purificatore dovrà avvenire con l’acqua della rugiada, acqua incontaminata del nuovo giorno, che scendendo dall’alto potrà far riapparire il vero colore originario (il vero , direbbero gli psicoanalisti odierni) offuscato dai residui delle brutture dell’inferno.

Il secondo rito consiste nel cingere i fianchi di un giunco flessibile, simbolo di umiltà in quanto nasce ai bordi dell’acqua, dove non potrebbe resistere alcuna pianta che facesse fronda e non secondasse i colpi delle onde.

È chiaramente espressa la necessità di abbandonare la passata rigidezza per assumere una grande flessibilità e docilità che permettano di ricevere la grazia. Sono queste le doti della vera umiltà spirituale che consiste nella cancellazione degli angusti confini e delle arroccate difese dell’ego, nell’abbandono dei residui atteggiamenti narcisistici, per muovere verso un più ampio orizzonte aperto dalla speranza e dalla fiducia nel perdono dell’Altro, e dunque nella possibilità di riscatto e di trasformazione.

La psicoanalisi parla di fiducia nella propria positività e capacità riparativa, come premessa di un’apertura alla speranza, fondamento di un autentico sviluppo creativo.

E poiché “ciò che resta lo fondano i poeti” (Holderlin), anche dalla poesia potrà forse aver lume lo psicoanalista che tenti di allontanare l’angoscia del mutamento nella persona che sta accompagnando nel cammino dell’analisi e a cui deve infondere fiducia di poter costituire la propria identità trascendendosi e superandosi indefinitamente.

A. Iacuele e M.P. Rosati

 


Articoli correlati