La teologia politica di San Paolo
secondo Taubes
(da átopon Vol. V)

Giuseppe Lampis

TAUBES, Jacob; Die politische Theologie des Paulus ; München 1993;
tr. it. La teologia politica di san Paolo ; Adelphi, Milano 1997

La pubblicazione raccoglie un seminario tenuto presso la FEST, Forschungstätte der Evangelische Studiengemeinschaft (Centro studi della comunità evangelica), di Heidelberg nel febbraio del 1987, pubblicato nel 1993. Il tempo molto lungo impiegato dai curatori nello stabilire il testo si spiega in parte con la loro esitazione di fronte al rischio che la trascrizione del particolare modo di esporre dell’autore ne potesse tradire il pensiero.

sanpaoloIl prestigio di Taubes (specie presso la sinistra studentesca della Freie Universität di Berlino nel 1968) dipendeva molto dal suo parlare concitato e intenso. Qui Taubes, che era altrimenti molto meticoloso nello scrivere, procede spesso con affondi e impennate, con allusioni e frammenti, senza dare sviluppo compiuto a molti dei problemi sollevati, volendo stringere sull’essenziale.

Riprodurre incisivamente l’aura di quei quattro giorni di seminario era comunque impossibile. Taubes infatti li affrontò visibilmente allo stremo, minato da una grave malattia che gli impediva persino di stare in piedi. Ciò nonostante egli non volle rinunciare all’impegno di parlare della Lettera ai Romani di Paolo, come per una esigenza di sintesi conclusiva. La Lettera lo faceva riandare, peraltro, a una grande amicizia intellettuale che lo accompagnò per trent’anni, quella con Carl Schmitt, con il quale aveva ingaggiato appassionate discussioni su Paolo. Lo stesso Schmitt nel settembre del 1979, sentendosi prossimo alla fine, lo aveva chiamato proprio per rileggere insieme la parte centrale della Lettera.

Il seminario ricapitola l’appassionato interesse di tutta una vita per il grande apostolo, ripensato nei suoi punti chiave.

L’approfondimento filologico o resta presupposto o viene rinviato; non c’è tempo. Abbiamo dunque una lezione su un testo densissimo, quale quella che potrebbe essere pronunciata da un rabbino, per farne esplodere gli orizzonti che da esso si aprono. Una specie di apocalisse. E del resto, mentre il movente di Jacob Taubes è proprio quello apocalittico, dal canto suo la Lettera ai Romani rappresenta uno dei più tormentati crocevia della storia e della coscienza europee.

La Lettera ai Romani è quella sconvolgente composizione con la quale Paolo traccia le linee della conversione dei non Ebrei, e proietta il nascente movimento cristiano – disincagliato dalla cerchia esclusiva dei circoncisi – verso i pagani. Paolo si sente e vuole essere riconosciuto giudeo (l’accettazione della colletta che reca a Gerusalemme alla prima comunità giudeo-cristiana gli serve per assicurarsi il riconoscimento di non essere uscito dal loro ambito) ma il suo programma ha un respiro mondiale. Il suo Israele non rientra nei limiti dell’Israele dato storicamente fino a allora.

Se il cristianesimo non si è fissato nei limiti angusti di una delle tante sette giudaiche dell’epoca, ciò si deve alla iniziativa di Paolo, considerato per questa ragione da molti – e anche da Taubes – il suo vero fondatore.

Paolo fonda il nuovo popolo di Dio. E lo fonda su un argomento geniale e rivoluzionario dalle conseguenze dirompenti e creative.

Nel suo tempo, si poteva appartenere a un popolo per due ragioni: per il sangue o per la legge. Far parte di un popolo era considerato essenziale per la propria stessa individuale esistenza. Il singolo non aveva consistenza in quanto tale; l’uomo diventava uomo soltanto con l’appartenenza a una comunità e ai suoi valori. E, allora, questi valori potevano essere o il sangue o la legge.

L’appartenenza valida per gli Ebrei era quella dovuta al sangue, all’essere figli di e discendenti di Ebrei, segnati nel corpo e confermati dalla complessa e minuziosa ritualità nella quale si concretizzava il patto di alleanza con il proprio Dio, a partire dalla circoncisione (introduttiva al matrimonio e cioè alla vera entrata nella comunità ). Un’appartenenza etnica a sfondo religioso.

