L’uomo come simbolo (da àtopon Vol. III)

Julien Ries

La mia relazione dal titolo L’uomo come simbolo si situa nella linea indicata dal sottotitolo del colloquio: L’uomo come tensione creatrice. Dopo una breve introduzione sul simbolo come epifania dell’invisibile, affronterà tre aspetti della creatività simbolica centrata sull’uomo. La prima parte si immerge nella preistoria, alla ricerca delle radici dell’homo symbolicus e dell’homo religiosus. La seconda parte interroga le prime grandi religioni per cercarvi l’uomo come simbolo del divino. La terza si sofferma su un testo dell’India l’Inno a Purusha in cui l’Uomo è l’artefice del Sacrificio vedico.

Partiamo dal senso fondante del symbolon: un oggetto spezzato in due al fine di riconoscere l’identità dei portatori e la loro appartenenza.Ogni simbolo è un segno concreto che evoca, mediante un rapporto naturale, l’invisibile, cioè qualcosa che è al di là di se stesso. Il significante, sempre visibile, apre al significato che è una realtà assente che sfugge alla dimensione spazio-temporale. Il simbolo è da sempre rivelatore dell’invisibile e del mistero. Inoltre il simbolo è ispiratore, si apre quindi sulla creatività. Inoltre è mediatore e creatore perché stabilisce un’alleanza tra due mondi.

L’attività simbolica è un’attività specifica dell’uomo, la carta d’identità  dell’Homo sapiens (Gilbert Durand), un’attività diretta dall’immaginario, parte essenziale della psiche la quale è creatrice del pensiero simbolico, regolatrice dell’insieme delle immagini e delle relazioni tra le immagini che formano la ricchezza dell’uomo.

In questa comunicazione esaminiamo tre aspetti dell’uomo come simbolo cioè:

– come significante dell’invisibile,
– come epifania di un mistero,
– come mediatore dell’alleanza.

I.  L’emergere dell’homo symbolicus e religiosus

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Demetra
Opera fotografica di Lorenzo Scaramella

Dal 1959, nei giacimenti di Olduvai in Tanzania e ad est del lago Turkana in Kenya, i paleoantropologi hanno scoperto vestigia umane provenienti da crani e da scheletri umani di più di due milioni di anni. A questi fossili sono collegati ciottoli tagliati su una faccia o, in alcuni, casi su due facce.

Nel 1964 i paleoantropologi L. Leakey, Ph. Tobias e J. Napier hanno parlato dell’Homo habilis successore dell’Australopiteco creatore della prima cultura1. La creazione degli utensili, il taglio bifacciale della pietra di selce, la scelta dei materiali e dei colori mostrano la presenza nell’Homo habilis di una coscienza della simmetria e dell’estetica. L’Homo habilis conosce la stazione verticale ed è quindi bipede. Quest’uomo ha creato la prima cultura umana più di due milioni di anni fa.

André Leroi-Gourhan ha ben analizzato la tensione creatrice dell’uomo arcaico che fabbrica i suoi utensili. Siamo all’origine, alle radici del simbolo, al primo laboratorio dell’immaginario2. L’uomo è in piedi, tra cielo e terra, di fronte all’orizzonte. Questa posizione è fondamentale perché è ad un tempo legame ed alleanza tra il cielo e la terra. Biologicamente la verticalità avrà un’influenza decisiva sullo sviluppo del corpo. Dal punto di vista psichico questa influenza non è meno significativa perché la verticalità fa sì che lo sguardo si volga verso l’esterno, conduca al dominio dell’ambiente, alla presa di coscienza interiore del posto dell’uomo nell’Universo. L’uomo in piedi è il simbolo del dominio sul cosmo e della funzione di creatività espressa mediante la realizzazione di utensili.

