Ypnos (da àtopon Vol. V)

Giuseppe Lampis

«Dormono le vette in alto e gli strapiombi, le balze e le gole, tutti i viventi che si aggrappano alla terra densa quanti essa ne nutre, le fiere di monte e le famiglie di api e i predatori nelle profondità del mare purpureo; dormono le razze dalle grandi ali leggere».

Così aveva visto il mondo Alcmane, il grande lirico ionico vissuto nella severa Sparta. I versi sono soavi, in essi la materialità delle cose si assottiglia e lievita senza togliere niente alla loro potenza; proprio come nel sonno. Nel sonno e nel sogno – i Greci usano la stessa parola – il mondo perde la sua pesantezza e si rovescia smaterializzandosi, entra in un’altra dimensione occulta e riposta, nella quale si fanno avanti altre relazioni, altre trame, un altro logos, più vasto di quello della piccola esperienza privata del singolo uomo.

Giuseppe interpreta il sogno del Faraone Gustave Doré
Giuseppe interpreta il sogno del Faraone
Gustave Doré

«Dormono le vette in alto e gli strapiombi…», tutte le cose entrano in una luce nuova, una luce che c’era tuttavia già da prima, nascosta e però vera, reale, invincibile e trascinante.

Il sonno introduce in un altro mondo, nel rovescio di questo. Esso è apparentato con la morte; ypnos (il sonno) è gemello di thanatos (la morte). Quando Odisseo, ormai alla fine del suo viaggio, dopo dieci anni di guerra e altrettanti di vagabondaggi forzati, finalmente sale sulla nave dei Feaci che lo riporta a casa, dorme, cade in un «sonno simile a morte» (Od., XIII, 80), e così profondamente addormentato viene deposto vicino al promontorio in cui si apre l’antro delle ninfe.

Il grande viaggiatore cade nel sonno nei passaggi critici. Anche a Dante accadrà la stessa cosa nelle prime balze della montagna del Purgatorio, dopo che gli angeli verdi “astor celestiali” (Purg., VIII, 104) avranno fugato la “mala striscia” (Purg., VIII, 100) della tentazione, nell’episodio che si era aperto con la pungente nostalgia del mondo all’ora del tramonto. «Era già l’ora che volge il disio ai navicanti» (Purg., VIII, 1-2).

Il sonno sovrano arriva volando come un uccello dalle grandi ali (Il., XIV, 290); egli è veloce, silenzioso, irresistibile. Nessuno può resistergli, neanche il dio più temibile, neanche Zeus. Egli appartiene a una generazione primordiale, vicinissima alle potenze più originali e più elementari, e si presenta quasi come una diretta e immediata espressione delle oscure profondità della terra e della notte.

Era lo invoca per essere aiutata a togliere di mezzo Zeus per il tempo necessario a consegnare Patroclo all’assalto mortale di Ettore e provocare così, con il furore vendicativo e il ritorno di Achille dal suo polemico ritiro, la svolta decisiva nell’esito della guerra di Troia, la guerra fondamentale. Inizialmente sembrava che Zeus parteggiasse per i Troiani, favorendo i lutti inflitti agli Achei. Del resto non si può non prendere atto che il poema, pur cantando la caduta di Troia, si propone il tema dei dolori causati dall’ira di Achille alla sua parte.

Era, che protegge gli aggressori assedianti, pensa di narcotizzare il suo sposo dopo averlo attratto nel letto. Al Sonno (Ypnos) che esita temendo la reazione di Zeus, che non lo scagli di nuovo nelle viscere del mare vicino alle profondità da cui proviene, la dea fornisce una scusa moralmente plausibile, almeno per quel dio primordiale: vuol andare ai confini del mondo a far visita a Oceano e Teti, dai quali fui allevata, e provare a riappacificarli, poiché al momento erano in discordia.