Di contro vigeva un altro modo di appartenenza, straordinariamente vincente e dominante, quello dell’ imperium romano; del popolo romano si partecipava non per coerenza etnica ma per l’essere uniformati nella soggezione alla legge universale del suo potere statuale.

Insomma lo scenario in cui interviene Paolo prevede che il popolo, la comunità, si istituisca e esista 1) perché si è figli dei padri di quella razza specifica eletta dal Dio, ovvero 2) perché lo impone lo stato e la sua costituzione contro le spinte caotiche e disgregatrici insite negli uomini.

Dice Paolo, come già Isaia, che non tutti i discendenti di Israele sono tuttavia Israele. Si può essere Israele secondo la carne ma anche, e meglio, secondo la promessa; infatti viene promesso che solo un resto di Israele sarà salvato.

Paolo, muovendo dall’interno della tormentata esperienza del giudaismo, indica una ragione di appartenenza alternativa alle due indicate prima: la fede. E precisamente la fede nel messia crocifisso.

A questo punto, a seguito dell’iniziativa di Paolo, le alternative sono diventate tre, o sangue, o legge, o fede.

Passando per la fede, potranno ritrovarsi allo stesso titolo nella stessa comunità schiavi e liberi, donne e uomini, circoncisi e non, poveri e ricchi; tutti saranno trasformati e tutti i condizionamenti superati nel nome di quella istanza spirituale.

L’ordine naturale e l’ordine spirituale ormai si escludono irreparabilmente. Per appartenere al popolo dei salvi, dovrà realizzarsi – e sarà sufficiente – un atto squisitamente spirituale e cioè una credenza. Credenza da intendersi però non come mero contenuto intellettuale e, piuttosto, come un avvenimento spirituale che va oltre l’io e la coscienza, alle loro radici profonde, segnando un mutamento della personalità. Non sarà necessario provenire da un sangue invece che da un altro, non servirà il dominio del potere politico istituzionale; la nuova città viene fondata da un evento che eccede il sangue e il potere.

Paolo si riporta nel punto esatto in cui Mosè fondò il popolo, quello in cui il patriarca respinse e fermò Dio che voleva annientarglielo, quello in cui sciolse Dio (p. 65) dall’impegno di annientare il popolo che s’era allontanato. Il nuovo popolo di Paolo non può che essere rifondato su un nuovo atto di fede; come allora, all’inizio, fu una fede a precedere e a provocare la promessa così ora una fede dovrà ricostituire il popolo che si è messo fuori dalla salvezza perché ha respinto il Salvatore.

La nuova base del popolo, la fede, è un atto spirituale interiore. Come si vede, il messaggio di Paolo contiene un potenziale eversivo di vasta portata.

Così, se in Rm 13 l’apostolo chiede che venga data ubbidienza alle autorità costituite, ciò dipende dal fatto che egli crede che ormai si sia alla fine dei tempi e che non valga la pena di impegnarsi sul terreno politico pratico.

In verità la cosa si dimostra ancora più radicale. Paolo dice che gli uomini dello spirito devono saper passare attraverso il male. Rm 13 non sembrerebbe, preso a sé, così rivoluzionario (dato che propone l’acquiescenza di fatto all’impero); eppure bisogna leggerlo accogliendo l’idea di Karl Barth – da Taubes considerata filologicamente geniale – come se il capitolo fosse introdotto dall’ultima frase dell’ultimo capoverso di Rm 12. Premettendo la frase “ non lasciarti vincere dal male ma vinci con il bene il male ”, il consiglio di lasciare le cose politico-istituzionali nello stato in cui si trovano muta di prospettiva e diviene ben altro che un pavido consiglio al quieto vivere.

Anche qui si tratta in definitiva, per Taubes, del famoso motivo chiave in Paolo del come se , già formulato nella Prima Lettera ai Corinzi: il mondo è già finito, e dobbiamo vivere come se non ci riguardasse più.