Un secondo aspetto simbolico dell’Homo habilis si esprime attraverso la mano 3. Più di due milioni di anni fa la mano dell’uomo è divenuta l’organo del discernimento: è servita a scegliere la pietra con attenzione, secondo la materia e il colore, prima di cambiarne la forma lavorandola. Così la mano è collegata al cervello, essa è segno dell’invisibile, simbolo dell’intelligenza, della coscienza simbolica, della nascente esperienza estetica. Questa recente scoperta è di importanza capitale poiché essa ci mostra la nascita dell’homo symbolicus più di due milioni di anni fa.

Con l’Homo habilis, la mano non è più un utensile come per l’animale, ma diviene il motore dell’utensile. Con l’utensile l’Homo habilis entra nella tecnica, si serve cioè di un metodo di utilizzazione degli strumenti che esige un­’idea e un progetto. Modellare un chopper esige per prima cosa che l’uomo intravveda l’utensile terminato: per ciò deve scegliere il ciottolo che gli conviene, deve percepire anche tutte le operazioni necessarie. L’immaginario e la mano sono legati in un rapporto simbolico grazie al quale l’Homo habilis diventa creatore di cultura. Così nell’Homo habilis si trovano insieme il raddrizzamento del corpo, la liberazione delle mani, la visione dell’orizzonte e dell’ambiente circostante che stimolano la scoperta così come la coscienza simbolica e creatrice. L’homo symbolicus è nato.

Con l’Homo erectus dei paleoantropologi, che troviamo circa un 1.600.000 anni fa, ci avviciniamo alla mano dell’uomo moderno dal punto di vista anatomico. La tecnica del taglio bifacciale degli utensili progredisce e il senso estetico va sviluppandosi. Inoltre questa tappa segna l’invenzione del fuoco. L’aspetto simbolico si diversifica progressivamente con l’apparizione dei primi rituali.

Passiamo all’homo religiosus della preistoria. Gli storici delle religioni sembrano essere concordi su un fatto: l’esistenza di tombe è il segno della credenza nella sopravvivenza. Le prime tombe, quelle di Qafzeh in Palestina risalgono a 90.000 anni fa, quelle dell’Uomo di Neandertal vanno da 80.000 a 40.000 anni fa. Per quel che concerne il nostro dominio, diversi aspetti del simbolismo dell’uomo sono testimonianze della credenza nella sopravvivenza.

Nel paleolitico superiore due simboli importanti si moltiplicano. Il primo è costituito dalle conchiglie incassate nelle orbite oculari: i viventi danno ai defunti occhi simbolici per la loro vita d’oltretomba. Il secondo è la presenza d’ocra rossa sui cadaveri: questo simbolo del sangue è segno della vita nell’aldilà. Un altro simbolo riguarda il cranio che è trattato, modellato o circondato da un rituale significativo4. Alla fine del paleolitico, con la civiltà natufiana appare un’intensificazione di crani lavorati in Siria e in Palestina. Così a Gerico, si sono trovati crani separati dal corpo e disposti in cerchio che guardano verso l’interno. In un altro caso, formavano tre gruppi di tre, orientati verso la stessa direzione (G. Camps). In Siria a Tell Ramad, crani lavorati, ricoperti d’ocra sulla fronte sono stati trovati raggruppati in abitazioni. Dunque il cranio umano è considerato come sede della vita post-mortem. Tutta la simbolica degli occhi del sangue e del cranio attesta l’esistenza dell’homo religiosus dalla fine del Paleolitico medio5. Il corpo dell’uomo è simbolo del mistero della vita nell’aldilà.

Aquesti fatti che si scaglionano in molte centinaia di millenni, dobbiamo aggiungere i gesti rituali significativi trasmessi grazie alle iscrizioni e all’iconografia preistorica. Ai mio avviso i più eloquenti provengono da scene rituali del Neolitico. A çatal Hüyük, una città dell’Anatolia centrale occupata tra il 6.250 e il 5.400 a. C., raffigurazioni di esseri umani si sviluppano intorno a figure divine. Nell’Hoggar, in ripari sotto la roccia, un Gran Dio è circondato da uomini con le braccia levate in posizione di oranti. Disponiamo di una complessa documentazione incisa sulle rocce della Valcamonica, una stretta vallata della Lombardia, a Nord di Brescia. Tra il 5.000 e il 3.000 la simbolica rupestre subisce una profonda modificazione artistica e ideologica. Accanto a numerose figure in posizione di oranti, con le mani e le braccia levate verso il cielo, si moltiplicano i simboli celesti e solari. I gruppi di oranti sono incisi sulle rocce situate di fronte al sole sorgente verso il quale levano le braccia. L’uomo in piedi è in cerca della luce che viene dal cielo6.

