La Pietra dei Filosofi Alchimia e ricerche segrete naziste, sovietiche e americane

Ezio Albrile

Joseph P. Farrell
La Pietra dei Filosofi. Alchimia e ricerche segrete naziste, sovietiche e americane
trad. it. A. Rosoldi
Edizioni Mediterranee, Roma 2020,

 

Alla fantastica rinascita del verbo alchemico nel mondo contemporaneo ha certamente contribuito il libro di Louis Pauwels e Jacques Bergier Il mattino dei maghi (Mondadori, Milano 1963; ed. or. Gallimard, Paris 1960); percezione confermata dalla lettura  dell’autobiografia di Jacques Bergier (Io non sono leggenda, Bietti, Milano 2019), un libro introvabile tradotto da Andrea Scarabelli, saggista e scrittore impegnato.  Stando a quanto si leggeva ne Il mattino del maghi, gli alchimisti erano ben coscienti dei progressi della scienza nel campo metallurgico, ma sarebbe esistito un modo di manipolare materia e energia molto diverso da quello operato dai fisici contemporanei, capace cioè  di produrre quello che oggi chiamiamo un «campo di forza». Questo campo aveva il potere di interagire con l’osservatore, collocandolo nella posizione privilegiata di contemplare l’intero universo. Un’idea ripresa e approfondita in questo libro di Joseph P. Farrell, saggista noto nel mondo anglosassone per altri volumi in cui la spiegazione scientifica è unita all’esegesi di materiali più o meno ‘esoterici’.

Ermete Trismegisto

«É vero senza inganno, è certo e verissimo. Ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso…», dice La Tabula smaragdina, lo scritto di riferimento della disciplina alchimica medievale. Ritenuto il primo, riconosciuto, breve testo di alchimia araba, esso è contenuto nella parte finale del Kitāb sirr al-ḫalīqa o «Libro del segreto della creazione», fraudolentemente attribuito ad Apollonio di Tiana (Balīnūs) e tradotto in latino a Tarazona da Ugo di Santalla come Liber de secretis naturae et occultis rerum causis quem transtulit Apollonius de libris Hermetis Trismegisti («Libro dei misteri della natura e delle cause occulte delle cose tratti da [Pseudo] Apollonio [di Tiana] da uno dei libri di Ermete Trismegisto»)  tra il 1119 e il 1152. Da un luogo privilegiato, l’alchimista aveva la possibilità di accedere a delle realtà normalmente precluse dal tempo e dallo spazio, dalla materia e dall’energia. Ecco ciò che gli alchimisti chiamavano «Grande opera»: l’essenziale non consisteva nel trasformare i metalli, ma nel mutare se stessi. Si trattava di un segreto antichissimo che soltanto pochi uomini avevano il privilegio di riscoprire una volta ogni centinaia di anni. Ovviamente, e a ragione, gran parte dei lettori è scettico su questo argomento.

L’affabulazione alchimica parte da una condizione pretemporale, il caos, la massa confusa o nigredo; e per mezzo dell’«opera» l’adepto paragona il proprio agire alla creazione del mondo, producendo l’albedo o dealbatio, l’albedine, comparata a sua volta ora alla Luna piena, ora al sorger del Sole. La nerezza, nigredo, è lo stato iniziale, preesistente, rappresentato come qualità della prima materia, del caos о della massa confusa, oppure provocato dalla decomposizione (solutio, separatio, divisio, putrefactio) degli elementi. Se, come talvolta accadeva, si partiva dallo stato di decomposizione, poi si procedeva a un’unione degli opposti sul modello dell’unione di maschile e femminile (il cosiddetto coniugium, matrimonium, coniunctio, coitus), seguita dalla morte del prodotto dell’unione (mortificatio, calcinatio, putrefactio) e corrispondente annerimento, la «discesa agli inferi».

V.I.T.R.I.O.L. – Simbolo alchemico

Dalla nigredo si poteva passare mediante lavaggio (ablutio, baptisma) о direttamente, all’imbianchimento, oppure l’anima fuggita dal corpo al momento della morte era unita nuovamente al corpo morto per vivificarlo, oppure ancora i molti colori (omnes colores, cauda pavonis) servivano di passaggio a un colore unico, il bianco, che li conteneva tutti. Con ciò era raggiunta la prima meta principale del processo, ossia l’аlbedo, tinctura alba, terra alba foliata, lapis albus, meta che certi autori decantavano in modo tale quasi si trattasse della fase ultima e terminale. Era lo stato argenteo о lunare, che però doveva essere ancora innalzato allo stato solare. L’albedo era in certo qual modo, l’alba; ma soltanto la rubedo equivaleva al sorgere del Sole. Il passaggio alla rubedo era costituito dall’ingiallimento (citrinitas); aumentando l’intensità del fuoco fino al suo grado massimo, la rubedo sorgeva direttamente dall’albedo. Il bianco e il rosso denotavano simbolicamente la Regina e il Re, che in questa fase potevano celebrare le loro nuptiae chymicae, il mysterium coniunctionis. La successione delle fasi nei singoli autori dipendeva essenzialmente dal modo in cui essi si rappresentavano la finalità dell’opera: ora si trattava della tintura bianca о rossa (aqua permanens), ora della pietra filosofale che era ermafrodita, androgina, e le racchiudeva quindi entrambe, ora della panacea (aurum potabile, elixir vitae), dell’oro filosofico, del vitrum aureum, del vitrum malleabile. Altrettanto vaghe e mutevoli dei singoli processi erano le rappresentazioni della meta stessa. Il lapis philosophorum, per esempio, era spesso la prima materia, о il mezzo per produrre l’oro; e in altri casi ancora era un essere mistico chiamato anche Deus terrestris, Salvator, о Filius macrocosmi, una figura che poteva essere paragonata all’Anthrōpos gnostico, all’Uomo primordiale divino. Oltre al concetto di prima materia, svolgevano una parte importante anche quelli di aqua permanens e ignis noster. Benché acqua e fuoco fossero elementi antagonistici, anzi costituissero una tipica coppia di opposti, ciò non toglie che fossero intesi come una sola e identica cosa. Come la prima materia, così anche l’acqua aveva mille nomi; essa era la materia da cui traeva origine la Pietra.

