Il popolo delle torri da: ‘ Sa bia de sa palla'. La Via Lattea in SardegnaRoma, Mythos 2003, pp 106-113

Indichiamo alcuni tra i più rilevanti temi della spiritualità
della Sardegna antica trattati dal saggio
di Giuseppe Lampis, ‘ Sa bia de sa palla’. La Via Lattea in Sardegna, Roma, Mythos 2003

Giuseppe Lampis

Il nuraghe non si chiude con una volta a arco pieno; esso si raccoglie una fila dopo l’altra in una cupola a ogiva, la chiusura è affidata alla ultima fila, la più stretta, o a poche pietre disposte a riscontro o addirittura a un lastrone orizzontale.

Fatto sta che il nuraghe non doveva chiudersi, ma coronarsi con un terrazzo a sporto con parapetto.

Ricostruzione del nuraghe di Arrubiu
Ricostruzione del nuraghe di Arrubiu

L’edificio, insomma, era costruito per andare in alto e da lassù guardare. Se era una montagna qualcuno sapeva distinguere i suoi gradini.

L’entrata risulta normalmente sollevata rispetto al piano stradale e il vano interno dipende dall’andamento delle muraglie. Ora, formando queste una cavità dalla sezione ogivale, si deve notare che la caverna cosmica nuragica indica la forma di un mezzo uovo con la punta rivolta all’insù.

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Frobenius riferisce (1933) di un modellino di nuraghe «con quattro sostegni e un axis mundi centrale, lungo il quale sale lo sciamano».

Il nuraghe è una rappresentazione del cosmo perché i sostegni sono quattro precisamente come quelli con cui la terra regge il cielo secondo la tradizione africana.

In effetti la maggior parte dei nuraghi è tetralobata, fra i più noti Su Nurag’i di Barumini, il modellino trovato nel nuraghe Santu Antine di Torralba, il Mandrone di Silanus, il Santa Barbara di Macomer.

Sono tuttavia trilobati – da essi si elevano tre sostegni e non quattro – il Santu Antine reale, il Losa di Abbasanta, il Búrghidu di Ozieri, lo Is Paras di Isili, il G’ennamaria di Villanovaforru, la Pris’iona di Arzachena.

Inoltre ce ne sono di pentalobati, in netta minoranza.

La tipologia è assai varia, essendo passata – pare – per una fase, documentata da numerosi esemplari, nella quale alla torre principale ne era stata aggiunta un’altra sola.

Che lo axis mundi sia inquadrato in un sistema a cinque o a quattro o a tre introduce importanti varianti in una identica stratificazione del cosmo. Purtroppo non disponiamo delle notizie atte a farci correttamente interpretare le differenze.

Tuttavia la sostanza non muta. Nemmeno serve ipotizzare fasi culturali distinte o accentuazioni diverse in corrispondenza di una pluralità di etnie e tradizioni cantonali.

L’asse inscritto nel pentagono è interpretato come la figura dell’uomo perfetto. Di essa la più moderna è stata disegnata da Leonardo, quando ha sviluppato un simile poligono da un uomo maturo in piedi a gambe divaricate e a braccia aperte e alzate.

Sul genere sessuale del tre e del quattro le tradizioni non sono concordi, in ogni caso tutte riconducono il ternario e il quaternario alla forza generativa e creativa dell’essere umano.

Il tre (il triangolo del delta) è il numero della femminilità presso i Greci arcaici (resiste nei miti di Demetra, Ecate, Perseo, Paride, eccetera) ma non presso i platonici (Proclo) dove è maschile. In verità Demetra si fa doppia con Persefone e entrambe contengono Dioniso; di modo che il tre finisce per costituire la androginia e l’uomo integrale, sia pure declinato in questo caso a cominciare dal lato femminile.

Presso i Dogon il tre è maschile (i genitali virili sono triplici), tuttavia il prepuzio che avvolge il membro virile viene considerato una sorta di vagina; di modo che anche per coloro che prendono le cose dal lato maschile il tre costituisce il simbolo dell’uomo integrato.

La diversità del numero degli appoggi potrebbe trovare una spiegazione se conoscessimo i dettagli della mitologia nuragica. Al momento possiamo solo intravvedere che in senso generale il numero ruota attorno a una visione dell’uomo.

