Mater dolorosa Archetipo della vita

Dagli atti del Convegno "Figure archetipali - Tracce sui sentieri dell'uomo"
Bracciano 3-4 ottobre 2009

Maria Pia Rosati

La figura della mater dolorosa è un archetipo che esprime un paradosso nella vita della donna, ma possiamo dire anche una contraddizione che suona come uno scandalo inaccettabile all’interno della vita stessa. La donna che dà la vita è anche destinata a soffrire non solo nel dare la vita al figlio, ma ancora e di più nel sapere che il figlio è destinato a soffrire e morire. Eppure ella non può dire che ‘fiat’, al pari di Maria, archetipo divino, piegandosi al mistero della vita e della morte.

Il figlio del resto, per nascere effettivamente e vivere la sua vita, deve allontanarsi dalla madre, diventarle estraneo, rinascere nello spirito purificandosi dal ‘peccato originale’ che ha ereditato con la vita stessa che la madre gli ha donato. Se il figlio non nasce in una nascita nuova, diversa (come è previsto in ogni cultura attraverso riti importanti ed esplicitamente significativi, come la circoncisione, o il battesimo) è un non nato e la madre allora fallisce proprio nel suo compito di madre, datrice di vita.

La psicoanalisi freudiana centrata sul complesso edipico evidenzia come la congiunzione con la madre, con l’aspetto materno, sia tragicamente inevitabile. Essa è mortale, non della morte che definisce una vita, bensì di quella che la riassorbe nell’indefinito. Solo il vir, l’eroe, il vero uomo è capace della rinuncia al rassicurante grembo materno, alla tentazione di regredire in esso, cioè del sacrificio grazie al quale è possibile non abolire, ma vincere la morte per nascere alla vera vita, quella dello spirito, (vedi il mito dell’eroe omerico Achille che rinuncia alla protezione materna che lo avrebbe ancorato a una vita terrena imbelle e anonima per divenire eroe attraverso la morte gloriosa in battaglia).

Compianto sul corpo di Cristo (part.), S. Panteleimon, Nerezi (Macedonia) XII sec.
Compianto sul corpo di Cristo (part.), S. Panteleimon, Nerezi (Macedonia) XII sec.

Ma come può la madre accettare che il figlio rinunci alla vita che lei gli ha dato, respingendo così la sua essenza di madre nella radice più intima? Come può accettare che fugga da lei?

È necessario un sacrificio a cui anche la madre partecipi. L’eroe può dare la sua vita, la vita che la madre gli ha dato, in sacrificio, per un bene superiore o contro un nemico/male esterno. Ma tale sacrificio comporta necessariamente anche il sacrificio della madre. Ricordiamo le madri dei guerrieri spartani (tutti eroi per definizione) che dicevano ai loro figli: o con lo scudo o sullo scudo!

Possiamo allora dire che lo spirito materno è intrinsecamente capace di sacrificio (non solo il sacrificio della carne quando a rischio della sua vita ha dato la vita al figlio, ma il sacrificio dello spirito, ancora più alto di una elevazione suprema). Il sacrificio della madre giunge al limite di accettare che il figlio rinunci alla vita che lei gli ha dato per un’altra nascita e un’altra vita. La madre è consapevole nel recesso più intimo che già quel primo sacrificio inerente alla sua essenza femminile, quello di dare alla luce il figlio consegnandolo alla vita, comporta inevitabilmente un altro sacrificio, quello di consegnarlo anche al dolore, alla morte ma anche al mistero che attraverso di essa si apre. Forse possiamo dire che la mater dolorosa il suo fiat è la figura archetipale di un simile necessario piegarsi al destino.

Le lacrime della madre

Di questa vicenda archetipica vogliamo citare solo due famosi esempi della nostra cultura occidentale:

Kerényi (in Gli Dei della Grecia p. 205) descrive la tragedia di Niobe, una madre primordiale e archetipica della mitologia greca.