Concludo questa prima parte che fa riferimento interamente a documenti tratti dalla preistoria: segni senza parole, senza scrittura. è una documentazione fatta di segni e di simboli che richiedono un’ermeneutica. Questa ci mostra l’uomo all’opera nei suoi spazi di creatività che realizza le prime culture e i primi gesti rituali: quest’uomo è un homo symbolicus che epifanizza l’invisibile e un homo religiosus che ha scoperto la trascendenza e da questo momento è in cerca del mistero, come mostrano i primi uomini in preghiera. La simbolica del corpo e di alcuni organi è lo strumento dell’epifania del mistero.

II. L’Uomo come simbolo del Divino

Passiamo ora ad esaminare le grandi religioni del Vicino-Oriente antico. L’homo religiosus, sedentario dal IX millennio, cerca una rappresentazione simbolica della divinità. Verso l’8.000 appaiono due simboli: uno, il più frequente, la donna feconda, l’altro, il toro, talvolta cavalcato da un uomo. Verso il 6.000 le figure della dea madre si moltiplicano in Siria, Mesopotamia e Palestina, poi in Europa nei Balcani. Jacques Cauvin ha mostrato che nel Vicino Oriente la dea è la prima istanza suprema a forma umana, cioè l’origine e la supremazia del mondo naturale è per la prima volta concepita dall’uomo a sua immagine. La dea è rappresentata nella sua funzione di creatrice degli animali. Questo tema della dea madre sarà presente nelle diverse religioni del mondo mediterraneo7.

Dall’VIII millennio, l’homo religiosus del Vicino Oriente ha concepito il Divino come personale e come trascendente. Per rappresentarlo, ha moltiplicato le figurazioni umane. Questa tradizione è continuata attraverso Sumer, Akkad e Babilonia. Essa prenderà, comunque, un nuovo rilievo.

In sumerico l’Essere divino è designato dalla parola “dingir”, in accadico dalla parola “ilu”. L’etimologia di queste parole ci sfugge ma il loro senso è chiaro, grazie a un disegno, quello di una stella. Questo ideogramma che precede sempre il nome della divinità significa che questa è in-alto, in cielo. Il mondo divino è un mondo celeste e il mondo terrestre è un riflesso del cielo8.

Perpetuando le tradizioni protoneolitiche e neolitiche, i Sumeri e i Semiti rappresentano le divinità sotto forma umana.

La statua divina avrà una grandissima importanza perché essa diviene il luogo di una presenza divina. Agli dei e alle dee si danno forme umane, ma un’essenza superiore a quella della natura umana, perché alle divinità è attribuita la condizione regale. I mesopotamici conferiscono loro soprattutto luce e splendore come caratteristica principale. Questa luminosità può divenire una forza irradiante, una emanazione luminosa intorno alla statua divina, l’aurea luminosa che sarà ripresa dall’India, dall’Iran, e dall’Occidente. Questa luce è l’irradiare del viso e dell’intelligenza9. Percepito dai fedeli, lo splendore irradia sui vestiti e all’­interno dei templi e dei santuari. Il rito di coronamento delle statue degli dei e delle dee è capitale perché conferisce loro una potenza soprannaturale. La statua divina deve emanare un buon odore, irradiare luce, mentre l’ombra è una manifestazione della forza vitale del dio o della dea presente nella statua.

Così la proiezione della forma umana nello spazio ha grande importanza. L’ombra che viene da un corpo divino è ritenuta luminosa. L’ombra del re è la vita del paese. Il re in effetti è un’emanazione della divinità : la regalità mesopotamica è una regalità divina. Queste indicazioni fanno vedere la ricchezza dell’uomo come simbolo del divino in Mesopotamia. Bisognerebbe fare uno studio molto ampio sul re e la regalità divina.