In verità, la scusa è fatta per piacere al dio del sonno ma è in contrasto con l’assetto cosmico di Zeus. Oceano e Teti non giacciono più insieme da quando è stato instaurato il nuovo ordine. Se lo facessero si rimetterebbe in moto una creazione così tumultuosa e confusionaria che la terra finirebbe sommersa. Per questo motivo Oceano non lascia mai il posto dal quale circonda la terra per tenerla unita insieme, né procede a introdurre nuovi elementi e nuove generazioni. Era, dea protettrice della giusta unione, non potrebbe riavviare il contatto tra la parte maschile e la parte femminile della grande acqua senza provocare uno sconquasso generale. Almeno non la Era che, in questa fase della storia degli dei greci, ormai è divenuta la sposa del dio sovrano. Ormai le sue antiche propensioni sono state riorientate e pertanto, mentre crede di ingannare Zeus, in effetti inganna il Sonno (Il., XIV, 255).

Essa attirerà Zeus nell’amore (governato, lo sappiamo, da un altro dio invincibile e profondamente collegato con le origini, anche egli alato e notturno, Eros) e con l’aiuto di Ypnos lo farà dormire. Zeus non dorme mai, per costituzione, come è proprio del grande dio della folgore e della luce possente e rapida; del resto, in verità, nessun dio in quanto tale dorme. Il sonno risulta essere una condizione troppo prossima alla morte e per gli dei olimpi esso rappresenta un rischio lontano e non certo una esperienza normale come per gli uomini attuali.

Già un’altra volta Era aveva fatto dormire il suo sposo, allorché aveva voluto avere mano libera per sollevare una tempesta contro Eracle reduce vittorioso dalla prima conquista di Troia. In quella occasione Zeus la punì appendendola dal cielo con due incudini ai piedi (strana punizione, che tuttavia ricorda molto da vicino le punizioni che il padre degli dei commina in alternativa al colpo di saetta, quando attacca i suoi rivali ai monti o alle pietre).

Anche stavolta l’ira di Zeus sarà formidabile ma si conterrà alle sole minacce verso la sposa ingannatrice. In fondo ciò che egli voleva davvero si realizza ben presto. Ormai tutto ciò che gli dei fanno, compresa Era, rientra nel suo lungimirante disegno di reggitore supremo. Tutti i combattenti «… ormai sono periti, ma io me ne sto in una valle dell’Olimpo, seduto, e guardando là divertirò la mia mente, voi altri andate e raggiungete i Troiani e gli Achei gli uni e gli altri aiutate secondo il cuore d’ognuno” (Il., XX, 21-25). Gli dei si gettano nella mischia insieme con gli eroi, “…udì Zeus assiso sopra l’Olimpo e rise il suo cuore di gioia, come vide gli dei entrare in battaglia» (Il., XXI, 383).

Il sonno di Zeus in questo caso è servito al suo disegno prestabilito da tempo, fin dall’epoca delle nozze di Peleo e Tetide, fin dall’invidia della Discordia, fin dalla gara fra le tre dee di fronte ad Alessandro-Paride. Il disegno di Zeus impone la sua sovranità a tutti, uomini e dei.

E però anche il sonno di Zeus, come tutti i grandi sonni, inaugura e rivela un nuovo mondo.

Odisseo deposto sulla spiaggia addormentato non riconosce la sua patria al risveglio (Od., XIII, 188). Il sonno, la narcosi, equivalgono a una morte dietro la cui porta si apra un paesaggio diverso nel quale è facile perdersi, senza aiuti potenti senza la conoscenza della mappa vera dei suoi percorsi impliciti.

Eppure nel sonno si cela una forza primigenia, gravida e ricca di ogni cosa come un ventre inesauribile. Gli uomini della razza d’oro, quelli dell’archetipica giovinezza eterna, non muoiono con uno strappo ma si addormentano in seno alla grande madre terra. Essi, i grandi demoni, rientrano nella loro origine addormentandosi.

C’è nel sonno il punto in cui i mondi sono raccolti e preparati ab aeterno a aprirsi. “Dormono le vette in alto e gli strapiombi…”. Nel sonno si ricostituisce la perfetta rotondità dell’uovo del mondo, in esso a tutte le valli corrispondono tutti i monti, in esso a tutti i vuoti corrispondono tutti i pieni. Il sonno è il pieno, la sfera, l’unione.