«Niobe appariva in Beozia come sposa di Alalcomeneo (l’uomo primordiale) e quindi madre primordiale degli uomini […]

Gli altri racconti nei quali non si diceva che Niobe fosse stata la prima moglie e la madre degli antenati delle stirpi greche, parlavano del gran numero dei suoi figli e della sua rivalità con la dea Leto che aveva partorito soltanto la coppia dei fratelli Apollo e Artemide. Una volta Leto e Niobe erano state molto amiche – così diceva la nostra grande poetessa Saffo. Al tempo di quell’amicizia certo non vi era separazione tra gli dei e gli uomini. Niobe venne chiamata anche dea, sebbene nella leggenda essa figuri soltanto come una superba regina, figlia del re di Lidia Tantalo. Secondo questi racconti essa doveva scontare duramente la sua colpa. La storia si trova già nel nostro Omero: i suoi dodici figli perirono, sei figlie e sei fiorenti giovinetti. I figli furono uccisi da Apollo con il suo arco d’argento, le figlie da Artemide, per ira contro Niobe che aveva rivaleggiato con Leto, madre di soli due figli, mentre lei ne aveva avuti tanti. Gli uccisi giacquero nel sangue per nove giorni e non vi fu nessuno che li seppellisse, poiché il figlio Crono aveva trasformato i presenti in pietre. Il decimo giorno gli dei celesti stessi seppellirono i morti. In quel giorno Niobe, esausta dal pianto, per la prima volta toccò cibo. Ma ora sta trasformata in roccia, nella montagna di Sibilo e continua a soffrire, anche come pietra, secondo la volontà degli dei.

Altri narratori di questa storia parlavano di quattordici, diciotto, diciannove o venti figli di Niobe che erano periti innocenti affinché risultasse nettamente la differenza tra dei e uomini […]

Si diceva anche in tempi più tardi che le lacrime che colavano ogni anno da una roccia del Sibilo in Asia minore sgorgassero dagli occhi di Niobe. La madre dolente pietrificata veniva mostrata ai viaggiatori. »

L’altra madre dolorosa del mondo greco è la dea della terra, conosciuta sotto il nome di Demetra. La sua sovranità sulla vita nascente si ricollega a quella sulla morte, perché quanto ella partorisce ritorna nuovamente al suo grembo materno.

Il mito racconta che a Demetra viene rapita la figlia giovinetta Core chiamata anche Persefone, mentre era protesa a cogliere l’inebriante fiore del narciso. La grande dea sentendo il grido disperato della figlia, trafitta da un acuto dolore, strappatisi gli ornamenti regali, volò sopra le acque, peregrinò attraverso la terra con fiaccole accese finché il terzo giorno venne a sapere da Ecate che la figlia era stata trascinata a forza nel regno dell’oscurità da Ades dio dai molti nomi, signore degli inferi, che l’aveva fatta regina dei morti.

Demetra trascorse un periodo di lutto profondo, senza sorridere, senza prendere cibo o bevanda, finché accettò di occuparsi del piccolo Demofoonte, che madre Metanira le affidò perché lo facesse crescere. Demetra ungeva il bambino d’ambrosia e ogni notte, senza che i genitori lo sapessero lo esponeva alla forza del fuoco, come un tizzone destinato a diventare fiaccola. La madre Metanira accortasene gridò spaventata e inorridita provocando l’ira di Demetra che si mostrò nella sua divinità e accusò la madre di aver irrimediabilmente precluso al figlio, con il suo timore, il dono dell’eterna giovinezza e dell’immortalità.

Il lutto di Demetra che aveva creato desolazione sulla terra cessò solo quando Ermes, inviato da Zeus convinse Ade a far tornare alla luce Persefone affinché rivedesse la madre. Demetra abbracciò con gioia immensa la figlia, ma subito seppe che questa aveva mangiato un seme di melograno offertogli dallo sposo e dunque per legge ineludibile avrebbe dovuto passare un terzo dell’anno sottoterra e soltanto per due terzi sarebbe potuta rimanere presso sua madre.

Demetra, piegandosi al fato più potente degli stessi dei, istituì ad Eleusi sacri riti di iniziazione a un culto segreto. Gli iniziati, dopo un lungo percorso rituale di purificazione, durante la cerimonia conclusiva dei grandi misteri eleusini avevano una epopteia (una rivelazione che li trasformava interiormente): la visione epifanica della dea e e quella di una spiga di grano maturo simbolo di una vita oltre la morte simile a quella del chicco di grano.