Passiamo ora al mondo greco. Vi troveremo dapprima l’uomo, cioè il corpo umano come simbolo, come forma teofanica degli dei e delle dee dell’­Olimpo descritti con una particolare predilezione in Omero10.

Queste divinità sono chiamate gli eterni perché hanno in comune l’immortalità. Non soltanto sono simbolizzate da un corpo umano, ma sono rappresentate nel fiore dell’età : la giovinezza e la bellezza sono attributi del loro essere. I greci non rappresentano il divino in stato di vecchiaia, di spossatezza o di invecchiamento. Il divino è la forza, la nobiltà, la bellezza, lo splendore della giovinezza. Alla bellezza dei tratti e all’­equilibrio delle forme si aggiunge l’alta statura degli dei e delle dee. Questi beati dimorano nelle altezze dell’eterno splendore.

Numerose tracce mostrano che in epoca arcaica ci sono stati altri simboli del divino, ma già prima di Omero, i Greci avevano eliminato queste forme per conservare soltanto il corpo umano nei suoi profili di bellezza e di gioventù, come rappresentazione esclusiva della personalità divina. L’uomo come simbolo rivela il mistero divino. Come la statua del dio in Mesopotamia, la statua divina in Grecia rappresenta un elemento capitale del culto. Il vocabolo greco agalma designa la statua di una divinità venerata dai fedeli. La parola xoanon è utilizzata per parlare della statua levigata da un artista. Eidôlon, raro nel mondo greco, traduce sedici parole ebree relative all’idolatria. Sappiamo bene quale lotta i giudei e i cristiani hanno condotto contro l’idolatria.

La rappresentazione delle divinità in Oriente e in Egitto ha incontrato la tradizione greca delle statue divine all’indomani delle conquiste di Alessandria.

Gli dei orientali entrano nel mondo greco. L’arte religiosa, la simbolica degli dei e il culto conoscono un nuovo slancio. Una grande varietà di immagini divine si spande dappertutto: divinità principali in marmo o in materia dorata nei templi, immagini divine innalzate per le feste. Alcune statue sono considerate come animate da una forza misteriosa. Quelle che sono realizzate dai grandi artisti evocano la maestà divina.

Tutta una dottrina del simbolismo delle statue degli dei va prendendo consistenza: Plutarco, Celso, Dione Crisostomo, Massimo di Tiro. Create dagli artisti, le forme visibili rallegrano gli dei, ma sono prima di tutto destinate a inculcare ai fedeli la grandezza delle divinità, poiché è grazie alla potenza del simbolo che l’uomo passa dal visibile all’invisibile e entra nel mistero. è la dottrina di Dione che ritiene inoltre che l’aspetto umano delle statue degli dei indichi in maniera simbolica la parentela degli dei e degli uomini.

Durante quattro secoli, il confronto tra cristiani e pagani dà luogo da parte della cultura pagana all’elaborazione di un’ermeneutica del simbolo, dalla parte del cristianesimo a un’antropologia e a una teologia patristica sul tema dell’uomo immagine di Dio. Quest’ultima trova la sua ispirazione nella Bibbia e nell’incarnazione del Cristo. Assistiamo ai primi passi di una teologia dell’icona che si svilupperà alcuni secoli più tardi11.

L’ultimo grande difensore della simbolica delle statue divine è l’­imperatore Giuliano. Ecco un testo di una delle sue lettere:

«Le statue (agalmata) e in una parola tutti i simboli (symbola) di questo genere i nostri padri li hanno stabiliti come segni della presenza degli dei e non perché li prendessimo per dei, ma per farci adorare gli dei attraverso la loro mediazione. Viviamo in un corpo. Era necessario dunque che anche il culto degli dei passasse attraverso l’aspetto corporeo. Anche se essi sono incorporei[…]. Quando contempliamo le statue degli dei, guardiamoci dal prenderle soltanto per pietra o legno, ma anche dal prenderle per gli dei stessiª (citato da J. Pépin, Mythe et allégorie, p. 385).