La proposta di Paolo risponde a un’esigenza profondamente e universalmente più radicale della politica. L’intera natura e il mondo intero a suo avviso stanno per cadere e il nuovo eone sta per aprirsi. Non bisogna pertanto perdere né tempo né energie con un mondo già condannato a dissolversi di fronte al folgorante avvento dello spirito.

C ‘è in tutta questa ispirazione un tratto gnostico, dice Taubes, e infatti Marcione con la sua chiesa di nichilisti programmaticamente celibi, ostinati a negare il seme al mondo per affamarlo, si professa coerentemente paolino (ma in effetti è l’intero Nuovo Testamento a non mostrarsi interessato, contrariamente all’Antico, al miracolo della nascita carnale e alla vittoria sulla sterilità – p. 114 – ). Tuttavia Paolo non sarebbe gnostico; e non tanto perché la fede paolina sia altra cosa dalla mera conoscenza – Taubes è filosofo troppo smaliziato per limitarsi a sostenere una tale tesi, dato che infatti neanche la gnosi che salva degli gnostici si riduce a mero contenuto intellettuale –, quanto perché – e questo è l’argomento usato da Taubes ­– lo gnostico crede di essere perfetto, ancorché prigioniero di un mondo imperfetto, mentre l’uomo nuovo di Paolo si mette tutto nell’amore, e l’amore è indigenza, difetto, attesa, rinvio all’altro da sé.

Il dibattito sulla gnosi di Paolo ha raggiunto un grande complessità e Taubes non ne espone i troppo ampi termini. Nell’economia del suo seminario, egli si affaccia su Marcione solo per mettere in luce una componente implicita in Paolo.

Comunque, anche in Platone conoscenza e eros risultano strettamente saldati e culminano in una esperienza estatica e folle, di una particolare follia divina; ma, alla fin fine, resta altrettanto vero che l’amore paolino e quello platonico divergono nella sostanza. Ma il punto di Taubes sta nel fatto che a lui interessa dimostrare che la vera rivoluzione sorge dall’impostazione apocalittica e non da quella gnostica. Del resto l’apocalittica appartiene più propriamente alla linea della cultura giudaica, mentre la gnosi ha connotazioni diverse. Con l’apocalisse si ha l’avvento di una novità, con la gnosi si ha il ritorno di un ordine antico.

Si può ascoltare (o leggere) Taubes sotto varie angolazioni, perché effettivamente nel seminario confluisce la molteplice tensione del suo pensiero e del suo inquietante particolare giudeo-cristianesimo nei confronti dei passaggi essenziali della storia della filosofia. Chiamo giudeo-cristianesimo quello di Taubes evidentemente non in senso tecnico stretto, ma perché il suo Paolo non rappresenta una semplice fuoruscita dal giudaismo bensì una sua reinterpretazione e una formidabile accelerazione di quel messianismo che vi corre intimamente dentro. Ricordiamo che la legge contro la quale si scaglia Paolo, per Taubes, non è quella dell’ AT bensì quella ellenistica universale dell’ imperium . Taubes inoltre sostiene che Paolo, ponendosi il problema della giustificazione di Israele, si ricolloca alle stesse origini del giudaismo nel punto in cui si inaugura l’alleanza tra il Dio e il popolo.

Una delle componenti più vive del discorso di Taubes riguarda il confronto polemico tra il suo Paolo e Nietzsche, il Nietzsche non solo anticristiano ma anche e soprattutto antigiudaico (del resto, ripetiamolo, per Taubes Paolo non rappresenta tanto un’eresia del giudaismo, quanto una sua intensificazione). Questo balza agli occhi come un punto essenziale.

La tesi di Nietzsche vuole che il cristianesimo, e soprattutto Paolo che ne sarebbe il vero fondatore (per Nietzsche, le idee di Gesù sarebbero invece ripetitive e niente affatto trasformatrici dei valori), abbia corrotto la società insinuandovi il tarlo del senso di colpa. Il senso della colpa sarebbe penetrato insieme con l’idea dell’autonomia dell’io e della coscienza. Infatti io e coscienza si accompagnano al sentimento della impotenza e della limitatezza, di modo che quando se ne fa il perno della vita si entra nella depressione e nella decadenza.