Vishnu dorme su Anante VI sec. - Tempio di Dashavatara
Vishnu dorme su Anante
VI sec. – Tempio di Dashavatara

Si potrebbe dire che nel sonno si custodiscono i grandi legami che annodano insieme le cose. Sonno e sogno. “Morire e dormire” pensa Amleto1 e si spaurisce dinanzi al “continente non ancora esplorato”. Nel piccolo cuore dell’uomo sta celato nel profondo l’infinitesimo granello di senape in cui si raccolgono i mondi2 e in cui egli può tornare a vederli nella loro origine. Lì, dove i sentieri della notte e del giorno cominciano3, si può afferare il filo e trovare la strada.

Le tradizioni affermano che colui che sappia riacquistare, dopo la caduta nel sonno, la lucidità della veglia sia un eroe. Colui che riesce a resistere e a stare sveglio, l’insonne, è l’eroe. Ma cosa vuol dire stare svegli, risvegliarsi, rompere la narcosi? Vuol dire scendere nel labirinto del sonno e del sogno, entrare nel percorso oscuro e invisibile del rovescio del mondo e, senza perdersi, trovare la strada.

L’eroe sa entrare nel sonno, precisamente allo stesso modo di come egli sa entrare nella morte. Egli non perdura nel sonno, per lui il sonno è soltanto una fase della sua prova. Al contrario, l’uomo mediocre ne rimane avvolto e vi sprofonda sempre di più, indefinitamente tirato giù da sogni pesanti e ottusi. L’eroe sa dormire perché durante il sonno sa preparare il risveglio. E risvegliarsi significa vedere il mondo vero, aprire gli occhi sui veri significati delle cose e suoi loro veri rapporti interni.

Sapere come dormire equivale innanzitutto a saper sognare, a saper parlare e capire il linguaggio dei sogni, a saperlo decifrare e riconoscere. Nel sonno-sogno (ma anche nella morte) il mondo torna a essere più elementare. Il mondo si smaterializza, perde la forma dura e elaborata dell’azione pratica e riacquista la forma delle immagini involontarie, primigenie, presoggettive. Nel sonno-sogno (ma anche nella morte) il mondo non è più quello al quale si può attribuire il possessivo “mio”, quello nel quale si sta chiusi durante la presunta condizione di veglia; piuttosto lì emerge il mondo e i mondi immaginari della grande memoria primordiale, la struttura forte e accogliente di una manifestazione aurorale. Proprio lì dentro, sotto il dominio della forza del labirinto, l’uomo si trova in balìa della deriva dei continenti e, al passo stretto, può restare schiacciato.

Dice Eraclito, l’Oscuro, nel frammento 26: nella notte l’uomo accende una luce a sé stesso, spento negli sguardi, e vivendo si afferra al morto; sveglio si afferra al dormiente4.

Si tratta di una delle citazioni più difficili da decifrare, peraltro tramandata con interpolazioni introdotte da scoliasti che cercavano di rendere abbordabile un testo che non capivano più. Nello scorcio oracolare si presenta un’idea su cui ruota tutto il resto: che il dormiente tocchi sia il vegliante sia il morto, e che pertanto costituisca una sorta di termine mediano, di stato mediano dal quale si va nelle due direzioni, di mondo ricco di vita potenziale.

In proposito può giovare il richiamo di quanto viene proposto da un lettore particolarmente penetrante delle espressioni enigmatiche di Eraclito. Ci riferiamo a Heidegger, a ciò che ci dice nel famoso seminario tenuto in comune con Eugen Fink nell’università di Friburgo in Brisgovia nel semestre invernale 1966-675. Riassumiamone i passaggi salienti.

In quella sede Fink centrava la sua interpretrazione del frammento 26 sulla caratteristica della luce accesa nella notte dall’uomo. Per lui, bisognava partire dal fatto che tale luce non fa scomparire l’oscurità come accade, a esempio, con la luce del sole, ma che si mantiene piccola nell’oscurità, come un’isola. L’uomo ne viene definito come l’essere che ha la specifica facoltà di disporsi al confine tra la luce e l’oscurità che non può abolire. Egli però può vedere anche nell’oscurità, o addirittura vedere la stessa oscurità. Nel sonno, chiusi gli occhi, egli pur tuttavia vede; vede nel sogno. Dato che il sonno è aperto alla morte, egli vede anche in quella direzione, accendendo una piccola luce. Il sonno è la penombra della vita, e in quello stato egli si mette in contatto con il morto.

