Il dolore e l’accettazione della realtà un’impresa sovrumana?

Giuseppe Lampis

C.G. Jung, di ritorno da un viaggio in India, racconta di essere stato portato a riflettere sull’inefficienza delle soluzioni mistiche orientali e materialiste occidentali rispetto al grande problema del dolore. E, ripensando alla potenza del messaggio cristiano, indica il Crocifisso: «… l’uomo deve riuscire ad affrontare il problema della sofferenza… la sofferenza deve essere superata, ed è superata solo sopportandola. Questo lo impariamo solo da Lui.»

Il centro del messaggio cristiano sarebbe la virtù della «sopportazione del dolore».

Si tratta di un punto ben noto anche con altri nomi: abbandono, Gelassenheit, consenso, fede, satori, panico, estasi. Nella filosofia greca antica è stato interpretato come «amore dell’essere» o «grata accettazione dell’essere».

In effetti, il consenso accettante nei riguardi di cio che è, il dire sì al reale, l’avere la fides verso la legge del mondo e il suo sovrano sono orientamenti che comprendono la paziente adesione alla forma umana della vita e dell’esistere e, in essa, all’esperienza del dolore.

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Cimabue - Crocifisso, chiesa di San Domenico, Arezzo
Cimabue – Crocifisso, chiesa di San Domenico, Arezzo

Tuttavia, se noi partiamo dal modo greco di concepire questo ethos, possiamo renderci conto anche della difficoltà intrinseca del suo raggiungimento.

Accettare l’essere: ma, per la filosofia greca, l’essere è nascosto, non è immediatamente visibile e manifesto. Per Eraclito, a esempio, la physis «preferisce nascondersi», «la struttura nascosta è la più forte», «i punti dell’inizio e della fine della psyche non si trovano andando perché essa ha un logos profondo».

Allora, se l’essere è nascosto, in che maniera potrò mai accettarlo?

È chiaro che se l’essere è nascosto dovrò prima raggiungerlo, dovrò andare al fondo delle cose, dovrò – in particolare – saltare al di là del mondo visibile. E qui nasce un problema o, se vogliamo, «il» problema della cultura occidentale.

Il problema sta qui: se la realtà vera e realissima è oltre le apparenze, se la verità è nascosta, le apparenze sono un inganno e vanno criticate, dissolte, tolte di mezzo.

Insomma, l’impostazione greca si imbatte in una contraddizione grave: se l’essere da accettare sta sotto le apparenze, le apparenze vanno superate e rovesciate facendo leva proprio sulla forza che sta sotto di esse e che però è nascosta. Questa contraddizione condizionerà la storia occidentale. Rovesciare le apparenze è infatti un assunto squisitamente gnostico e equivale a proporsi di rifare il mondo da capo, non ad accettarlo come è.

Tradotto in termini religiosi, si presenta come la pretesa di rifare la creazione: il primo creatore non solo ha sbagliato clamorosamente, ma ha voluto sbagliare e ingannare, di modo che il secondo creatore ha il dovere antagonista di smascherarlo e fare brillare il regno della verità.

Questa è la gnosi e questa è la radice della cultura faustiana del primato della tecnica.

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Per la tecnica faustiana, il mondo, lungi dal dover essere accolto e percepito in positivo, va corretto, abolito, rifatto dall’intelligenza antagonista che vede sotto e oltre.

Sullo sfondo dell’atteggiamento gnostico si intravede uno scenario assai arcaico che poi si è espresso nella religione dell’antico Iran nella stessa epoca della formazione della sapienza indiana, greca arcaica, profetica ebraica.

La religione iranica è dominata dalla lotta tra il principio della verità e il principio della menzogna. La loro lotta si svolge «nel» mondo e il primo riuscirà a vincere quando travolgerà il mondo trascinando con esso il nemico.

Però nel mondo c’è anche la schiera di coloro che seguono la verità e pertanto non tutto è negativo. Per la religione di Ahura Mazda, il mondo non è negativo in quanto tale, esso è il teatro di uno scontro che si risolverà a favore di coloro che amano il reale e odiano il nulla.