La torre è un uomo in piedi. L’intero sistema della elevazione corrisponde a specificazioni della interpretazione di tale uomo archetipico e esemplare, in particolare corrisponde a varianti della interpretazione delle sue basi, della sua natura e delle forze a cui si raccorda.

A sostegno di questa ipotesi, ritengo fondamentale che i modellini siano tutti tetralobati.

Oltre quelli già citati, aggiungo che nel Museo Archeologico Nazionale di Cagliari è esposto un modellino (h. 33 cm.) in arenaria a quattro torri ritrovato a San Sperate, vicino a Monastir.

Il modellino della illustrazione del testo di Frobenius con le quattro torri laterali e una altissima al centro poggiato su piedistallo (cm. 25,8) si trova nel Museo Nazionale Sanna di Sassari e proviene da una località presso Olmedo. (La didascalia di Frobenius indica una provenienza da Mandas). Uno identico senza il piedistallo si vede a Cagliari, la statuetta comprende vicino al nuraghe quadrilobato con torre al centro una semplice capanna a pianta quadrangolare con poggiati sul culmine del tetto due uccelli. Antonio Taramelli riteneva che fossero così rappresentati nella loro forma paradigmatica i due edifici pubblici principali, il tempietto e la tomba.

La forma esemplare tetralobata dei modellini mi porta a ritenere che le varianti tri o pentalobate abbiano un carattere più laico, mentre i manufatti che rispondono fedelmente al modello devono essere considerati più ortodossi e più sacri e sacerdotali. Quasi senz’altro le diversità sono in relazione con una differenza di funzioni, da intendersi in senso simbolico e non tecnico materiale.

Si tratta, in altri termini, di alcune varianti del «reggere l’alto» o del «salire in alto».

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La torre composta di pietra viva non può non inserirsi nella metafisica della pietra. La pietra ha una duplice provenienza o natura: essa è celeste (il cielo è di ferro, sidus, siderale, o di cristallo-etere), e in quanto tale è il martello o la saetta delle potenze alte, la fólgore; essa è terrestre, e in quanto tale è pesante, occlusiva, cavernosa, e inoltre resistente, sostentativa, sostanza, osso.

La pietra non è inerte e insensibile, in essa sono implicite e serrate le forme. La pietra è un uovo, vivente origine chiusa nel minerale.

Se Mithra e altre potenze cariche di sacro (Fanete, Gesù, gli uomini dei primordi …) nascono dalla pietra vuole dire che la pietra è feconda e fecondabile. Essa è la terra nella sua consistenza profonda, la base del cosmo, la montagna.

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La Grande Madre degli dei è sempre collegata con la pietra e con la montagna.

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Il nuraghe è ambiguo fino dall’inizio, insieme torre e tomba, casa dell’eroe e casa del morto. Del resto, nonostante si tratti di due tipi alternativi, è frequente che da una religione dell’eroe si passi a una religione dell’antenato; tale passaggio, quando avviene, testimonia di una incrinatura nella fiducia che sia possibile un uomo senza l’affanno della storia e del tempo.

Il culto degli eroi è un culto infero. In quanto tale esso è riconducibile alla dialettica interna della religione della Grande Madre. L’eroe è, nella sua più intima e essenziale natura, sempre inclinato alla morte, a essere – cioè – vittima di una uccisione.

Per questa ragione, il culto degli eroi ha un lato che lo espone a confluire nella religione semitica.

La madre che accoglie l’ucciso, la pietà, completa la ideologia dell’eroe. Si scende nella Terra sia per morire sia per rinascere; nella Terra senza tempo sta il sempre rinascente.

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L’eroe è doppio, gemello in sé. Notturno e diurno, infero e celeste, come i Dioscuri che vivono e muoiono un giorno per uno. I Gemelli divini appartengono alla corte della Grande dea anatolica.

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La pietra unisce in sé cielo e terra, alto e basso, sopra e sotto.

Dopo che cielo e terra furono separati, secondo il libro della Genesi (11, 1-9) gli uomini vollero restaurare di nuovo il contatto perduto e cominciarono a costruire una città-torre, piantandola bene a fondo nella terra e proiettandola verso il cielo: Bab- ilu, Janua coeli, Porta del cielo.

Il tempio dedicato a Marduk in Babilonia porta un nome che significa: Casa del fondamento della terra e del cielo (E’-temen-an-ki).