III. L’Uomo come simbolo nel sacrificio vedico

Nel pensiero dell’India, fin dai tempi vedici, due preoccupazioni appaiono come essenziali: la nascita del mondo e il sacrificio. Queste due preoccupazioni si esprimono attraverso miti, simboli e riti che vanno amplificandosi fino all’epoca del buddhismo. Ci soffermeremo su un testo antichissimo che fa parte di una raccolta di inni chiamata Rigveda, un’opera religiosa divisa in dieci libri destinata al culto. In questo inno chiamato Inno a Purusha (RV. X, 90) si parla della cosmologia e del sacrificio.

Quando si parla di cosmogonia in India, bisogna sapere (J. Varenne) che l’informe, il disorganizzato non è meno reale del formato e dell’organizzato: da cui l’opposizione tra il Caos e il cosmo da una parte e dall’altra tra il bene e il male. Quindi la cosmogonia o nascita del mondo prende la forma di un combattimento che deve terminare con la vittoria dell’ordine sul disordine.

Ci sono diversi miti cosmogonici; abbiamo scelto l’Inno a Purusha perché l’Uomo vi è designato come il simbolo del sacrificio creatore del cosmos12.

1.  L’Uomo simbolo della nascita del mondo

Diagramma tantrico di Vidata Purusha
Diagramma tantrico di Vidata Purusha

Il mondo è nato da Purusha, l’Uomo, una sorta di Gigante di cui l’Inno descrive le forme immense. Si tratta di un linguaggio simbolico che vuole mostrare tutta la ricchezza dell’Uomo considerato come Archetipo. Ecco le prime strofe dell’Inno.

Strofa 1
L’Uomo ha mille teste
Ha mille occhi, mille piedi.
Copre la terra da parte a parte
e la supera ancora di dieci dita.

Strofa 2 
L’Uomo non è altro che questo universo
ciò che è già accaduto, ciò che deve accadere.
è il signore del dominio immortale
e cresce al di là del suo nutrimento.

Strofa 3
Tale è il suo potere
e più vigoroso ancora è l’uomo.
Tutti gli esseri sono solo un quarto di lui;
L’Immortale in cielo le altre tre parti.

Strofa 4
Con tre quarti [di sé] l’Uomo si è elevato là in alto.
La quarta ha ripreso nascita quaggiù.
Da lassù si è espansa in tutti i sensi
verso gli esseri che si nutrono e quelli che non si nutrono.

Così soltanto la quarta parte di Purusha è servita come base per la creazione sulla terra, cioè alla cosmogonia. Tutto il resto forma il principio immortale situato in cielo. Dai tempi vedici, l’India è preoccupata per la conquista dell’Immortalità. Il fine del sacrificio brahmanico sarà essenzialmente la conquista dell’immortalità allo stesso tempo che la rigenerazione del cosmos. In queste quattro strofe, il redattore vedico presenta l’Uomo come le radici o meglio come il germe del cosmo. Il testo continua.

Strofa 5
Da Purusha è nata l’Energia creatrice
Dall’Energia creatrice è nato l’Uomo.
Una volta nato si è esteso al di là
della terra, tanto all’indietro che in avanti.

Queste prime strofe dell’Inno hanno sviluppato la simbolica del Purusha: l’Uomo come simbolo della cosmogonia e dell’energia creatrice. Siamo in presenza di un linguaggio simbolico dell’India che fa parte del primo pensiero speculativo. Questo linguaggio simbolico sfugge alle nostre categorie occidentali. Questo tema di Purusha si ritroverà nell’induismo classico in cui sarà identificato con gli dei Vishnu o Shiva. Si troverà anche in diversi testi liturgici perché si tratta di un documento veramente essenziale nel pensiero simbolico dell’India.

2. L’Uomo, simbolo del sacrificio

Dopo la nozione di Uomo cosmico, l’Inno passa ad un altro tema di grande rilevanza, quello del sacrificio. Il Purusha, l’Uomo, si trova al cuore del sacrificio vedico e brahmanico.

