Sa Bia de sa palla – Prefazione

A Giovanni Pugliese Carratellitu dì: «sono figlio della Terra e del Cielo stellato»
… e quando avrai bevuto (l’acqua della Memoria)
percorrerai la sacra via …

(lamina orfica)

Maria Pia Rosati

Questo è il racconto di una via, una via che ha molti punti di partenza.
La Via della paglia, la scia lasciata da un mitico ladro della paglia, è il nome con cui viene chiamata la Via Lattea sotto vari cieli, dall’Africa meridionale, al Caucaso, all’Asia centrale. E in Sardegna.
L’eminente linguista Max Leopold Wagner ha mostrato come la stessa espressione si ripeta con perfetta trasparenza in un’altra mezza dozzina di culture diverse, dalla berbera alla bulgara, dalla turca alla persiana.

L’africanista Dominique Zahan ha trovato che, presso i Bantu sudorientali, i membri delle società iniziatiche sono a conoscenza del significato celeste della Via della paglia e dei nessi metafisici tra semi e stelle.
Uno Harva, maestro negli studi concernenti i popoli altaici, ha sostenuto che il mito abbia origine in Iran, da dove si sarebbe diffuso a nord.

Bronzetto VIII sec, a.C. da Uta (Museo Nazionale, Cagliari)
Bronzetto VIII sec, a.C. da Uta (Museo Nazionale, Cagliari)

Anche in Grecia, Trittolemo, un dio primordiale connesso intimamente con la Grande Madre Demetra e gli inferi, forse figlio di Oceano e Gea, reca agli uomini il grano con un carro alato spargendone la strada.
La Via della paglia riporta a uno strato ideale arcaicissimo esteso lungo un ampio arco geografico nel quale la vita degli uomini viene pensata in stretta relazione con il cosmo notturno stellato.
È questa una delle prime tracce del pensiero nell’Isola, pensiero in cui gli uomini intendono che la loro vita trova origine nel cielo stellato notturno e nella sua madre terra.

Quando cominciai a proporre a Giuseppe Lampis di scrivere sulla religione sarda antica, sentivo che era necessario non sottrarci all’incontro con una presenza importante che ci accompagna, in silenzio, dura e fragile nel tempo stesso, a poche ore da dove abitiamo.

Pur consapevole della utilità degli studi di settore, sentivo che lo spessore e la luce della realtà intera della Sardegna sollecitava un ampio ventaglio di modalità e prospettive. Molto si è scritto di archeologia e di folklore, della religione hanno detto in pochi, eppure millenni fa nella cultura sarda è apparso qualcosa di importante che va richiamato con attenzione.

Quali siano gli uomini dell’isola è un mistero sepolto dietro gli stereotipi. La Sardegna, incontrata dai Greci e da Cartagine, è Africa o Asia? Oriente o Occidente?
In questo libro vengono discusse le interpretazioni fondamentali della Sardegna, dai Greci ai moderni.

L’autore è passato attraverso la meditazione di una vasta letteratura, dalla Odissea a David H. Lawrence, dalle scuole archeologiche ai linguisti, dagli storici ai politici. Il dialogo con Leo Frobenius e gli africanisti francesi, con Raffaele Pettazzoni, Karl Kerényi, Max L. Wagner, Giovanni Pugliese Carratelli, Giovanni Garbini, fa emergere un quadro più mosso e non convenzionale.

Ciò che dà il senso e il tono a questo lavoro sono le testimonianze dirette della gente sarda e la personale esperienza di parole, musiche, feste, poesie, formule, leggende, santuari, paesaggi, colti in un tempo di sospensione, mentre già esausti cedono alla pressione dei tempi.

Il libro contiene perciò molti strati, come la complessità della Sardegna impone, e segue i richiami dei loro intrecci in molte direzioni: meditazioni filosofiche, studi di storia delle religioni, visioni, racconti, viaggi, discese agli inferi, maschere di antenati, interpretazioni sociali, saggi di storia dell’arte.