Tutte queste concezioni il Farrell le ritrova in una serie di eventi più o meno singolari e misteriosi accaduti ai margini della scienza ‘ufficiale’, a partire dalle ricerche compiute dal 1983 in poi da David Hudson, un agronomo dell’Arizona, per conoscere e comprendere l’anomala polvere bianca che aveva estratto dai campioni di suolo della sua proprietà terriera, sino al fantomatico «Mercurio rosso» di produzione sovietica e alla micidiale «Campana» escogitata dal genio nazista. In tale bailamme di scoperte più o meno attendibili, sono da segnalare le ricerche del fisico russo Nikolai Kozyrev, gigante misconosciuto della fisica teorica e sperimentale del XX secolo, sopravvissuto alle grandi epurazioni staliniane. Secondo questa mente occultata della scienza contemporanea, il tempo era una forza fisica misurabile, dotata di proprietà particolari, che si manifestavano nei modelli plastici di sviluppo a ‘spirale’ (la cosiddetta ‘serie di Fibonacci’), presenti in natura in formazioni che vanno dalle conchiglie al DNA. Oltre a ciò, il Kozyrev rilevava una sincronia tra fenomeni stellari e accadimenti fisici, dimostrando che le operazioni sperimentali compiute in momenti diversi davano risultati diversi, convalidando le osservazioni fatte dagli alchimisti secondo cui le configurazioni celesti agite in orari opportuni rappresentavano un fattore essenziale per portare a termine l’«opera». Un’acquisizione che fondava il ‘metodo’ terapeutico della rinata alchimia paracelsiana: la malattia per Paracelso non era determinata soltanto dagli elementi o dagli umori come voleva la classica medicina galenica, ma anche dalla componente planetaria e astrale presente nell’organismo umano. Questo «firmamento interiore» aveva un suo riscontro nel mondo stellare e planetario di cui il medico doveva conoscere i moti e le congiunzioni per diagnosticare correttamente la malattia. Tuttavia egli non era in grado di curare le malattie provenienti direttamente dal cielo, poiché ciò era compito della medicina adepta, alla quale solamente gli iniziati potevano accedere. Il medicus adeptus poteva preparare rimedi in base alla configurazione astrale dell’organismo umano e non in base a qualità, gradi o umori, poiché sia le malattie sia i rimedi derivavano dal microcosmo, il cielo interiore.

