Sant’Albino e il corpo di luce

Ezio Albrile

 

Snodo nel cammino della Via Francigena, l’Abbazia di Sant’Albino a Mortara, è ancora oggi meta di pellegrini che percorrono l’antica strada della fede che da Canterbury giungeva nell’Urbe. Della primitiva fondazione poco o nulla è rimasto, eccezion fatta per una magnifica abside che nei secoli ha ospitato dipinti di varia natura. Tra quelli sopravvissuti uno, attribuito a Joannes de Mediolano(XV sec.), è di particolare interesse. Esso presenta nell’ordine Sant’Antonio Abate, riconoscibile dal maialino che gli sta ai piedi, il Battesimo di Gesù e la Madonna in trono con ai lati Sant’Albino, sant’Agostino e san Giacomo. Soffermiamoci sulla seconda scena.

Al battesimo di Gesù sul Giordano due angeli gli stanno accanto, uno reca una tunica rosso-porpora, l’altro bianca. I due abiti esemplificano la storia della salvezza: quello rosso l’incarnazione, quello bianco l’abito di luce, la liberazione. Anche se siamo in un ambito rigidamente «ortodosso», c’è nella scena un che di perturbante e di arcaico.

Un primo pensiero è in una frase letta nella facciata del magnifico Duomo di Fidenza: Virga flox natus est carne Deus trabeatus «Il fiore nato dal ramoscello è Dio rivestito del manto della carne», il riferimento è tratto dal Vangelo di Luca 2, 22-35, ma è un pretesto per raccontare il dilemma fra incarnazione e salvezza, così come concepito nel dualismo antico.S_Albino

Nella dialettica gnostica l’illuminazione è il risveglio della «scintilla» (spinther o pneuma) di Luce incatenata nelle Tenebre, cioè nella hylē, la Materia, ed è al medesimo tempo un rivestirsi della sostanza luminosa e spirituale (l’Abito di Luce). Tale processo di trasformazione implica una divinizzazione dell’uomo, il quale riscopre in sé la propria vera essenza.

L’Apocalisse di Adamo (V, 77, 30 ss.), ritrovata insieme a tanti trattati gnostici a Nag Hammadi, racconta di come un Phōstēr, un «Illuminatore» futuro, si manifesta e «sorge» sull’acqua. Egli è destinato a sconfiggere le forze del male e a ristabilire il regno paradisiaco in terra, poiché rivestito di «gloria e forza» divine, intriso di splendore sorgivo. I testi gnostici affabulano spesso di un «Uomo di Luce», un Anthropos photeinos, manifestazione di una realtà divina, pleromatica, che si disvela nel mondo somatico. Da un punto di vista morfologico l’epifania dell’«Uomo di Luce» è rintracciabile in svariati contesti religiosi, dal buddhismo, al sufismo, ambiti questi fortemente influenzati dall’universo simbolico della gnosi iranica. L’«Uomo di Luce» è l’Uomo interiore o sostanziale degli scritti ermetici, l’Uomo pneumatico o luminoso dell’alchimista Zosimo, secondo il quale la figura avrebbe (secondo l’intuizione di G. Quispel) un corrispettivo linguistico ed etimologico nelle locuzioni greche  ho phos, «Uomo», e to phos, «Luce».

In un papiro magico scritto ai tempi di Diocleziano che qualcuno ha ribattezzato «Liturgia mithraica», a un certo punto è detto: «Aspira l’aria dai raggi [solari], aspirando tre volte con tutte le forze, e vedrai che diventerai leggero e che attraverserai lo spazio verso l’alto, così che ti sembrerà di essere dentro l’aria. Non sentirai nulla, né uomo né animale, né vedrai nulla, in quel momento, delle cose mortali della terra ma vedrai solo ciò che è immortale. Tu vedrai infatti la divina posizione degli astri di quel giorno e di quell’ora, gli dei che presiedono a quel giorno, alcuni salendo verso il cielo, gli altri discendendo… Quando la tua anima sarà tornata in sé dì: Vieni a me, o Signore. Quando avrai detto ciò, i raggi si volgeranno verso di te. Guarda bene in mezzo ad essi. Quando lo avrai fatto, vedrai un dio giovane e bello, con i capelli di fuoco, vestito di una tunica bianca e di una clamide di porpora, con una corona di fuoco …» (A.-J. Festugière, La révélation d’Hermes Trismegiste, I. L’astrologie et les sciences occultes, Paris, 1944, pp. 303-304). Una visualizzazione dell’Uomo interiore.