La gnosi del rifiuto del mondo in quanto tale non è autentica.

Non è vera gnosi quella che vede nel mondo il sacro «orrendo» da desacralizzare e smascherare. Questa è piuttosto la gnosi ebraica, la gnosi del «no» irrisolvibile, la gnosi che nasce dall’idea del Dio lontano e irraggiungibile.

L’atteggiamento della gnosi ebraica è la conseguenza di un Dio incomprensibile rispetto al quale si potrebbe solo soccombere. Noi e il mondo, secondo un tale Dio, siamo negativi, sicchè per stare dalla parte del Dio che ci nega, noi ci neghiamo e con noi il mondo che abbiamo trovato.

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Al contrario, l’essere si capisce e se ne vede la verità quando non appare estraneo.

Anche le apparenze vanno accettate in quanto appartengono all’essere e sono essere. Il fatto che per capirle occorra andare oltre non significa che vadano distrutte, abolite e cambiate: una simile prospettiva equivarrebbe a una rivolta contro l’essere.

Andare al fondo delle cose non significa cancellare le cose.

Per Parmenide, l’uomo che sa è quello che ha attraversato tutte le «arci». Attraversato, non distrutto.

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Accettare l’essere non consiste in un fatto intellettualistico, nel fatto di un soggetto che com-prenda un oggetto separato e estraneo; accettare l’essere equivale a vivere l’essere e a esperimentarlo nel punto in cui esso non è più un «altro».

«Tu sei Questo» è la massima del saggio indiano.

Per cogliere il senso di questa famosa affermazione bisogna saperla leggere in profondità : il «tu» non è il soggetto, come spiega Panikkar. Non è il soggetto precisamente perché soltanto «Questo» «è». Il tu è una sua manifestazione. La frase vuol dire: «Questo si è espresso in te», tu devi riconoscere che non sei di per te e che sei Esso.

Il «Questo» della upanishad non ha, si noti, un nome: esso è semplicemente ciò che ci circonda e ci sta davanti e che non si può afferrare con un nome. Dicendo «Questo», noi significhiamo che possiamo soltanto indicarlo.

«Il Potente che ha l’oracolo in Delfi non dice e non nasconde, ma indica» dice Eraclito.

Di fronte e intorno a noi, ci sono «segni». I táde pánta dei primi pensatori greci, i molti, il tutto, le cose tutte, il mondo, sono un insieme di segni, di indicazioni. Il saggio indiano li chiama semplicemente indicandoli e accogliendoli come indicazioni: «Questo».

Le apparenze, i táde pánta, non sono il nulla ma sono, nella loro complessa varietà e contraddizione, il Potente che si mostra.

Il fatto che il saggio debba svelarle e penetrare fino alla loro unità invisibile non vuole dire che esse debbano venire distrutte, se mai ciò che sarà distrutto sarà l’ignoranza delle apparenze e non le apparenze in quanto tali.

Le apparenze, che siamo noi, la nostra vita, sono il dio – più alto dei nomi degli dei – che si mostra.

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Concludiamo. «Questo sei tu» nel suo più intimo significato è accettazione. È abbandono al «Questo».

Non sarà il «tu» che potrà elevarsi con le sue doti umane fino al livello dell’essere, le sue doti sono insufficienti per tale compito. Del resto, il «tu» non è di per sé.

La coscienza che si esprime nella massima «tu sei Questo» altro non è che una rottura di livello. Attraverso questa rottura dell’io irrompe il Tutto. L’io non ha la forza in quanto tale di allargarsi al Tutto, esso vive la comunione e si sente uno con il Tutto allorchè viene investito dalla folgore che lo governa.

In quel punto egli è travolto e rapito, credeva di fare perno su di sé e viene convinto che egli è solo «in» e «di» Quello che è.

Si tratta di una esperienza indisponibile alla volontà umana e che accade, se accade, solo in forza di un volere più forte, l’unico capace di autentico libero volere.

Perciò noi possiamo solo attendere e prepararci a che ci accada. «Agli uomini capiterà qualcosa che eccede la sfera della loro attesa», così Eraclito.

Giuseppe Lampis


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