La fiaba e l’incontro con gli altri e il mondo Dagli atti della Tavola Rotonda "Fiaba Magistra Vitae"
Bracciano 15 dicembre 2009

Serena Leccese

Nel suo libro “il mondo incantato” Bettelheim (1976) ci fa notare che la fiaba è amata da tutti i bambini, anche da quelli che presentano gravi problematiche. Evidentemente siamo di fronte al potere comunicativo universale della fiaba. Infatti, potremmo ipotizzare che, l’aspetto simbolico in essa contenuto, vada ad agire direttamente sulla dimensione inconscia dell’individuo, saltando la riflessione razionale cosciente e producendo immediato beneficio alla persona che ne usufruisce. La fiaba ci parla di contenuti archetipici universali e utilizza simboli, immagini condensate e poliedriche, stimoli fondamentali per lo sviluppo della nostra mente. In questo senso, la dimensione archetipica rende fruibile la fiaba anche a chi non ha raggiunto un livello di sviluppo “verbale”, astratto, e allo stesso tempo, essendo un potente attivatore emotivo, sarà in grado di favorire lo sviluppo dei successivi livelli di maturazione nel bambino. Sappiamo infatti quanto sia fondamentale il ruolo delle emozioni per lo sviluppo del sé, della capacità di regolazione affettiva e del pensiero simbolico (Greenspan, 2004; Fonagy, 2002).

dumbo2Inoltre, non possiamo dimenticare che, proprio per la sua universalità, la fiaba può funzionare da ponte relazionale tra adulto e bambino e ancora di più quando c’è una difficoltà, come nel caso di una grave psicopatologia. Le immagini universali di cui la fiaba tratta ci permetteranno di partire da un universo di significati condivisi e condivisibili. Adulto e bambino, per mezzo della fiaba, potranno instaurare un dialogo profondo e spesso senza la necessità di parlare, semplicemente sintonizzandosi empaticamente sulle emozioni del momento, in un gioco di sguardi e condivisione di qualcosa che non è solo dell’uno o dell’altro, ma di entrambi, in un luogo sospeso tra la realtà e la fantasia. Siamo davanti al vero processo trasformativo, a quel momento magico in cui si può insieme, per mano, saltare l’ostacolo e aprirsi a nuove possibilità. Senza questo momento non potremmo accompagnare i nostri pazienti verso la risoluzione dei loro problemi: solo mettendoci in contatto con l’essere umano, entrando in contatto empatico con il suo mondo interiore, sarà possibile la vera trasformazione. Così, dimenticando l’etichetta diagnostica, considereremo chi abbiamo davanti (bambino o adulto) prima di tutto come una persona. Sarà l’incontro tra due persone, la relazione emozionalmente significativa, la costruzione di un universo comune a promuovere i successivi passaggi evolutivi. Mi viene in mente il concetto di Winnicott di spazio potenziale (1971, p.94-98): uno spazio ponte tra la realtà interna e quella esterna, tra il bambino e la madre, fondamentale per lo sviluppo dell’individuo. Winnicott ci dice che lo spazio potenziale è il luogo dove possono essere collocati il gioco e l’esperienza culturale. Sono questi gli elementi necessari affinché l’individuo sia “in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé… In queste condizioni (…) l’individuo può raccogliersi ed esistere come una unità, non come una difesa contro l’angoscia ma come un’espressione di io sono, io sono vivo, io sono me stesso. Da questa posizione ogni cosa è creativa”. Potremmo dire che, condividendo la fiaba, sarà possibile immergerci immediatamente in questo luogo-non luogo dello spazio potenziale. I contenuti della storia ci forniranno le coordinate per iniziare a giocare creativamente insieme. Riorganizzando gli elementi della storia, cercando altri significati, inserendo nuovi aspetti più personali, identificandosi con i personaggi, sarà possibile volare lontano con la fantasia, come Wendy e Peter Pan, ed esplorare nuovi equilibri del nostro modo di essere. Alla fine, sarà come risvegliarsi da un sogno per tornare al libro, alla realtà da cui eravamo partiti, ma tornando, ancora stralunati dall’esperienza appena vissuta, ci accorgeremo di non essere ormai più gli stessi.