Gli adepti ermetici ritengono che l’anima trasmigri di corpo in corpo, ora verso il meglio, ora verso il peggio. Un trattato del Corpus Hermeticum intitolato «La chiave» è preciso a riguardo: all’inizio c’è una sola anima che si differenzia nelle anime individuali; esse poi subiscono delle progressive «trasformazioni» (metabolai), alcune verso una condizione migliore, altre verso una peggiore; le prime mutano dai corpi di animali striscianti agli animali acquatici, via via sino all’uomo; gli esseri umani ottengono il principio di immortalità trasformandosi in demoni e poi in dèi; questi ultimi si dividono infine in dèi planetari e dèi astrali (stelle fisse). Ciò rappresenta la suprema glorificazione dell’anima (Corpus Hermeticum 10, 7 = Ramelli, pp. 258-261).

La dottrina ermetica raccoglie un insegnamento che è sconosciuto agli antichi Greci: staccandosi dal mondo celeste, l’anima indossa un corpo astrale, lo pneuma psychikon, che riprende quando dopo la morte ritorna alle sue origini iperuranie, l’athanaton sōma (Corp. Herm. 13, 3). L’anima diventa visibile attraverso un «vestimento di splendore»: è il mistero celato in testi gnostici come la Pistis Sophia, che trasfigurano l’abito luminoso quale tramite del conseguimento celestiale, dell’ascesa verso i misteri ultimi.

La mistica neoplatonica designa l’abito celeste che l’anima indossa o sveste con il termine specifico chitōn, la «tunica», prerogativa degli iniziati. È plausibile che dietro a queste dotttrine si celino consuetudini molto più antiche: è il caso di una iscrizione di Keos del V secolo a.C., che prescrive di avvolgere i morti in un candido chlaina; così abbigliato il defunto era pronto ad intraprendere il viaggio nell’aldilà.

«La chiave» ermetica racconta come nel trapasso l’anima si contragga in questo pneuma, nel «soffio», e da essa si separi la parte più pura, il Nous. Quindi il Nous si libera del corpo terreno per rivestire una tunica ignea, un vestito di fuoco che non poteva indossare quando abitava nel corpo terreno (Corpus Hermeticum 10, 16 e 18 = Ramelli, pp. 264-267). Un corpo di fuoco è un corpo pneumatico, «spirituale». Nel quindicesimo capitolo della Prima Lettera ai Corinti, san Paolo afferma che né la carne né il sangue erediteranno il Regno di Dio (15, 50), in altri termini non può esistere una resurrezione della carne, poiché «si semina un corpo animale e risorge un corpo spirituale» (15, 44). Paolo, o chi per lui, sembra aver ben compreso l’insegnamento ermetico. Giamblico, neoplatonico e teurgo, lo riassume esemplarmente: l’uomo possiede due anime, una divina, noetica, che proviene dal primo principio, l’altra planetaria, vincolata alle «orbite celesti» (ouraniōn periphorai). La seconda è la tunica, l’involucro che l’anima divina indossa per entrare nel nostro mondo, il mondo della Heimarmenē la cieca fatalità (De myst. 8, 6, 269 = Moreschini, [Milano 2003], p. 420). Parole che trovano una lontana eco nella disperata esclamazione del Mago nel Faust di Goethe: «Due anime, ahimè, vivono nel mio petto!».

L’idea di un abito glorioso che al medesimo tempo è vestimento corporeo dell’anima ha larga diffusione nello gnosticismo di area aramaico-iranica, il cui principale testo a noi pervenuto è l’Inno della Perla, contenuto negli apocrifi Atti di Tomaso. Ancora, in un trattato di Nag-Hammadi, il Secondo Discorso del Grande Seth (VII, 57, 14 [ Pearson, Nag Hammadi Codex VII, p. 168-169]), le altezze pleromatiche sono descritte come un luogo immacolato ove si celebrano le nozze dell’anima, le quali implicano la «vestizione dell’abito nuziale» (piği šeleet pe ente tistolē). Ma l’ambito gnostico in cui questa tematica è stata più esaustivamente sviluppata è quello manicheo; basti citare un significativo passo dell’Angad rōšnān (6, 9 a = T II D 178 III verso 4a [Boyce, The Manichaean Hymn-Cycles in Parthian, pp. 140-141]), un inno che celebra il grande  Nous cristico come il vestimento di Luce indossato dal corpo psichico:

ud tō *ay man tan padmōža[n bam]ig
«… e tu sei lo [splendido] vestito del mio corpo»

 

Echi di questo mitologhema indo-iranico-gnostico li troviamo ancora in un Inno di Efrem Siro, dove si parla dei lbwšÿ šp¨r’, gli «splendidi abiti» che Adamo ha perduto in seguito all’estromissione dal Paradiso terrestre (Lamy IV, col. 629, 2). Un’altra testimonianza significativa si trova nel Testamento di Abramo, uno scritto giudeo-cristiano presente in numerose recensioni (copta, etiopica, araba, rumena, paleoslava) di cui la più antica è quella greca: qui Abramo sveste l’anima, intesa quale involucro psichico, che gli Angeli al seguito di Michele depongono «in un lenzuolo tessuto da Dio» (en sidoni theouphantō).

