Un Bodhisattva a Cefalù

Ezio Albrile

 

Simile a una imponente fortezza normanna, la cattedrale di Cefalù è un spazio mistico entro le cui mura si raccolgono, stratificate nel corso del tempo, testimonianze di culture spesso in conflitto. Voluto da Ruggero II e dedicato al Salvatore, questo possente capolavoro dell’arte romanica venne fondato il giorno della Pentecoste del 1131: nei secoli ha subito alterazioni e aggiunte che però non hanno mutato l’impianto originario. In esso particolarmente importanti, ma «invisibili», sono le travature del soffitto con le loro singolari e misteriose pitture, opera di maestranze islamiche di cultura fatimida, le stesse che probabilmente dipinsero il soffitto ligneo della Cappella Palatina a Palermo.

Fig. 1 Cefalù Duomo Bodhisattva
Fig. 1 Cefalù Duomo Bodhisattva

I Fatimidi che dominarono la Sicilia dal 909 sino alla conquista normanna, portarono in terra straniera un frammento dell’Islām iranico, cioè l’eterodossia sciita, un credo fortemente legato alla più antica religione gnostica iranica, il manicheismo. Tracce di questa fede dissidente si leggono nel soffitto del duomo di Cefalù. Queste pitture, ritrovate solo qualche decennio fa, trascrivono un universo simbolico suggestivo e in gran parte sconosciuto. Forse la più singolare è un medaglione circolare con all’interno un personaggio nella classica postura yogica, che tiene in mano una croce equilatera di colore rosso (fig. 1).

È stata più volte ricordata la forte influenza che le culture centro asiatiche ebbero nel Medioevo europeo, non è quindi insolito riconoscere in questo dipinto un personaggio saliente della fede buddhista in contatto con altre civiltà, il Bodhisattva, un «essere dell’illuminazione» o «del risveglio», più precisamente un «aspirante alla bodhi», cioè alla saggezza suprema. Un perfetto Buddha che ha rinunciato a entrare nella beatitudine del nirvāṇa, ha rinunciato a diventare un arhat, un essere che si è liberato, e questo per condurre altri uomini verso l’illuminazione.

I Bodhisattva fanno la loro comparsa nel buddhismo solo attorno al I sec. d. C., quando, sulla spinta delle idee gnostico-iraniche sul Saošyant (> pahlavi Sōšyans), letteralmente «Colui che farà prosperare» , il Salvatore futuro, si ha la formazione d’uno scisma, da cui originano le correnti del «Grande Veicolo», il Mahāyāna, propriamente detto, e del Vajrayāna, la «Via del Diamante-Folgore».

La dottrina iranica del Salvatore futuro, il Saošyant, già presente in embrione nel pensiero di Zoroastro e poi sviluppata in altre parti arcaiche dell’Avesta (la raccolta dei libri sacri zoroastriani), ebbe la sua significativa elaborazione in testi relativamente tardi, in cui si aveva però l’eco di tradizioni più antiche. Tali Salvatori furono visti come figli di Zoroastro e di tre Vergini, che resteranno gravide del seme di lui, depositato, come tre lampade sfavillanti, nel fondo di un lago chiamato Kansaoya in cui le fanciulle si bagneranno, quando verrà il tempo stabilito: «Quando una vergine andrà a quelle acque… per lavarsi il capo e la gloria le si mescolerà dentro il corpo, essa sarà gravida: quelli [i Salvatori], ciascuno a suo tempo, nasceranno in tal modo». È la profezia raccolta in una sequenza apocalittica del Bundahišn, un testo pahlavi che raccoglie insegnamenti molto antichi (cap. 33 [Anklesaria, 218, 5-220, 15]).

È quindi ipotizzabile che tale soteriologia abbia influito sulle culture attigue, e in particolare sulla costruzione del credo buddhista. Concretamente ciò è diventato possibile poiché la salvezza da individuale è diventata collettiva: ogni individuo possedeva la «natura di buddha», tathāgatagarbha. Si manifestavano quindi dei Bodhisattva illuminati che avevano rinunciato al parinirvāṇa, l’estinzione completa propria dei buddha, scegliendo di rinascere in altri corpi per compassione, per aiutare chi era rimasto immerso nella sofferenza del ciclo trasmigrativo, il saṃsāra.

Fig. 2 Alchi Bodhisattva
Fig. 2 Alchi Bodhisattva

Il culto dei Bodhisattva si è via via potenziato, sino a diventare persino più importante di quello dello stesso Buddha e a ibridarsi con altre forme religiose. Prima fra tutte il manicheismo: è infatti nel manicheismo che troviamo elaborata la figura del Buddha-Saošyant legato alla «Croce di Luce», come osserviamo nel dipinto di Cefalù. Un esempio calzante proviene dalle rive del fiume Indo, in una sperduta valle dell’Himalaya: ad Alchi nel Ladakh (Kashmir, India) un monastero buddhista risalente all’XI secolo ospita, tra le altre, le figurazioni dei regni dei cinque Buddha di Luce (fig. 2). Gli insegnamenti del Mahāyāna hanno infatti sviluppato tutta una serie di idee cosmologiche che il buddhismo delle origini ignorava.

Ad Alchi, come in altri monasteri, il Buddha infinito siede su un trono a forma di loto dai mille petali simboleggianti ciascuno uno dei cinque universi. È Amitābha, il Buddha che presiede al Paradiso Occidentale, la Sukhāvatī, una landa meravigliosa a cui può accedere solo il puro di cuore; per potervi rinascere bisognava ottenere la bodhi meditando e incoraggiando gli altri a percorrere lo stesso cammino, la missione del Bodhisattva.