Proprio la fiaba è stata lo strumento privilegiato nel percorso terapeutico di A. A. è un bambino di sette anni, affetto da un disturbo dello spettro autistico. Da numerosi studi risulta che i bambini autistici si sono bloccati nello sviluppo maturativo del se’. Essi sono in grado di comprendere le interazioni dirette ad uno scopo, nella prospettiva “teleologica” di causa effetto, ma mancano dello sviluppo del passaggio successivo: mancano cioè della possibilità di comprendere gli stati interiori propri e altrui. Il sé, come “agente teleologico”, può scegliere tra le azioni alternative quelle più efficaci nel produrre uno scopo e comprendere semplici scambi comunicativi tra le persone. Ma è il sé mentalistico, le cui azioni sono prodotte da stati mentali più complessi, rappresentabili coscientemente e prodotti da esperienze, ricordi, emozioni, stati interiori, che ci permette di capire gli altri e soprattutto di utilizzare il pensiero simbolico e il comportamento sociale (Baron Cohen, 1995; Fonagy, 2002). Ecco una descrizione semplice ed immediata di cosa significa essere autistici:

immaginate come sarebbe il vostro mondo se foste consapevoli delle cose fisiche ma ciechi all’esistenza delle cose mentali. E’ chiaro che voglio intendere l’essere ciechi a cose come pensieri, credenze, conoscenze, desideri ed intenzioni, che per la maggior parte di noi, costituiscono, in maniera lampante, il fondamento del comportamento. Spingete ancora un po’ la vostra immaginazione e pensate a quale senso potreste dare alle azioni umane (ma, quanto a questo, a qualsiasi azione animata) se, come per i comportamentisti, ogni spiegazione mentalistica si trovasse sempre al di fuori dalla vostra portata…senza un’ossatura mentalistica, una persona affetta da cecità mentale è costretta ad affidarsi a descrizioni fondate sulla regolarità temporale o a spiegazioni che si basano sulla trascrizione di comportamenti di routine”(Baron Cohen, 1995, p. 19-22)

Per un bimbo autistico il mondo sociale risulta un mondo difficile da comprendere. Il grande desiderio di relazionarsi e di crescere con l’aiuto degli altri, proprio di tutti i bambini, verrà continuamente disatteso. E’ impossibile cogliere il significato delle interazioni sociali, quando si ha una prospettiva limitata a nessi di causa-effetto e non si comprende la complessità simbolica e affettiva nascosta dietro ad ogni interazione. Da questa prospettiva, gli altri appaiono così inafferrabili, che sembrano viaggiare alla velocità della luce. Altrettanto difficile è farsi comprendere all’esterno, quando non si ha la possibilità di riflettere sulle proprie emozioni e le si esprime con azioni, molto spesso auto o etero aggressive. Davanti agli occhi disorientati o spaventati degli altri, è più semplice ritirarsi in se stessi e impegnarsi in qualche attività rilassante, come giocare con i gesti o con immagini piacevoli ricordate, apparendo stravaganti ed isolati. Questa forse la vicenda interiore di A.: un bambino che non parlava, che presentava grandi difficoltà di attenzione e che all’apparenza sembrava poco interessato ai rapporti umani. Tuttavia, come molto spesso accade per questi bambini, un’osservazione attenta permette di capire il loro punto di vista e gli eventuali significati nascosti dietro i loro comportamenti e le loro stereotipie. Solo calandosi realmente nella prospettiva del bambino, riusciremo a superare la nostra cecità. Cecità ad un mondo, quello dell’autismo, che visto nella letteratura sull’argomento ci appare ancora oscuro e controverso e ci spinge ad osservare con occhi scientifici, poco favorevoli alla soggettività dell’incontro umano . Nell’incontro con A., abbiamo felicemente scoperto di poter condividere molte passioni, tra queste le fiabe Disney. Così, magicamente, per mezzo della fiaba è stato possibile indurre una maturazione emotiva nel bambino e una maggiore consapevolezza di sé e del proprio mondo interiore, riducendo i suoi comportamenti aggressivi e aumentando le sue capacità relazionali.

dumboPiù volte mi è capitato di constatare che molti di questi bambini amano le fiabe riprodotte dai cartoni Disney, probabilmente perché il cartone animato accompagna la comprensione dei contenuti con le immagini. Spesso però, questi bambini usufruiscono solo di alcuni elementi, prendono in considerazione dettagli che guardano a ripetizione perdendo di vista la storia.

Con A. mi sono accordata di giocare con le immagini dei libri, proprio per stimolare le sue capacità immaginative e per avere un ampio margine creativo. All’inizio è stato possibile calarci insieme nelle storie, mimando alcune scene: A. rimaneva meravigliato e divertito e questo lo spingeva a partecipare. Così prendeva vita il nostro mondo comune, la fiaba non era più utilizzata individualmente e in modo stereotipato, ma all’interno di una relazione. Magicamente si creava una totale sintonia, in un gioco di sguardi, di sorrisi e di imitazioni reciproche. Così facendo abbiamo cercato nei vari personaggi le emozioni e A. si è potuto identificare, nel corso del tempo, con queste immagini e ha potuto esplorare se stesso, segno di un accrescimento nelle sue funzioni riflessive. Cruciale è stata l’identificazione con l’immagine del gatto Romeo, con il pelo ritto e l’aria minacciosa presente nel libro de “Gli aristogatti”. Ci siamo trasformati in gatti arrabbiati anche noi, imitandone il verso e tirando fuori gli artigli per farci il solletico. Ma gatto arrabbiato è anche A. quando tira calci e graffia, perché gli viene impedito di fare quello che vuole. Così, a partire da questa associazione, la rabbia poteva iniziare ad essere pensata e non sempre agita sugli altri e sulle cose: spesso A. voleva condividere questa immagine, per raccontare la sua giornata e il suo dispiacere per aver tirato calci o graffi ai suoi compagni o ai suoi genitori. Insieme, nel gioco trovavamo soluzioni alla sua angoscia e facevamo un passo in avanti verso livelli superiori di maturazione emotiva.