Il responsabile di questo guasto della civiltà greca aristocratica viene individuato da Nietzsche – come è noto – in Socrate; ma più ancora negli Ebrei che hanno affermato il tipo del Sacerdote in contrapposizione invidiosa con l’eroe guerriero, con il rex , e potremmo dire con lo kshatriya , in breve con l’uomo che sapeva vivere in perfetta immanenza nella forza severa e innocente della natura. E il tipo del Sacerdote, responsabile di questa decadente cultura dell’invidia e del ressentiment nei confronti dei forti, sarebbe incarnato dall’Ebreo, e da Paolo innanzitutto.

Ora il problema in Taubes prende tensione dal fatto che egli si trova in sostanza d’accordo con le premesse di Nietzsche, vale a dire precisamente d’accordo con la tesi che tra senso di colpa e autonomia dell’io sussista una saldatura stretta, in breve che coscienza e caduta si manifestino insieme.

Il contrasto con Nietzsche riguarda il modo di uscirne. Per Nietzsche se ne esce disincrostando l’umanità dal cristianesimo e facendo riemergere il sentimento dionisiaco della vita, per Paolo-Taubes se ne esce appropriandosi dell’esperienza del messia crocifisso.

Il problema comune a Paolo e a Nietzsche (che con il suo Zarathustra avrebbe composto una parodia della Bibbia) consiste nell’interpretazione del dolore.

Mentre per Nietzsche occorre amare così tanto la vita da amare con essa e in essa anche il dolore, e non rifiutarla rifiutandone il coessenziale dolore; per Taubes (o Paolo) la vita deve essere riscattata dal dolore riportandosi a un’istanza che lo trascende.

Per Nietzsche la vita, e il dolore con essa intrinseco, non può venire trascesa perché non c’è altro che vita (l’eterno ritorno). La vita si riscatta da sé; anzi, non si deve nemmeno riscattarla da alcunché dal momento che essa è sostanzialmente innocente e non colpevole. Capirlo e sentirlo risulta tuttavia così duro che solo i forti possono riuscirvi, perché solo i forti possono vivere e accettare con gioia e naturalezza l’esperienza della necessaria indissolubilità di dolore e vita.

Per Paolo la santità del santo martire sofferente, del Crocifisso, non si chiude nell’ubbidiente accettazione della invalicabilità del dolore; il santo sofferente si ribella al dolore con il solo fatto di essere un giusto. Essendo giusto egli convoca e afferma un’istanza superiore. Del resto nessuna autentica ribellione si rende possibile se non fa leva su un piano diverso da quello che vuole scalzare.

Il dolore della vittima santa trascende il piano in cui il dolore sta legittimamente a controbilanciare un delitto. Il giusto che soffre, e accetta – o sceglie – di soffrire, scardina l’equazione tra colpa e caduta; il suo dolore non viene a retribuire una sua colpa ma poggia su un altro piano, il quale trascende la logica del mondo e ne postula la negazione. Il martirio del santo è sommo dono e sommamente gratuito. L’effetto di liberazione discende dal fatto che il messia innocente condannato dalla legge delegittima la legge (p. 77).

Per questo profondo motivo, Paolo modifica anche il detto di Gesù. A chi gli chiedeva cosa prescrivesse il comandamento principale, Gesù aveva risposto che prescrive di amare il Signore e di amare il prossimo. Paolo riduce il precetto al solo amore per il prossimo.

Compare qui il tema dell’esperienza della diversità tra il Signore creatore e il Signore padre di Gesù. Tale diversità viene radicalizzata nella prima chiesa marcionita e Marcione in effetti ha potuto leggerla in Paolo anche se non vi sta scritta esplicitamente. Come nessuno ha capito completamente Paolo così nessuno lo ha frainteso completamente (p. 111).

Comunque l’amore del precetto salvifico non è quello banale e per niente trasformativo per il simile, bensì quello che comporta il dolore, fino al punto di rivolgersi al nemico che può annientare. Di tale amore si dimostra capace fino alle sue più radicali conseguenze soltanto il Salvatore.