mysterium coniunctionis

Come leggiamo nell’Opus Paramirum, ciò che il medico comprende nelle stelle è il firmamento visibile, inteso come un segno che allude e rimanda al firmamento interiore dell’uomo e ne assicura la conoscenza. Tale corrispondenza tra macro e microcosmo era presente anche nella farmacopea paracelsiana fondata sull’alchimia, il terzo pilastro della medicina. Soltanto gli arcana scoperti con l’ausilio dell’alchimia, in quanto sostanze incorporee, potevano essere utilizzati come rimedi; infatti, solo attraverso la loro «natura astrale» i farmaci  potevano essere efficaci contro le malattie. L’alchimia otteneva la separazione dell’astro dal sostrato corporeo attraverso il fuoco, e in questo processo l’alchimista doveva osservare il mutamento del «firmamento esteriore» al fine di preparare correttamente gli arcana da utilizzare nel «firmamento interiore». Al centro della concezione paracelsiana della materia vi era la dottrina dei tria principia o tria prima, che rappresentava il recupero degli insegnamenti alchimici sullo zolfo (sulfur), mercurio (mercurius) e sale (sal), principi che erano contenuti nei quattro elementi ‒ terra, aria, fuoco e acqua ‒ i quali a loro volta derivavano dall’yliaster, il Caos materico originario, il Mysterium magnum. Uno dei principali meriti di Paracelso nel campo della medicina consiste nell’aver richiamato l’attenzione su un più largo uso dei minerali nella materia medica; sottoponendoli a trattamenti alchemici e farmaceutici, si ottenevano infatti quei rimedi che egli chiamava arcana: l’arcanum lapidis philosophorum, che, come la pietra filosofale con i metalli, «tingeva» il corpo restituendogli la salute. Dialogando in termini di corrispondenze tra macrocosmo e microcosmo, l’astrum è l’arcanum, il principio incorporeo che agisce su di un certo organo e una certa stella, rivelando la propria efficacia;  la tinctura, che al pari degli elixiria e delle quintae essentiae agiva sul corpo umano come farmaco universale. Il rinnovamento ermetico di Paracelso aveva un valido fondamento nella più antica disciplina alchemica: nel trattato sulle «Tinture» (Baphika) Bolo Democriteo avrebbe divulgato alcune pratiche di doratura con le quali si abbellivano gli oggetti sacri dei templi egizi. Questa prassi ermetica pare si proponesse di «tingere» metalli e pietre con oro, argento o gemme, quasi si trattasse di semplici tessuti. Essa è documentata tra l’altro da due grandi papiri del III o IV sec. d.C., ritrovati insieme ad altri scritti «segreti» in una tomba della necropoli tebana, dove forse qualche iniziato aveva fissato la propria dimora. Ben poca cosa a confronto degli obiettivi che si prefiggevano gli alchimisti. Un esempio fra i tanti: commentando Zosimo, Olimpiodoro diceva che la tintura rendeva corporei gli elementi volatili, cioè «fissava» l’anima in un organismo dotato di immortalità. Possiamo inoltre ricostruire, attraverso le citazioni e i commenti di Zosimo nel suo Libro del computo finale, quel che affiorava da un Libro delle tinture naturali, attribuito ad Ermete. In un lontano passato, prima del Diluvio, sarebbero esistiti procedimenti di «tintura naturale» attraverso i quali gli uomini avrebbero avuto accesso ai segreti delle trasmutazioni. In seguito ad un complotto dei «demoni vigilanti», già sconfitti dalle Potenze celesti, tali arcani caddero nell’oblio: accuratamente nascoste, queste ricette vennero raccolte e crittografate in alcuni trattati attribuiti all’antico Ermete. In luogo di queste «tinture naturali» i demoni avrebbero introdotto con l’inganno procedimenti ricalcati sulla tintura delle stoffe. Stando al riassunto di Zosimo, queste tinture, cosiddette «opportune», avevano la peculiarità di agire solo durante certe congiunzioni astrali e di rimanere inattive in qualsiasi altro momento, secondo la volontà degli Angeli malvagi.

Alle ricerche di Kozyrev si deve infine aggiungere l’apporto ‘psicometrico’, vale a dire l’idea che gli oggetti inanimati possano conservare un certo ricordo latente. In epoca di spiritismo selvaggio più di un medium si premeva sulla fronte vecchi stracci, pietre e oggetti vari, nella speranza di vedere riemergere una visione del passato. Storie di psicometria narravano che un medium aveva ricostruito una foresta del Carbonifero da un pezzetto di carbone e che, dopo aver tenuto in mano un frammento di meteorite, aveva descritto una magnifica utopia di un altro pianeta. Si tratta, ovviamente, di elementi che indeboliscono le tesi del Farrell, contribuendo forse ad annientare le parti di verità contenute in questo suggestivo libro. Prendiamo la parte dedicata alle ricerche naziste in campo alchimico, il primo nome ad essere evocato è quello di Karl Maria Wiligut, importante collegamento alla religiosità ariogermanica nel Terzo Reich. Personaggio singolare in cui schizofrenia si univa alla disciplina ermetica, il Wiligut, anche noto come «Weisthor», cioè Thor il saggio, fu coinvolto in quasi ogni momento dal tentativo delle SS di costruire una religione ariogermanica. Chiaramente ispirato dall’ariosofia e dalla teoria del ghiaccio cosmico di Hörbiger, Wiligut miscelava nozioni ermetiche alla religiosità norrena, sostenendo di avere poteri spirituali che gli venivano dai suoi antenati, simili a dèi, che discendevano a loro volta dagli Asi e dai Vani della mitologia, tra cui Thor, Odino e l’antico eroe germanico Arminio.  Wiligut dichiarava che la sua religione faceva parte di una civiltà ariana superiore, sorta millenni prima della storia documentata, in «un tempo in cui giganti, nani e animali mitici si muovevano sotto un cielo occupato da tre Soli». Con tali premesse resta difficile seguire il percorso che conduce dall’ermetismo nazista alla costruzione della «Campana» (Die Glocke), una potentissima super-arma, la cui unica fonte è costituita da un libro pubblicato dal giornalista e storico militare polacco Igor Witkowski nel 2002 con il titolo Prawda O Wunderwaffe (Wydawn. WiS-2, Warszawa) tradotto in versione tedesca come Die Wahrheit über die Wunderwaffe: Geheime Waffentechnologie im Dritten Reich (Teil 2, Mosquito Verlag Ltd & Co KG, Immenstadt 2009) e prima in inglese come The Truth about the Wunderwaffe (RVP Press, New York 2003), volume al quale attinge a piene mani il nostro J. P. Farrell.

Ezio Albrile