Il sacrificio è un insieme di riti che mantengono l’ordine del cosmo e lo rigenerano. Nella gerarchia del cosmo gli dei sono la chiave di volta perché si occupano della sfera celeste. Essi sono anche la chiave di volta della società. Agni è il dio del sacrificio, il fuoco del sacrificio alimentato dal fuoco di legni scelti, dal burro, dal grasso animale, dai grani. è il fuoco del focolare che non può spegnersi. è anche il fuoco della cremazione, la terza nascita del brahmano. Il sacrificio è una vera liturgia cosmica. Nell’Inno a Purusha l’Uomo è il simbolo del sacrificio perché dal suo sacrificio primordiale è nato il sacrificio stesso.

Strofa 6
Quando gli dei istituirono il sacrificio
L’Uomo fu la sostanza oblatoria
la primavera servì da burro rituale
l’estate da legno per l’accensione, l’autunno da offerta.

L’uomo è il simbolo della vittima, ma è anche il sacrificatore.

Strofa 7
Sulla lettiera sacra hanno asperso l’Uomo
Cioè il Sacrificio che è nato alle origini.
Poi gli dei compirono questo sacrificio
come i santi e i rishi.

Dal sacrificio Archetipo, offerto in forma totale, è derivato l’insieme delle vittime dei sacrifici futuri (strofa 8), ma anche il rituale vedico (strofa 9) così come i cavalli e i bovini, bestie nobili (strofa 10). La simbolica presente in queste strofe è molto ricca. Il Purusha, l’Uomo primordiale e Archetipo del sacrificio è ad un tempo il prete e la vittima, il fondatore del rituale e il creatore delle vittime utilizzate in vista del sacrificio. A questo archetipo si ricollega tutta la tradizione sacrificale dell’India, perché vi troviamo gli dei, i rishi che sono gli ispiratori del Veda, come i santi.

3.  L’Uomo sacrificato, simbolo di comunione

Un terzo aspetto della simbolica del sacrificio del Purusha è quello della comunione sacrificale o partecipazione al sacrificio. In India la gerarchia delle classi sociali fa parte della cosmogonia e risale all’epoca vedica. Ci sono tre classi arie: i brhmani o preti che presiedono alle funzioni del sacro e della sovranità ; gli  kshatriya o guerrieri che presiedono alle funzioni della conquista, della forza, della difesa; i vaishya, agricoltori-allevatori responsabili della produzione alimentare. A queste tre classi si aggiunge la classe degli shudra o servitori, classe non-aria che non ha accesso al Veda e esercita i piccoli mestieri. Queste quattro classi derivano dall’uomo sacrificato e smembrato:

Strofa 12
La sua bocca divenne il Brahmano,
Il Guerriero fu il prodotto delle sue braccia,
Le sue cosce furono l’Artigiano
Dai suoi piedi nacque il Servitore.

La società indiana è strutturata simbolicamente intorno al sacrificio che, nel corso del lungo periodo vedico e brahmanico, fu l’elemento di equilibrio sociale. Le tre classi – varna, colori – arie partecipano al rituale vedico, gli shudra hanno il dovere di obbedienza.

Ci fermiamo qui in questa analisi molto sommaria di questo Inno a Purusha, un testo molto antico che troviamo nel Rigveda e che costituisce una prima sintesi del pensiero simbolico dell’India. Il Purusha, l’Uomo Primordiale, costituisce il simbolo archetipico della cosmogonia e del sacrificio, due dottrine fondamentali del pensiero indiano dalle origine vediche fino ai nostri giorni. L’Inno a Purusha è un testo privilegiato che ha fatto la sua entrata nell’ortodossia brahmanica, che è stato utilizzato in rituali classici, che si ritrova nel culto di Vishnu e che ancor oggi è recitato ogni mattina dall’Indù di alta casta che adora sia Vishnu che Shiva. La densità simbolica di questo testo è impressionante, direi sconcertante per il nostro pensiero e per la nostra logica occidentale.