La com-passione della madre

Come può la madre accettare la sofferenza del figlio? Invero l’unica possibilità è la com-passione, la condivisione della sofferenza, che è partecipazione al sacrificio.

Nella tradizione cristiana fin dal colloquio con l’angelo, Maria è presa da sgomento quasi presentendo nella sua missione di madre la «destinazione» a condividere la missione sacrificale del Figlio. Ma a tale destino non si sottrae e, pur nello sgomento, pronuncia il suo ‘fiat’. L’iconografia ci presenta una Maria tutta assorta in raccolta meditazione, come la descrive il ‘magnificat’ di Luca, alla nascita del figlio, così come all’epifania di fronte ai doni dei magi: l’oro, ma anche l’incenso e la mirra che preannunciano un grande destino sacrificale. I presentimenti trovano conferma nella predizione di una spada che le trapasserà l’anima.

Maria condivide le vicende della vita del Figlio, con lui percorre la via della Croce, ascende al Calvario, «sta» ai piedi della Croce, partecipa alla sua passione, assiste alla sua agonia, è presente alla sua morte.

Maria, testimone con la sua presenza, e partecipe con la sua com-passione, della passione del Figlio, ha dettto Giovanni Paolo II usando le espressioni di S.Paolo, è riuscita a «completare nella sua carne — come già nel suo cuore — quello che manca ai patimenti di Cristo». Dunque Maria, la madre, nell’essere com-partecipe del sacrificio del Figlio addirittura lo completa.

La donna e il sacrificio

"Non piangere, Madre" - Icona russa - XVIII sec.
“Non piangere, Madre” – Icona russa – XVIII sec.

Vogliamo soffermarci sul significato antropologico e religioso del sacrificio volgendo uno sguardo alla antichissima religione dei Veda. Veda in sanscrito significa “sapere”, un sapere sacro che riguarda gli dèi, i riti, la parola e, in particolare, la parola per eccellenza che è il veda stesso.

I miti indiani partono da distanze infinite, da lontananze incommensurabili, nel prima di ogni prima, prima dell’origine del mondo, prima della creazione degli uomini e della nascita degli dei, quando c’era solo la mente, Prajapati, il progenitore, il cui nome segreto e’ Ka (l’interrogativo Chi?). Da lui, attraverso un sacrificio che consiste nello smembramento del suo corpo ha origine il mondo. Coloro che verranno dopo dovranno ricomporre quel corpo e quella mente disarticolati e dispersi nel mondo attraverso un rito sacrificale erigendo l’Altare del Fuoco, a forma di uccello, con undicimila cinquecento cinquantasei mattoni (mattone in sanscrito si dice citi da cit “pensare intensamente”): ogni mattone squadrato era un pensiero su cui poggiava il pensiero successivo, fino ad innalzare una parete. Il sacrificio al fuoco (Agni) e attraverso il fuoco, è un tendere verso la luce ed il calore del Sole, per divenire quella stessa luce e calore, riconoscersi nel Sole, riappropriarsi cioè della Luce, Coscienza di Verità di cui il Sole è simbolo. Secondo i Veda il rito ha il compito di ricreare costantemente l’origine del tutto, ricollocandola continuamente attraverso il sacrificio in una sorta di presente senza tempo.

Il rito sacrificale comporta, è una costruzione mentale: costruzione di sé (il singolo sacrificante come sacrificante del proprio sé, attraverso la conoscenza interiorizzata del rito, realizza la propria identità con il Sé immortale, il principio cosmico, il Brahman) e costruzione del mondo, secondo un paradigma universale in grado di riflettere ogni aspetto del mondo e della vita. Nell’antropologia vedica, ci dice Malamoud, l’uomo è il solo di tutti i viventi che sia al tempo stesso vittima sacrificale e sacrificatore.

