«ciò mi tormenta più che questo letto» Un letto di fuoco ardente in eterno

Giuseppe Lampis

 

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Dante è sceso nel girone in cui i grandi eretici sono dannati a giacere dentro una tomba di fuoco. Uno di loro si è tirato su con il busto e lo apostrofa sentendolo parlare toscano, è Farinata degli Uberti, il campione dei Ghibellini alla testa della politica di Firenze.

Farinata aveva cacciato a suo tempo i Guelfi (1248) e, pur cacciato a sua volta da una successiva rimonta degli avversari, riorganizzò le forze e li sbaragliò nella battaglia di Montaperti  riprendendosi il Comune (1260).

Farinata degli Uberti – di Andrea del Castagno

Dopo la sua morte e il tracollo degli Svevi del Regno di Sicilia (l’Italia meridionale), i Guelfi tornarono ancora e per vendetta bandirono gli Uberti, ne distrussero le case e con un processo postumo condannarono per eresia Farinata e i suoi seguaci.

*

Dante si accosta alla tomba della condanna, il forte e «magnanimo» personaggio, indissolubilmente intrecciato con la storia e le passioni politiche della città, gli chiede a quale casata appartenesse, chi fossero i suoi antenati:

«quasi sdegnoso mi dimandò “Chi fuor li maggior tui?”»

Udita l’aperta risposta, replica:

«Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sí che per due fiate li dispersi.»

E Dante immediato ribatte tagliente:

«S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogni parte
… l’una e l’altra fiata;
ma i vostri non appreser ben quell’arte.»
(InfernoX, 41–51)

Farinata resta assorto e impietrito e, quando Dante che si era distolto a parlare con il padre eretico del suo amico Cavalcanti torna di nuovo a lui, riprende come se non ci fossero state interruzioni:

«S’elli han quell’arte… male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.»
(InfernoX, 77–78)

2

La sconfitta politica della sua parte e la perdita della città sono la sua vera condanna.

La sua vita è la sua condanna.

La sua vita, considerata nella proiezione nella casata e nella città, ha fallito. In particolare non si è realizzata nella città.

Farinata è inchiodato a un coronamento sfuggito e il tormento in atto riflette la bruciante sostanza del suo vissuto.

È una vita irrisolta?

Direi che, al contrario, è risolta, e fin troppo, a sue spese.

Chi potrebbe dimostrare che le vite risolte sono beate? La risoluzione è sempre dolorosa perché comporta pagamenti, tagli, decisioni, trasformazioni profonde.

In ogni caso, comporta di diventare compiuta definizione di un centro; quale che sia, purché senza residui e rinvii.

Beati, allora, i semplici; beati coloro che hanno una sorte minore, purché definitiva.

Qual è nell’Ade la risposta dell’ombra di Achille alle lodi di Odisseo? (XI, 488): «non abbellire la morte, preferirei fare il servo, perfino di un uomo senza terra e povero, piuttosto che dominare tra i morti.»

La questione soluzione o irresoluzione non dipende dalla grandezza della parte, è una questione di forma e non di grandezza.

Purtroppo non siamo noi a scegliere o, ripeto Platone, siamo bensì noi e però non sappiamo scegliere bene per condizionamenti vari che pesano.

*

Farinata deve abitare all’Inferno eppure Dante ne ha rispetto e lo considera un grande. In effetti, vede in lui un destino che riconosce essere il suo medesimo.

«Grandi morti, grandi destini», avrebbe scritto Eraclito (apud Clemente, B 25); gli interpreti vi hanno letto un inno agli eroi, tuttavia nel tempo stesso non hanno rilevato che gli eroi sono vittime sacrificali di un giro crudelmente indifferente alla qualità di ogni vita, anche delle migliori.

Giuseppe Lampis


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