L’autore procede con note anche brevissime, con continue riprese del tema da vari versi. Decifrazioni di miti e riti, di luoghi e persone solennemente misteriosi vanno a comporre la sinopia di un affresco che riguarda le origini della nostra civiltà; dietro il cono d’ombra che la modernità proietta si tiene, per chi vuole e sa guardare, una forma di grazia e di forza che proviene dai millenni.

La definizione e la valutazione di questa forma è il vero problema, per risolvere il quale occorre assumere una prospettiva radicalmente modificata e procedere a un salto di grado della coscienza. Un simile passo è adombrato nelle fresche note di viaggio del 1932 di Elio Vittorini, pubblicate vent’anni dopo con il titolo Sardegna, quasi un’infanzia. L’allusione a un criterio alla Giambattista Vico è evidente, come se passando in Sardegna si potesse retrocedere in un’epoca della storia dominata dal mondo delle pulsioni semplici e istintive, un’età dell’oro dei sensi.

Con maggiore spessore filosofico e narrativo, anche Ernst Jünger vede nella Sardegna un’età dell’uomo in cui il tempo della cultura si confonde armoniosamente con quello della natura e in cui, in ultima analisi, si percepiscono i contorni di una civiltà non ancora segnata dall’uomo faustiano, prometeico, folle della ybris modificatrice. Jünger ha incontrato, voltando dietro l’angolo dell’Europa, una terra che è una autentica «patria», una sorta di età dell’oro nel senso originario di età durante la quale tutto è prezioso perché l’uomo non è ancora diviso tra sacro e profano.

Dalla chiave del mito le porte del passato si fanno aprire docilmente e non soltanto in forza di una certa sua conformità con la lontananza del tempo. Lo spirito del mito permette un avvicinamento molto intimo alla qualità profonda e originale, non solo storica, della Forma che si è manifestata nella storia.
D’altronde c’è un punto per doppiare il quale i dati delle scienze ausiliarie della storiografia non sono più sufficienti; quando si è giunti a quel confine bisogna avere il coraggio di aggiungere la interpretazione e, passando su un altro piano, bisogna cercare di «cogliere il significato», cogliere cioè l’unicum, il principio, l’eterno, l’irripetibile disegnato dalle potenze atemporali che nel tempo agiscono con e mediante gli uomini.
Lampis si concentra soprattutto sulla Sardegna meridionale, quella più africana e infuocata, quella che attrasse le rotte degli antichi Micenei. Disincrostrando e corrodendo pazientemente tutte le stratificazioni posteriori, ha osservato le tracce irrisolte che affiorano sotto le civiltà più note e è riuscito a vedere ancora, un momento prima che svanisse, un uomo con una intuizione della realtà completamente diversa dalla nostra.
L’antenato di questo uomo si era prefisso «il fine di reggere il cielo piantando i piedi bene in terra» e ha costruito i nuraghi. «Lo abbiamo incontrato e lo incontreremo ancora nella storia», è il grande combattente di sempre contro il male, il devoto del dio che «insegna l’arte della vita attraverso l’arte della morte», l’eroe, l’iniziato nella ricerca del vero mondo oltre il visibile, l’amante della liberazione anche al prezzo di sé.

Il significato ideale-simbolico della torre nuragica conduce a uno degli aspetti di fondo dell’universo religioso dello sciamanesimo. Lo studio dei suoi abitanti, rappresentati nelle affascinanti maschere demoniche dei bronzetti e della statuaria nuragici, permette a Lampis di individuare i segni di una civiltà di altissimo profilo che si impernia sull’ethos dell’uomo che tende a trasvalutarsi in eroe.
Un eroe mediterraneo che – assistito da una dea celeste belluina e sapiente, capace di scendere indenne agli inferi, signora della guerra e insieme dell’amore – si misura con il problema della uscita dalla caverna del mondo per risalire alle stelle.

Maria Pia Rosati


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