Parte fondamentale del rito vedico è Vac, la Parola personificata e divinizzata, capace di trascendere il mondo intero, superiore anche agli dèi, e che in virtù della sua femminilità è compartecipe del sacrificio (vedi Malamoud, Femminilità della parola). Vac etimologicamente corrisponde alla voxlatina, la parola, emissione di suoni dotati di senso, una realtà che esprime qualità femminili, la parte immortale dell’anima (Bhavabhuti). Vac differisce dal logos (“discorso argomentato”, penetrante e incisivo).

Dunque, gli atti e i gesti del rito sacrificale incorporano l’aspetto maschile del sacrificio, ma i testi che vengono recitati nel rito appartengono alla (dea) Parola. Anche il silenzio fa parte della parola, perché ogni parola nasce dal silenzio e fa sempre riferimento al silenzio del non detto e del non dicibile.

Il ruolo del brahamano, il sacrificatore, è di attuare la messa a morte, l’uccisione sacrificale, perché il sacrificio è sempre un atto radicalmente violento, una messa a morte, anche quando ciò non appare e il sacrificio non è cruento. Tuttavia è necessaria la presenza della moglie del sacrificante, che parla pochissimo, recita poche formule, ma esprime una Parola al femminile. Il suo ruolo è restitutivo, chiude le ferite, fa sì che che le membra dell’animale squartato nel sacrificio siano ricomposte simbolicamente e che il suo spirito vitale circoli nuovamente. Compito della moglie del sacrificante è dunque ridare simbolicamente la vita, testimoniare una resurrezione.

Il sacrificio nell’antropologia cristiana

Dopo lo sguardo sui Veda possiamo tornare al concetto di sacrificio nel Cristianesimo.

Il Cristianesimo è tutto centrato sul sacrificio del Cristo che, esattamente nel momento in cui gli agnelli pasquali venivano immolati nel santuario, si consegna come agnello sacrificale che prende su di sé i peccati del mondo per donare la pace. Tale sacrificio, in cui Dio stesso incarnatosi e fattosi uomo si immola, avvia un processo di purificazione e di trasformazione il cui fine è la trasformazione dell’uomo che, liberato dal peccato di Adamo, diventa lui stesso conforme a Dio. Il sacrificio consiste dunque essenzialmente nella conformazione dell’uomo a Dio, nell’abolizione delle differenze, nell’unione tra Dio e l’uomo, tra Dio e la creazione: «Dio tutto in tutti» (1 Coribid. X, 6). 15, 28). « Tutta la comunità umana riscattata […] è offerta a Dio in sacrificio dal Gran Sacerdote che si è offerto lui stesso » (ibid. X, 6).

Dopo la distruzione del tempio, Israele si trovò a rimeditare sul culto, il sacrificio e a ricordare la preghiera trasmessa nel libro di Daniele « Ora, Signore […] non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovare misericordia. Potessimo essere accolti con il cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti di montoni e di tori, come migliaia di grassi agnelli. Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a Te e ti sia gradito» (Dn, 37-41). Così la preghiera, la parola, l’uomo che prega e diviene lui stesso parola, diviene il vero sacrificio: la loghikè tysia. L’apostolo Paolo (Romani 12,1) esorta i credenti ad offrire se stessi come sacrificio vivente, loghikè latreia, servizio divino secondo la parola. Il nuovo sacrificio consistente nella parola impegna l’uomo nel suo essere totale, cioè l’uomo diventa essere della Parola, conforme al logos, al Verbo che si è fatto carne e si è sacrificato sulla croce. E tale sacrificio è presentificato nel sacrificio della Messa: l’Eucaristia. Singolare sacrificio, come dice Pietro Crisologo, dove il corpo si offre senza il corpo, il sangue senza il sangue!

Ma quale è il ruolo svolto dal femminile, dalla donna, nel sacrificio?

L’amore come sacrificio

Come sappiamo sin dai tempi più antichi la donna, la vergine, è considerata l’offerta sacrificale per eccellenza (ricordiamo Ifigenia sacrificata dal padre Agamennone per poter intraprendere la guerra di Troia, e Psiche stessa esposta in offerta al Mostro misterioso nella celebre favola di Apuleio).