Alcune nozioni sviluppate da questa brevissima analisi di una parte dell’Inno permettono di intravvedere sia la densità del pensiero simbolico indiano, sin dall’epoca vedica, sia il posto eminente dell’Uomo, simbolo archetipico della cosmogonia e del sacrificio, due dottrine intimamente legate nel vedismo e il brahmanesimo.

Conclusioni

La nostra ricerca sull’uomo come simbolo si colloca sul terreno della storia delle religioni. Essa affronta brevemente tre settori: la preistoria, le prime grandi religioni del Vicino Oriente e del Mediterraneo, l’India vedica. Questo studio non è che un breve schizzo di un vasto problema che merita un grande sviluppo.

Si impone una notazione metodologica. Abbiamo trattato queste tre categorie di documenti situandole nel loro contesto storico, socio-culturale e religioso e sottomettendole a un’analisi conforme al pensiero specifico del loro ambiente.

L’errore fondamentale del teologo Eugen Drewermann risiede nell’utilizzazione della simbolica delle diverse religioni senza tener conto del contesto storico-culturale dell’homo symbolicus e religiosus. In una simile ottica il metodo comparato può portare in linea diretta a delle conclusioni erronee poiché il significante si trova ad essere alterato.

La nostra conclusione, tratta dallo studio dei documenti religiosi, può riassumersi in poche righe. Abbiamo la prova della nascita dell’homo symbolicus fin dai primi passi dell’Homo habilis, più di due milioni di anni fa: creatore di utensili e della prima cultura, l’Uomo di Olduvai era symbolicus.

Senza alcun dubbio l’Homo sapiens è un  homo religiosus e mostra che religiosus e symbolicus sono legati, cosa che permette di pensare a un’esperienza del sacro presso l’Homo erectus.

Fin dalle prime grandi religioni, l’uomo sceglie in maniera privilegiata la simbolica umana come rappresentazione del divino. La Mesopotamia e la Grecia costituiscono la grande illustrazione di questa simbolica del divino. Capolavoro della letteratura vedica, l’Inno a Purusha ci mostra l’Uomo simbolo della cosmogonia e del sacrificio fin dal sorgere della filosofia dell’India.

Julien Ries

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NOTE:

1) Ph. V. Tobias, Paleoantropologia, Jaca Book, Milano 1992.

2) A. Leroi-Gourhan, Le geste et la parole (vol. I: Technique et langage – vol. II: La mémoire et les rythmes), Albin Michel, 2ª ed., Paris 1991.

3) J. Piveteau, La main dans la préhistoire, Masson, Paris 1991; AA. VV., La main dans la préhistoire, ´Dossiers de l’archéologie, n° 178, Gennaio 1993.

4) Pascale Binant, La préhistoire de la mort, Ed. Errance, Paris 1991.

5) J. Cauvin, Religions néolithiques de Syro-Palestine, Maisonneuve, Paris 1992.

6) J. Cauvin, L’apparition des premières divinités, in La Recherche, Paris 1987, n° 194, pp. 1472-1480. E. Anati, Valcamonica. 10.000 anni di storia, Capo di Ponte 1987.

7) J. Cauvin, nota 7.

8) J. Bottero, Mésopotamie. L’écriture, la raison et les dieux, Gallimard, Paris 1987.

9) Elena Cassin, La splendeur divine. Introduction à l’étude de la mentalité mésopotamienne, Mouton, Paris 1968.

10) W. F. Otto, Les dieux de la Grèce, Payot, Paris 1981.

11) J. Ries, I cristiani e le religioni Editrice Queriniana, 1992.

12) Anne-Marie Esnoul, La naissance du monde dans l’Inde, in La naissance du monde, Seuil, Paris 1959, pp. 329-365; Madeleine Biardeau e Ch. Malamoud, Le Sacrifice dans l’Inde ancienne, PUF, Paris vol. II: La mémoire et les rythmes), Albin Michel, 2ª ed., Paris 1991.


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