Il punto di fondo sta nella posizione della piccola luce nella notte, nella posizione dell’uomo tra luce e notte, dell’uomo che dal sonno entra in relazione con la morte. Un tale uomo, come un Giano dai due volti, tiene l’uno sul versante del giorno e l’altro sul versante della notte, l’uno verso l’apertura e l’altro verso l’oscuro. L’uomo che chiude gli occhi è uno che tocca il morto, ma anche uno che tocca lo sveglio. Egli si pone come l’essere mediatore dei due versanti opposti, l’essere capace di collocarsi in uno stato in cui gli opposti vengono esperiti nel loro incontro, in uno stato in cui si risulta liberati dal dominio della molteplicità.

Nella serrata collaborazione dialettica del seminario, Heidegger si discosta dalla angolazione prospettica di Fink, e ripete più volte che, presa in se stessa, la citazione gli rimane incomprensibile. Sottolineando, infine, che a suo avviso la parola chiave è aptetai che ricorre tre volte (“accende” la luce, “tocca” il morto, “tocca” il vivente), ricerca nella particolare natura del contatto il senso riposto del detto eracliteo.

Per aprire un percorso esplicativo, Heidegger richiama il frammento 10 (legami: tutto e non tutto, unito diviso, accordo disaccordo, e di tutto uno e di uno tutto) che inizia con la parola synapsies (legami), composta di syn (con) e di apsis (toccamento). Questa è la stessa parola di aptetai ma dice Heidegger che il punto enigmatico e la chiave sta nella preposizione syn, che esprime la forma del nesso, vale a dire il modo di appartenersi reciprocamente di ciò che sta insieme. Il punto, per lui, è che qui il rapporto tutto-uno non è lo stesso di quello uno-tutto. In che modo i molti confluiscono nell’unità della reciproca coappartenenza (indicata dalla parola synapsies )?

L’approccio dei due interpreti non si conclude e porta a acquisire solo una soluzione provvisoria. Riferiamola attraverso le parole di Fink: cosa significa il contatto con l’oscuro che non conserva la distanza tra percipiente e percepito tipica dell’ambito della chiarità ? In mancanza di meglio, abbiamo fatto ricorso alla espressione “prossimità ontica”, una prossimità non di cose nello spazio ma di modi di essere.

Volendo evitare la facile via di una mistica speculativa, i due dialoganti convergono provvisoriamente su una forma di contatto corporeo. Naturalmente resta aperto il problema del senso “ontico” del corpo, l’unico capace di “contatti”, e cioè in definitiva di aperture, ancorché oscure e profonde. è nella corporeità che l’uomo si apre nel tempo stesso verso la chiarezza e verso il sostrato oscuro di ogni chiarezza. La prossimità ontica non equivale a una distanza piccolissima fra cose bensì a un’apertura, ancorché crepuscolare e appena socchiusa (rabbaissée), a una dimensione costitutiva dell’essere dell’uomo.

Per Heidegger il corporeo nell’uomo non è stato capito ancora dalla metafisica. C’è una sua battuta, inoltre che vorremmo richiamare. A un certo punto egli dice, quasi fra sé e sé, che per l’induismo il sonno è la vita suprema.

Accettiamo questa lettura e ripartiamo dalla potenza dell’uomo corporeo, fisico, mortale.

A proposito di cultura indiana, non possiamo non portare la nostra attenzione sullo yoga, una delle scuole della sapienza vedica, che vuol dire precisamente legame. Orbene lo yoga consiste in una disciplina che si propone di far leva sulle potenze del corpo per ritrovare in esse e con esse il nesso metafisico fondamentale. La disciplina consta di una serie di passaggi tutti protesi verso la concentrazione e la riappropriazione del proprio centro, attraverso il progressivo abbassamento della condizione eccitata e turbolenta della veglia fino alla imitazione dello stato di quiete tipico della morte. Per Eliade si tratta di una vera e propria imitazione della morte. Nello hatha-yoga si parte da un’estrema valorizazione del corpo e dei suoi centri, nei quali si conquista la suprema coincidenza.