Nella religione cristiana, la donna, vergine e madre, è theotokos, genera il bambino divino, offre la carne in cui viene a porsi il contenuto, la parola, la potenza, l’atto. Come ci dice Evdokimov (La donna e la salvezza del mondo. 1978 tr. it. Milano 1989) la vergine è sophrosyne, castità ontologica, atto di integrazione vivificante, capacità di unificazione, icona in cui la forma coincide con il contenuto. La Vergine testimonia il progetto di Dio sulla creatura: la perfetta unione dell’umano e del divino nel primo essere umano deificato

Essa è l’esse da cui nasce il verbo. Essa pronunciando quel fiat che è già antifona dello Stabat mater dolorosa iuxta crucem lacrimosa diviene nella sua carne e nella sua modalità esistenziale ad un tempo altare del sacrificio e offerta.

La pietà di Michelangelo che ricorda arcaiche immagini di madri che tengono in grembo il figlio morto, (vedi l’antica statuetta nuragica chiamata ‘la madre dell’ucciso’ del Museo Archeologico di Cagliari) ci presenta una giovanetta, una vergine (la dantesca “vergine madre, figlia del tuo figlio”) che tiene disteso sulle sue ginocchia il corpo esanime del figlio adulto.

Senza la pietas della madre, della donna che deterge il volto della sofferenza, senza le Marie che si prendono cura del corpo, il sacrificio non arriva al suo compimento, al telos, perde il suo valore di salvazione, diventa solo carneficina e il dolore diventa un vizio assurdo. Molte sante cristiane hanno fatto della meditazione sulla passione e sul dolore della vergine ai piedi della croce, sullo Stabat mater, la loro strada verso l’unione contemplativa con il divino. La partecipazione della donna al sacrificio è infatti tutta nella com-passione, nella fedeltà nel dolore.

È l’amore che vince la morte e proprio l’amore della donna, colei che dà la vita, ma sa stare accanto al dolore e alla morte, può aiutare nella sofferenza e nell’ora della morte ed essere promessa di vita eterna.

Vogliamo citare un passo di grande intensità tratto da un articolo di Joseph Ratzinger.

«un paradosso …s’incontra nei vespri del lunedì della seconda settimana del Salterio. Qui, una accanto all’altra, rincorrono due antifone – una per il tempo di Quaresima, l’altra per la settimana Santa – che introducono il salmo 44, offrendone però una chiave interpretativa del tutto contrapposta.

È il salmo che descrive le nozze del re, la sua bellezza, le sue virtù, la sua missione, e poi si trasforma in un’esaltazione della sposa. “Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia”…

… Ma il lunedì della Settimana santa la Chiesa cambia l’antifona, invitandoci a leggere il medesimo salmo alla luce di Isaia 53,2: “ Non ha bellezza né apparenza; l’abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore”.

Come si conciliano le due visioni? Il “più bello” tra i figli degli uomini è tanto misero d’aspetto che nemmeno lo si vuole vedere. …. Chi crede in Dio, nel Dio che proprio nelle sembianze alterate del Crocifisso si manifestato come amore “sino alla fine” (Gv 13,1), sa che la bellezza è verità e che la verità è bellezza, ma nel Cristo sofferente apprende anche che la bellezza della verità include offesa, dolore e persino l’oscuro mistero della morte. Bellezza e verità possono rinvenirsi soltanto nell’accettazione del dolore, e non nel suo rifiuto.

Non resta dunque che tornare al paradosso di Cristo, del quale si può dire “Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo …”, ma anche “Non ha bellezza né apparenza…un volto sfigurato dal dolore”. Nella passione di Cristo, … L’esperienza del bello riceve una nuova profondità, un nuovo realismo. … Ma proprio in quel volto sfigurato appare l’autentica, estrema Bellezza dell’Amore che ama “sino alla fine”, mostrandosi così più forte di ogni menzogna e violenza»

(Gesù tra Bellezza e dolore, La Repubblica 10 Marzo 2004)

Via Crucis, via Lucis

Compianto di Nicolò dell'Arca - Opera fotografica di Lorenzo Scaramella
Compianto di Nicolò dell’Arca – Opera fotografica di Lorenzo Scaramella

Nel ‘900, il secolo delle tempeste le grandi anime osservano il pullulare e il ribollire delle potenze che irrompono dal basso: male, sporcizia, anormalità, delitto, follia, degenerazione, eccidi, inospitalità. Il rovesciamento dell’ordine classico si viene compiendo nel tumulto e nell’angoscia. In illo tempore di sarebbe detto che sulla terra viene il regno di coloro che non mangiano pane e non ubbidiscono alle sacre leggi di Zeus.