Insomma mentre per Nietzsche, al fine di salvarci dal corrompimento delle nostre forze naturali, si deve tornare alla loro immanente pienezza; per Paolo, al fine di salvarci, occorre portare la natura all’esaurimento, scavalcare il mondo e annientarlo. Caduto il mondo si farà spazio all’avvento della vera vita e saremo risorti.

Cosa vuol dire che soltanto la fede nel Crocifisso, nel martire giusto, nel martirio del giusto possano redimere?

Soffrendo e morendo per amore, il martire afferma la propria libertà dalla legge e dalla colpa. Egli non patisce per riequilibrare una propria colpa, egli non retribuisce con la pena un proprio delitto. Egli decide di offrirsi alla morte solo per dono e per amore.

Una simile vittima innocente va oltre la legge che lo ha condannato e apre un altro orizzonte incommensurabile con questa, libero dalla legge e dalla colpa.

Il Dio della legge esprime la propria sovranità mediante la sua insondabile decisione di salvare o dannare. Eppure gli Ebrei hanno presunto di aver trovato, con il patto e con l’osservanza dei riti, il modo di imbrigliare premi e castighi. Ma, dato che ricevevano ancora dolore, si evidenziava che il Dio non si era fatto stringere e che come un Dio della giustizia, giudice assiso in un tribunale supremo mondiale, li puniva di una colpa ancora inespiata.

Inoltre nel frattempo egli con insondabile arbitrio salvava chi voleva.

Dalla prospettiva degli uomini tutto questo appare come predestinazione, dalla prospettiva del Dio tutto questo assume il carattere di un giocare a dadi (p. 158), di un atto gratuito e incondizionato.

Dio, in verità, ha sempre proceduto per atti elettivi e arbitrari, e specialmente con il suo popolo, rovesciando la primogenitura di Esaù a favore di Giacobbe già nel grembo di Rebecca, allo stesso modo peraltro con il quale già aveva donato una assurda prole alla vecchia moglie di Abramo Sara.

Quando Sara riceve l’annuncio, esclama “Isacco!” –  jiz-haq –, che significa: da ridere!, Dio ride!, la risata di Dio!

Isacco, incomprensibilmente destinato al sacrificio e altrettanto gratuitamente salvo, contiene Israele come progenitore e come modello: Israele-Isacco nasce perché il Dio – da assolutamente libero – vuole ridere, giocare, essere assurdo.

Tuttavia la vittima innocente che accetta il sacrificio per amore si sottrae al dominio del destino o della predestinazione. Egli con il proprio sacrificio realizza un atto ancora più alto e gratuito di quello del Dio di Isacco e di Abramo.

Il nuovo popolo potrà sorgere nella fede in tale miracolosa e eccezionale vittima. Come il suo sacrificio non era quello di un semplice uomo solo disperso nella sua propria individualità, bensì quello di un capostipite, così la salvezza irrogata non riguarda il singolo e non si ferma al singolo. Essa non consiste in un avvenimento privato tra il singolo e il Dio e ha il rilievo di un avvenimento collettivo. Per questa ragione, il giusto non è soltanto un singolo, magari eroico, ma qualcuno più importante ancora. Egli è il Messia e il Messia, a sua volta, non salva i singoli ma il popolo. Messia e salvezza collettiva sono due concetti assolutamente indissolubili.

E perché mai deve sorgere un nuovo popolo? Deve sorgere perché i popoli vecchi sono morti, avendo perso il centro sul quale erano fondati. Lo hanno perso perché è subentrato il centro vero, il vero fondamento. Così, in sintesi, si configura l’idea degli apocalittici.

Il rischio di annientamento riguarda solo e sempre la comunità, posto che il singolo senza la comunità nemmeno potrebbe esistere. Come abbiamo già detto, il singolo nasce veramente nel giorno in cui si sposa. In quello stesso giorno egli indossa altresì la veste funebre ereditata dal padre, ricevendola sul letto nuziale dalle mani della moglie, perché quello è il tempo ultimo, quello in cui il Dio può far vivere e può uccidere. Il giorno della nascita – nel matrimonio – coincide con un tempo di sospensione e di rischio di separatezza. Durante il rito dello Jom Kippur , nel giorno della espiazione e della rinascita dell’anno e del popolo, gli uomini indossano la veste funebre-nuziale. Taubes insiste sul fatto che quella liturgia, centrale nella cultura ebraica, contiene da tempo immemorabile il tema dell’allontanamento di Dio. E che tutto il rito ripete gesti e formule che lo costringono a tornare. In altri termini, nel giorno del rischio della morte, il popolo adotta le procedure – insegnate da Mosè – che spingono il Dio a rinunciare a mettere in atto la minaccia e lo sciolgono dall’impegno di sterminare (p. 65).