Si diceva, dunque, che il dormiente-sognante versa su due accessi alternativi, uno che lo può reimmettere nel mondo della materializzazione fenomenica, l’altro che può introdurre nel regno oscuro delle forze invisibili. Quest’ultimo si apre sul percorso più difficile ma è quello che porta effettivamente fuori dai vincoli.

Gli antichi hanno rappresentato l’alternativa di queste due porte rispettivamente con la figura dei sogni uscenti dalla porta di corno (i veri) e dalla porta di avorio (i falsi) (En., VI, 802). Ma già l’antro delle ninfe nell’Odissea (XIII, 109-112) ha due uscite, l’una verso nord che porta fuori del ciclo delle reincanazioni, l’altra verso sud che invece reimmette in esso.

Il sonno di cui stiamo parlando non è quello dell’abbandono delle forze al quale siamo abituati nel nostro mondo quotidiano. Ci sono due tipi di sonno-sogno. Il sonno da cibo pesante del principe che perde la memoria (nello gnostico Inno della perla ) non è lo stesso del sonno del visionario, di quella condizione – cioè – nella quale si vede con l’occhio del cuore la struttura nascosta della vita.

Lo sciamano sale sul suo cavallo per correre ai confini dei mondi attraverso la porta che gli si apre nel sonno estatico. Laggiù egli parla con dio; immensi, sconfinati paesaggi si aprono nel viaggio; i giacimenti dell’immaginazione sono inesauribili.

La stessa umanità archetipica si è preparata e moltiplicata nella quiete di una gravidanza senza tempo, prima che nascesse il tempo.

Il primo uomo e la prima donna vengono dalle sue profondità. Il grande artefice stacca in quel tempo la donna dal petto di Adamo addormentato. Le epoche dell’umanità nascono nel sonno dell’uomo dei primordi.

Nel sonno-sogno si impone la volontà del signore del mondo che in esso annuncia i suoi disegni. Giuseppe li saprà leggere nei sogni del Faraone. Il re, disorientato e sconcertato, ha bisogno dell’interprete e guida e lo troverà in un uomo solo, abbandonato, gettato in una condizione servile lontano dalla sua gente, e che tuttavia porta con sé la conoscenza di quella lingua alta e sacra.

Nell’oscurità della notte l’uomo apre un contatto con la luce. Egli, venendo dal mondo dei veglianti, ha saputo riattivare la sua relazione con i mondo dei dormienti, nel quale si affacciano gli inesauribili giacimenti della psiche. L’aldilà è ricco di ogni potenza, gravido di ogni ricchezza. Il potere (dynamis) di essere non è vacuità bensì pienezza. Uno degli equivoci più fuorvianti, che impedisce di capire Aristotele, consiste nel considerare inopinatamente la dynamis (possibilità, potere, potenza o, meglio, forza) come un niente, riducendo l’essere al solo essere in atto.

Il morto che viene toccato dal dormiente non è mero niente, ma la luce che egli accende. È l’apertura che egli apre su una vita in cui tutto si raccoglie; vita non limitata alle cose della pratica e tale da raccogliere – piuttosto – le possibilità più ampie, cose idee immagini emozioni. In essa tutto sarà veramente tutto.

Il terzo volto nascosto di Giano, o il terzo occhio frontale di Shiva, vede l’eternità in cui si raccoglie il tutto. Dissolte le visioni degli altri due volti, quelle relative alla molteplicità transeunte del passato e del futuro, il terzo si apre (oltre la distruzione del mondo dei veglianti) verso l’immutabile.

Giuseppe Lampis

___________________________

NOTE

1Shakespeare, William; Amleto, atto III, scena I, monologo.

2) Chandogya Upanishad, III prapthaka, XIV khanda, shruti 3.

3Parmenide,1, 10.

4) Tr. it. Colli, Giorgio; La sapienza greca, vol. III,Eraclito; Milano 1980; p. 65.

5Heidegger, Martin – Fink, EugenHeraklit. Seminar Wintersemester 1966-67; Frankfurt am Main 1970; tr. franc. Héraclit. Séminaire du semestre d’hiver 1966-67; Paris 1973.

 


Articoli correlati