Da Dostoevskji a Tolstoj, da Maupassant a Baudelaire, da Pound a Ungaretti, da Camus a Bergman, da Mann a Mahler, da Jung a Eliade, fino a Celine… tutti hanno la percezione che l’umanità stia attraversando una selva oscura, più belluina e pericolosa dei labirinti degli antichi miti.

Il problema sta nel come si possa sopravvivere in essa e uscirne. Ci si domanda come sia possibile percorrere indenni la via, senza essere travolti dalle acque torbide e devastanti. Platone (Repubblica 619 d) diceva che per scegliere la vita giusta è necessario superare la prova del dolore e che sceglie male «chi non ha affrontato la prova del dolore».

Dunque per percorrere indenni il cataclisma bisogna non farsi impressionare dalla sua orribile apparenza e credere che dietro la distruzione e il dolore ci sia dell’altro.

Scrive Jung: «Vengo ora dall’India, lì ho riscoperto questo: l’uomo deve riuscire ad affrontare il problema della sofferenza. L’uomo orientale vuole sbarazzarsi della sofferenza togliendosi di dosso la sofferenza. L’uomo occidentale tenta di reprimere la sofferenza per mezzo di droghe. Ma la sofferenza deve essere superata, ed è superata solo sopportandola. Questo lo impariamo solo da Lui. » Così dicendo Jung indicò l’immagine del Crocifisso (in W. Uhsadel, Evangelische Seelsorge, Heidelberg, 1965, p. 121)

Per Jünger, ci può riuscire solo colui che, dopo essere stato preventivamente temprato dalla madre, immerso nel fuoco come Demofoonte, fatto di fuoco, sa che alla fine tutto dipende dalla signora della sapienza e della vita, madre di tutti e che le peggiori distruzioni nascondono uno sbocco che le supera. Se però, alla prima scottatura, alla prima sensazione di dolore tiriamo indietro la mano siamo perduti.

Venticinque secoli avanti a noi e ai nostri lamenti, Eraclito in occidente aveva affrontato il tema centrale, già sondato dai rishi vedici. Se riconosciamo in noi il fuoco, noi siamo lui; i suoi mutamenti sono la nostra stessa vita. Il dolore e il male non possono niente contro la radice che li genera e della quale siamo portatori. Il cataclisma sta avvenendo in noi. Dobbiamo viverlo necessariamente come un destino, ma resistere sapendo che noi siamo di più e siamo prima.

Nell’inno che si canta come ‘sequenza’ della messa di Pentecoste, il Veni Sancte Spiritus, composto nel XIII sec. da Stephen Langton, arcivescovo di Canterbury, c’è una strofa in cui, come sottolinea Michelini Tocci, sono menzionate le proprietà dello spirito: in labóre réquies, in æstu tempéries, in fletu solácium, ‘riposo nella fatica, frescura nel caldo, sollievo nel pianto’.

La presenza dello spirito consente di vivere la fatica non come un tormento vano, ma sostenibile quasi con sollievo se illuminata di valore e significato, fa nascere nella disperazione la fede-fiducia, il presentimento che uno stato ne preannunci un altro come la notte il giorno. Il grande Eraclito nella sua oscurità ci aveva già fatto intravedere che per l’uomo esiste bene e male, ma per il dio giorno e notte sono la stessa cosa e che Ade e Dioniso sono nomi dello stesso dio.

Di fronte a una madre che ha perso il proprio figlio ci viene in mente la domanda, come fa a vivere, a respirare? Che cosa la può mai consolare?

Eppure proprio una sofferenza vissuta totalmente, senza difese, contro cui non vale recriminare, può divenire il destino che ci è stato assegnato e a cui non potevamo che rispondere fiat, un mistero al quale siamo chiamati e che ci può aprire la visione di ‘un nuovo cielo e una nuova terra’Il male, la sofferenza, il lutto agiscono come un potente cauterizzatore che brucia ogni scoria e perciò stesso guarisce la piaga e rigenera il tessuto.