Dunque, soltanto prendendo parte nel tempo della fine, o dell’inizio che sia, alla vicenda del martirio del Messia, del novello capro espiatorio superiore al suo carnefice, la comunità sarà salva.

Il popolo che ha respinto il Messia si è esposto a un rischio mortale e rimane ancora al di qua della rinascita e non supera il confine del giorno dell’espiazione.

Per rinascere bisogna offrire una vittima innocente al malvagio Dio dell’ira. E inoltre non bisogna restare estranei o esterni a essa bensì vedervi il Messia e affidarvisi.

Qui sta la chiave della svolta paolina, individuata da Taubes. Il dolore dell’innocente risulta eversivo e liberatore perché mostra con uno squarcio la forza reale di un’istanza irriducibile e diversa da questo mondo.

Per Paolo-Taubes la salvezza non può che venire da un livello che trascende gli equilibri interni del mondo, da un oltre . E soltanto l’amore mette oltre.

Naturalmente un tale amore, capace di esprimere forza liberatoria, costituisce il punto chiave di tutto l’edificio e va pertanto inteso in modo adeguato. Con esso non viene proclamato il troppo facile amore per il simile bensì addirittura il gratuito tragico amore per il nemico. Però Taubes non sviluppa questo pensiero, il che sarebbe stato davvero interessante anche perché – sia ricordato sommessamente di sfuggita – questo pensiero stava già, ben prima di Paolo-Taubes, nel discorso della montagna ( Mt 5, 44). Il discorso della montagna lo conosciamo dal vangelo di Matteo, però Paolo ha parlato e scritto certamente prima della redazione di questo vangelo (ma non ha conosciuto Gesù direttamente).

A ogni buon conto, è chiaro che l’interpretazione della natura di questa forza così basilare, l’amore, riveste un’importanza pregiudiziale. Come abbiamo visto in precedenza, si tratta dello stesso problema dei rapporti tra gnosi e fede e, in definitiva, della via alla salvezza.

Nel caso della vittima giusta che si offre gratuitamente, sembrerebbe trattarsi di un amore che si rivolge allo stesso male. E’ stato Karl Barth a sostenere questa tesi.

Taubes ha visto la novità della riduzione a un unico precetto (l’amore per il prossimo) di quello che era ancora doppio in Gesù, ma poi quando avverte il rischio di interpretare tale riduzione in modo troppo umanistico , quasi feuerbachiano (p. 102), si interrompe e passa a dire che la radicalizzazione del messaggio paolino dipende dall’idea della fine prossima.

Evidentemente, l’amore del martire per il male inaugura la fine e nella fine tutti i valori si trasmutano, e il male non resta più tale.

La svolta paolina comporta una radicale trasmutazione dei valori. Con Paolo, come altrove è accaduto con altri (per esempio con Zarathustra in Iran o con le Upanishad rispetto ai Brhamana del Veda più antico), si consuma nel terreno giudaico una lunga riformulazione del valore del sacrificio. In verità, anche in questo senso, Paolo non entra all’improvviso; la storia del giudaismo aveva già subito una svolta decisiva con i grandi profeti e particolarmente con il secondo Isaia.

Con Paolo la rottura del primato dell’azione pratica rituale si fa completa. L’alternativa tra opere e fede, tra sacramento e interiorità, tanto estremizzata in Lutero, raggiungeva così un livello irreversibile. Le molte centinaia di prescrizioni ritualistiche, e fra esse la più simbolica che è la circoncisione, cadono come segni vuoti e inefficaci di fronte all’unico evento interiore dotato del potere di fare il sacro e di restituire la vita. Tale evento consiste nell’adesione al sacrificio del messia dall’interno.