I cinque Buddha di Luce sono personaggi regali, sfarzosamente rivestiti di una tiara e ornati di gioielli; sono i cinque Buddha dai cinque colori: la loro epidermide è bianca, blu, gialla, rossa e verde. Anche negli insegnamenti manichei la pentade svolge una funzione centrale: lo «Spirito vivente», figura centrale della soteriologia, ha cinque figli, i ḥamšā elāhē zīwānē, i «cinque dèi luminosi» di Teodoro bar Kōnī, dai cinque colori archetipici.

Come i Bodhisattva, l’Anima nel manicheismo è «trasfusa in cinque specie di corpi» (metangizetai hē psychē eis pente sōmata: Epiph. Pan. haer. 66, 28, 1). Il metangismos manicheo descrive la trasmigrazione della sostanza luminosa, separata e rifusa in nuove identità somatiche: piante, animali, corpi umani (Acta Archelai 10); la pentade, cifra sacra, esprime la via verso la finitezza, il compimento di una penosa trasmigrazione. La luce mangiata dalla tenebra, intrappolata nelle carcasse degli Arconti, dev’essere liberata e riportata nel suo alveo originario, e questo può avvenire solo attraverso uno stratagemma chiamato «creazione».

Il potere fulgureo, lo xwarrah (parn nei testi in sogdiano) è il primo elemento della pentade luminosa manichea e corrisponde al primo dei figli dello Spirito Vivente, il «custode degli splendori», Phengokatōchos colui che sorveglia l’accesso alle terre spirituali site al di là dell’universo fenomenico, il Buddha di Luce sarà una sua ipostasi.

Nella pittura murale del monastero di Alchi, così come nel dipinto del duomo di Cefalù, il Bodhisattva Akṣobhya ha in mano una «Croce di Luce», un oggetto che prende il posto del vajra, il «diamante-folgore», classico attributo che nell’iconografia rivela la natura illuminativa del Buddha. Questa immagine è presso che unica nell’arte buddhista (Klimkeit, Manichaean Art and Calligraphy, p. 32, foto 17). La Croce di Luce è una figurazione saliente nel manicheismo, simboleggia l’insieme dei frammenti di luce che soffrono la cattività imprigionati nel mondo: è il Jesus patibilis «crocefisso su tutte le piante» (ab omni ligno suspensus: August. Contra Faust. 20, 2), l’«Anima vivente», Grīw zīndag nei testi di idioma medio-iranico, che attende di essere liberata dalla Materia cui è frammista.

Fig. 3 Bodhisattva Turfan
Fig. 3 Bodhisattva Turfan

Nella disciplina manichea i destini dell’Anima vivente e luminosa dispersa nel mondo (= Jesus patibilis) sono intimamente relati al metabolismo digestivo: attraverso il cibo, giorno dopo giorno, l’Eletto fa proprie e santifica le particelle di luce in esso contenute, le monda separandole dalla mistione venefica con gli elementi tenebrosi. Questi frammenti luminosi, mondati e purificati, sono restituiti alla loro immagine vivente, l’Uomo Nuovo in cui vive il Noûs-Luce, il Wahman wuzurg dei testi in medio-persiano, il «glorioso» (partico Farrahāwand) signore; epiteto che nel Bundahišn designa Ohrmazd quale Xwarrahōmand, il dio che alberga nello splendore infinito. Il grande splendore, il farrah wuzurg, il potere fulgureo che nel manicheismo accompagna gli esseri di luce. Il possesso dello xwarrah è inoltre intimamente legato al potere sulla visione e all’accesso a un multiverso extrasensoriale, una realtà separata. È la dimensione profetica e visionaria insita nella missione dei Bodhisattva. Altri di questi Salvatori manichei sono dipinti sulle pareti e nelle miniature ritrovate nelle grotte di Turfan a Kočo (in cinese Gao ch’ang), l’antica capitale del regno uiguro, importante snodo commerciale sulla «via della seta» (fig. 3). Un sito archeologico che ha restituito agli studiosi e ai semplici lettori un patrimonio immenso di manoscritti miniati, non solo manichei.

Non a caso la cattedrale di Cefalù è dedicata al Salvatore, il Saošyant iranico personificato nei Buddha. Il Saošyant nella tradizione iranica è colui che prepara l’haoma, l’«ambrosia» (anōš), che fa risorgere i defunti e rende immortali i viventi; ed è nel latte misto a hōm bevuto dai genitori di Zoroastro prima della sua nascita.

La storia del cosmo è un continuo tendere verso il rinnovamento finale (paywandišn ī ō frašgird), che è un ritorno agli inizi, una apokatastasis. Il Saošyant alla fine dei tempi attuerà il frasgird, «renderà splendida» l’esistenza trasfigurando il tempo nell’eternità del Paradiso di Luce, la «Casa del Canto» (avestico garō-dǝmāna > pahlavi garōdmān). Nel frasgird, la trasfigurazione escatologica, il corpo di risurrezione sarà un «corpo finale» (tan ī pasēn) entro il quale il medesimo dio Ohrmazd, attuerà pienamente se stesso manifestandosi nella propria essenza ignea.

Così non a caso a Cefalù troviamo l’impianto architettonico della cattedrale preceduto da un ampio sagrato a terrazzo che svolgeva la funzione di cimitero. Realizzato con terra portata appositamente da Gerusalemme, si configurava quindi come una «terra di resurrezione». Di fatto in questo contesto escatologico le Anime erano pensate trasferirsi dal Paradiso-Giardino sensibile, quello della terra sepolcrale, al Paradiso celeste, ubicate in un unico luogo ma in dimensioni o, se vogliamo, in stati di esistenza differenti.

Ezio Albrile


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