Nella tradizione protestante, tutti gli eventi dolorosi della vita sono chiamati Visitazioni.

Il tema del Calvario, della deposizione, del compianto ha ispirato da 2000 anni la pietas popolare e la creatività artistica. L’antico rito del pianto funebre tradizionale sopravvive nel mondo cristiano nelle creazioni poetiche o figurative che rappresentano la Madre e altre figure femminili (le tre Marie) accanto a Gesù nell’ora della morte. Celebri le Laudi medioevali (recitate prevalentemente durante il Venerdì Santo, come Donna del Paradiso di Jacopone da Todi), le rappresentazioni pittoriche di intensa drammaticità (come la Crocifissione di Masaccio del Museo Capodimonte o il Compianto di Giotto nella cappella degli Scrovegni), le sculture di gruppo di autori del ‘400 (vedi i Maestri Guido Mazzoni, Niccolò dell’Arca e Vincenzo Onori), Compiantidi forte impatto emotivo con un’intensa comunicazione della sofferenza. Nei gruppi scultorei, come nelle Sacre rappresentazioni, la sofferenza di ogni figura rappresentata trova eco nelle altre del gruppo e coinvolge i fedeli che a loro volta danno coralmente voce al dolore attraverso il canto, la recitazione e la preghiera. L’apice drammatico di ogni sacra rappresentazione vede la Vergine, Mater dolorosa, toccare le corde della crisi del cordoglio, ma la sua partecipazione al sacrificio del figlio e quella di coloro che le sono accanto nel compianto, si apre alla prospettiva dello scioglimento e del riscatto di quel dolore ( “in fletu solacium”)La mater dolorosa, compartecipe del dolore e tutti coloro che partecipano al compianto saranno consolati.

Secondo G. Durand nella più umile immagine, nell’immaginario più incoerente si stanno già scavando le fondamenta dell’immaginale o dello spirito. L’immaginario può sollevarci su un piano più alto, ampliare il nostro orizzonte e trasformare la nostra visione degli accadimenti sì che questi divengano accadimenti dell’anima che possono essere meditati, trasfigurati, trasformati. Ciò che è esteriore e ciò che è interiore si mescolano, gli avvenimenti vissuti nell’intimo si proiettano all’esterno, diventano visioni la cui verità è data dal loro significato spirituale e si elevano a funzione di simboli. La nostra capacità immaginativa e poietica può ritrovare il tempo perduto e trarre da esso nuova luce. Il passato non è più semplicemente qualcosa di irrimediabilmente perduto. Se riusciamo a ricollegare, come insegnava Alcmeone, medico della scuola orfico-pitagorica, l’inizio con la fine e a comprendere che ogni fine è un inizio, come ogni giorno si leva il sole nuovo, entriamo nell’eterno. In tal modo l’esistenza umana acquista nuovo senso e significato e si fa cammino di individuazione. In my end is my beginning, dice Eliot, riprendendo le parole di Maria Stuarda.

Carl G. Jung ha accolto con grande entusiasmo la proclamazione cattolica del dogma della Assunta. La assunzione della Madre del Figlio divino in cielo, senza il passaggio della morte, gli è apparsa come una integrazione della Trinità e della stessa personalità di Dio, come un recupero della spiritualità cristiana unitaria medioevale che trovò massima espressione nel poema iniziatico di Dante.

L’Assunta segnerebbe così il culmine di un processo di superamento della separatezza e della colpa che inchioda l’uomo nell’infelicità. Il transitus della Vergine-Madre dalla condizione umana alla assolutezza divina sconfigge definitivamente la morte, completa l’effetto del sacrificio del Figlio. La risurrezione del Figlio comporta anche la gloria della madre, come è rappresentato nei mosaici paleocristiani in cui il Pantocrator incorona la Madre assisa in trono assieme a lui.

La mater dolorosa, compartecipe del dolore, com-patiens, compassionevole diviene a un tempo anche mater consolata e portatrice di consolazione!

E questo è l’archetipo della vita!

Maria Pia Rosati


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