Nel tempo i nostri giochi sono diventati sempre più complessi: siamo passati da immagini sconnesse prese dalle varie storie, ad una fiaba intera, segno di una nuova dimensione integrata, non più a pezzi e di una sua maggiore coerenza interna.

La fiaba di “Dumbo” ha segnato il punto di svolta. A. si è riconosciuto e mi ha mostrato tutta la complessità della sua situazione. Guardiamo la storia: Il piccolo Dumbo è vittima dello scherno di un gruppo di ragazzini in visita al circo: gli soffiano nelle orecchie, gli lanciano le noccioline, lo deridono. Il cucciolo che si era avvicinato a loro con curiosità, si nasconde spaventato dietro la sua mamma. Mamma Jumbo non può tollerare un simile comportamento: si lancia rabbiosa a difendere il suo cucciolo umiliato e viene così allontanata e imprigionata. Il piccolo elefantino, dalle orecchie troppo grandi, si ritrova solo e indifeso, in un angolo piange per la sua condizione. Ecco l’immagine struggente dei sentimenti di solitudine e di colpa che A. prova per la sua diversità. La sua mamma è rimasta imprigionata dalla scoperta della sua malattia, non può difenderlo con l’intimità e con l’amore di una mamma, può solo reagire con rabbia alle mancanze delle istituzioni o con dolore quando A. si mostra diverso dagli altri bambini. A. mi racconta la sua vicenda, ma mi spiega anche che ha una speranza: mi mostra l’incontro inatteso con il topino Timoteo e la sua fiducia nella possibilità di usare la propria diversità come un talento. Anche lui vuole essere come Dumbo, che usa le sue orecchie troppo grandi, che avevano provocato tanti guai, addirittura per volare e meravigliare gli altri! Non è trascurabile che nella storia anche Timoteo da topino di un circo, diventerà un personaggio importante, sarà il manager del suo famossissimo amico Dumbo!

Il nostro percorso insieme ci ha finalmente condotti allo sviluppo di nuove capacità mentali: sono evidenti l’identificazione, il riconoscimento di un proprio stato d’animo e delle sue origini nei sentimenti della mamma di A. (aspetti invisibili dalla prospettiva teleologica). Constatiamo anche la condivisione con l’altro, la fiducia nell’altro che può comprendere ed aiutare e il pensiero di una prospettiva futura.

Come tra Dumbo e Timoteo anche la nostra è la storia di un incontro. Un incontro inaspettato che cambia il corso della vita di entrambi. Una storia che avrà in futuro un lieto fine o che forse l’ha già avuto negli sguardi complici, divertiti e appassionati dei due partecipanti.

Volendo parlare della fiaba ho parlato di un caso difficile, forse proprio per valorizzare la sua preziosità o forse per dire che non esistono casi. Ad ogni modo anch’io, come tanti, constato ogni giorno nel mio lavoro che la psicoterapia può essere essa stessa fiaba. Infatti, essa è narrazione, è rinarrazione di storie. E’ fiducia nella possibilità. Quando pensiamo alla psicoterapia ci vengono in mente i personaggi della seduta. Personaggi che si incontrano magicamente in un luogo-non luogo, che affrontano insieme vicende e difficoltà, risolvono incantesimi, rendono innocui i cattivi e alla fine del loro percorso scoprono chi sono veramente.

Serena Leccese

BIBLIOGRAFIA

  • Baron Cohen S. (1995), L’autismo e la lettura della mente, tr. It. Astrolabio, Roma, 1997 
  • Bettelheim B. (1976), Il mondo incantato, tr. it. Feltrinelli, Milano, 1977 
  • Fonagy P., Gergely G., Jurist E.L., Target M. (2002), Regolazione affettiva, mentalizzazione e sviluppo del sé, tr. it. Raffaello Cortina, Milano (2005) 
  • Greenspan S. I., Shaker S. G. (2004), La prima idea, tr. it. Giovanni Fioriti, Roma, 2007 
  • Winnicott D. W. (1971), Gioco e realtà, tr. it. Armando, Roma, 1974

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