Il Signore, che li aveva cacciati dal giardino in alto, scese a vedere cosa facevano e irritato («ecco, ora non sarà loro impossibile ciò che hanno meditato») confuse le loro lingue. L’impresa degenerò da Bab-ilu in Babel (ebr., confusione) e gli uomini, impossibilitati a intendersi fra di loro, non riuscirono a portare a termine l’impresa. In effetti la costruzione non era in pietra, era in mattoni cotti: era già nato l’uomo faustiano che produce aborti.

Il mito biblico contiene tre elementi notevoli: 1) gli uomini possono arrivare al cielo da soli, 2) un dio invidioso loro avverso li contrasta e li respinge astutamente, 3) se gli uomini parlassero una sola lingua, la lingua originale, ce la farebbero.

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Nello sciamanesimo, l’uomo può salire in alto se conosce la lingua delle origini. Ovvero, in altri termini, l’unico uomo che riesce a salire in alto a discorrere con Dio è colui che possiede la lingua sacra e segreta della vera natura delle cose.

Naturalmente c’è sciamano e sciamano e si può intendere che la differenza sia dovuta alla lingua usata: può darsi che sia quella degli uccelli, che abitano da sempre il cielo, come presso i paleosiberiani e Empedocle; può darsi che sia quella della Memoria, che abita oltre la porta delle strade del giorno e della notte, secondo il razionalista Parmenide.

Pure, gli uomini possono – potrebbero – farcela imparando la lingua universale, quella che usa parole e immagini e idee comuni e universali, e che sa penetrare oltre le differenze e cogliere l’eterno indistruttibile.

Indubbiamente si tratta di una impresa difficile e complessa che esige una dura ascesi e una disposizione trascendentale al sacrificio e all’abbandono della condizione normale. Solo alla fine della lacerante iniziazione la guida potrà guidare gli altri. Solo alla fine del suo itinerario di trasformazione lo sciamano «vede» e così può combattere i dèmoni negativi e può salire a discutere con il dio dell’alto le questioni del destino degli uomini.

Soltanto alla fine si rende visibile che l’axis mundi è incarnato dall’uomo eroico. Che è l’uomo eroico a costituire il centro del mondo e a orientarlo.

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La torre, in generale, rinvia al lontano universo religioso dello sciamanesimo. Essa è una scala che garantisce la salita. Eppure con essa, sia di pietra naturale sia di mattoni cotti, è entrata una novità fondamentale e abbiamo mutato epoca: non sale più soltanto l’uomo eroico, non più uno per tutti, molti oramai lo pretendono e lo fanno.

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Le statuette di bronzo nuragiche raffigurano gli abitanti di quelle torri. Il popolo delle torri si mostra nelle sue situazioni esemplari. Le figure rendono testimonianza del modo con cui essi abitavano la terra e si collegavano con il cielo.

Tutte le figure, in sostanza, sono modi della torre. Quella torre è quell’uomo, e tutti quegli uomini sono la torre.

La donna ieratica che tiene in grembo il guerriero morto – ogni morto è un ucciso – è la torre. La composizione mostra che il morto rientra nella dinamica della torre. La torre è anche la donna, essa ha anche un lato femminile, essa è la terra e la caverna. Nessuno di questi elementi deve venire preso nel senso seccamente geografico; montagne e grotte vivono, sono pietre e sono dei. Il Cantico dei cantici loda il collo della fanciulla del desiderio come una turris davidica (4, 4), la Vergine Madre cristiana è chiamata allo stesso modo da una delle litanie lauretane.

Per tornare alla più insolita e inquietante delle statuette nuragiche, il guerriero polivedente e polimunito abita il nuraghe e ne rappresenta una delle anime.

Credo che si tratti dell’anima principale e di quella più intimamente essenziale. Egli è il grande combattente, che può sostenere gli assalti da ogni lato, perché vede da ogni lato. La sua forza è concentrata nella vista. Egli è invincibile perché ha una vista potenziata.

In lui si manifesta un aspetto solare. In primissimo piano gli scudi in forma di ruota solare; poi soprattutto il fatto che la natura del sole è di vedere tutto. Il sole è un formidabile guerriero – cosa che sotto il cielo implacabile della Sardegna si è costretti a capire bene -, e il nuragico ha l’aspetto di un dèmone della morte, armato e inesorabile, a cui non si sfugge.

Giuseppe Lampis


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