Dal gesto rituale dotato di potere vincolante, quasi magico, nel rapporto con Dio (per esempio la circoncisione), si trapassa con una svolta di 180 gradi a un’esperienza interiore estatica che realizza la resurrezione e assimila il fedele addirittura al Figlio di Dio. Questi, poi, sembra essere più dio del dio della giustizia e dell’ira: infatti egli muore innocente e non da innocente passivo bensì per sua libera decisione, e in tal modo sfugge alla giustizia e all’ira. In lui si presenta l’apocalisse di un altro e superiore livello metafisico.

Nessun popolo potrà essere eletto fondandosi su ciò che si è rivelato caduco e legato alla dimensione della colpa e dell’ira. La ricerca del fondamento davvero universale e salvifico conduce oltre i rituali dell’alleanza, conduce alla fede che precedette l’alleanza; e questa fede è il campo in cui si rivela la forza creativa del Crocifisso.

I piani di discussione richiamati da Taubes sono molteplici, ma il filo conduttore, che spiega il suo lungo sodalizio con Carl Schmitt, è costituito dal tema politico del titolo del seminario, ossia dalla questione della fondazione del popolo e dell’ordine pubblico.

In uno scorcio bruciante, le giornate di Taubes su Paolo mostrano che il problema della salvezza dal male e il problema della costituzione della polis sono precisamente lo stesso problema. Nessun popolo può venire istituito su una base esclusivamente mondana, e nessuna politica può svilupparsi senza un riferimento trascendente, perché compito eminente della politica è la salvezza del popolo.

La differenza tra Taubes e Schmitt risiede nel fatto che, mentre per Schmitt deve essere possibile un sovrano legittimato dall’alto, per Taubes nessuna politica sarà mai completamente legittima di per sé. Il suo messianismo apocalittico si rifà a un’istanza irriducibile al mondo terreno e smaschera l’inadeguatezza di ogni ordine costituito. E ciò fino alla fine dei tempi; allora, quando anche i Giudei, dopo tutte le altre nazioni, saranno convertiti si aprirà il nuovo eone.

Nessuna politica potrà dirsi legittima fino a che tutto Israele non si sarà riconciliato con Dio. Nessun sovrano infatti, né popolo né principe, potrà aver ricevuto fino a allora la sanzione definitiva.

Cosicché il ruolo dell’Israele storico, ancorché trattenuto in sospeso nell’intervallo che precede la fine, resta essenziale per il perfezionamento del processo di salvazione dell’umanità, in quanto ne rappresenta il capitolo conclusivo prima dell’entrata del regno.

Paolo ha aperto l’ultimo ciclo della storia del mondo; ebreo zelota, fanatico spintosi in avanguardia, egli ha inaugurato il processo conclusivo, al cui termine si colloca l’associazione alla fede di quel popolo che fu primo e che per sordità si è ostinato a restare ultimo.

Paolo ne ha accettato, contrariamente a Mosè, la distruzione, al fine di sostituirne il fondamento e farlo rinascere con l’intera umanità. L’intero Israele, il pas Israel , coinciderà con l’intera umanità spirituale, o vivente nello spirito. E la conversione finale dell’ultimo popolo, gli Ebrei, sarà finale in senso effettivo, in quanto con il suo arrivo coinciderà la resurrezione dei morti e l’avvento del regno di Dio.

Dice Paolo che il Dio ha previsto di associare a sé prima i pagani per far ingelosire il suo antico popolo.

E’ vero che con questa gelosia si tratta pur sempre di amore e di una astuzia d’amore, eppure con questo argomento si propone qualcosa che pare incomprensibile. Tutto sembra ancora dipendere da un disegno cosmico predeterminato mentre era stato detto che la liberazione non può che nascere dalla fede e dalla ribellione al destino.

Ma non bisogna farsi fuorviare da un millennio e mezzo di antisemitismo cattolico e pensare che il popolo ebraico sia stato escluso definitivamente dall’orbita del Salvatore, in quanto suo nemico e carnefice. La soluzione di Paolo serve a immaginare che il percorso giudaico non deve essere interrotto e che, anzi, deve essere portato a termine, perché dalla sua dialettica interna partono le strade della salvezza.

Giuseppe Lampis


Articoli correlati