La liturgia funebre dei Mandei, antichi gnostici di area aramaico-iranica, è un rito gnostico di «risveglio» e di «ritorno» verso la dimensione originaria, nello splendore sorgivo: il morente viene lavato aspergendolo tre volte, viene unto con olio come nel rito battesimale, il masbuta, quindi vestito dei suoi paramenti rituali bianchi e incoronato con la klila, un diadema foggiato con rami di mirto; infine gli viene consegnata la ‛ngirta, l’ampollina benedetta.

Secondo la dottrina gnostica dei Sethiani il Redentore ipercosmico, nelle fattezze del Logos perfetto, dopo essere penetrato nel mondo dell’oscurità, cioè nei «misteri impuri dell’utero» (mētra mystēria mysara), ha compiuto un rito lustrale ed ha libato il calice dell’acqua vivente, che ognuno deve bere per svestire la forma del servo ed indossare l’Abito celeste. Qui l’idea del vestito celeste e terrestre, come nel dipinto di Sant’Albino, si coniuga con i lavacri battesimali.

Nella gnostica Parafrasi di Sēem ritrovata a Nag Hammadi lo stratagemma che la Tenebra utilizza per incatenare il genere umano è il vincolo del battesimo, l’immersione nelle acque di morte, immagine del Diluvio scatenato per annientare la stirpe spirituale. Per contrastare tale azione negativa il Salvatore, qui chiamato  Derdekeas decide di manifestarsi direttamente «nelle membra del pensiero della Fede», cioè nello nel vincolo psichico e battesimale:

«… Ma è necessario per me [Derdekeas] manifestarmi nelle membra del pensiero della Fede per rivelare la grandezza della mia forza. E io la separerò dal demone che è Soldas. E unirò la Luce che deriva dallo Spirito alla mia veste invincibile; lo stesso avverrà per colui al quale lo rivelerò nel mondo di Tenebra, per amore verso di te  e verso la tua stirpe, che sarà preservata dall’oscurità del male».

Il demone Soldas è il corpo che imprigiona la forza di Luce del Salvatore gnostico. Egli appare nelle acque per battezzare il Redentore celeste Derdekeas con un battesimo imperfetto, ma allo stesso tempo possiede una Luce spirituale a cui Derdekeas unisce il proprio manto invincibile e l’oggetto della rivelazione, cioè il mezzo di difesa di Sēem e della sua razza.

Il mito cosmogonico dei Mandei, narra di come il Demiurgo Ptahil, per ordine del padre Abatur, abbia creato il mondo scendendo dalla Luce verso l’acqua di Tenebra (letteralmente «acqua torbida»). Ptahil ottiene dal padre un manto di Luce, una «veste di fuoco vivo», e con esso percuotendo l’acqua la solidifica, così da creare il mondo: Per portare a termine la cosmogonia Ptahil deve indossare una «veste di fuoco vivo» (lbuš ‛šata haita), uno «strumento» divino che gli permette di «solidificare» (msuta) la terra, cioè di creare il mondo di Tibil (Ginzā Iamina III [Petermann 97, 2 ss.; Lidzbarski 103, 1 ss.]).

L’ovvio riferimento è alla «veste invincibile» di Derdekeas, in questo caso la visione è rovesciata: pur restando costante in entrambi i casi lo scenario dell’acqua, oscura e primordiale per Ptahil e del battesimo-trappola per Derdekeas, le finalità sono differenti. Per Ptahil infatti la «veste di fuoco vivo» è una specie di mezzo per portare a compimento la creazione, mentre per Derdekeas la discesa nelle acque è il momento che stabilisce la sua separazione dalla Tenebra, cioè dal demiurgo-demone Soldas, indossando anch’egli una «veste invincibile».

La visione negativa e demoniaca del battesimo è presente in numerosi ambiti gnostici, in particolare nei trattati di Nag Hammadi. L’Esegesi dell’Anima descrive l’imperfezione e la negatività del rito battesimale: è il battesimo di «conversione» (metanoia), fatto di «dolore e sofferenza», che ha come destinatari gli «psichici», cioè gli adepti della Grande Chiesa.

È molto probabile che l’«Apocalisse di Sem» menzionata nel Codice Manicheo di Colonia, coincida con la Parafrasi di Nag Hammadi e che Mani, il profeta scrittore, l’avesse letta, modificandola a suo uso e consumo. Il Cristo manicheo discende nel mondo senza incarnarsi (Contra Faustum 5), nella Parafrasi di Sēem il Salvatore deve prostituirsi, indossando la veste purpurea dell’infamia. Ancora, uno scritto visionario di Nag Hammadi, Zostriano, descrive l’acqua del rito battesimale impartito dalla Grande Chiesa come «acqua di morte», elemento «psichico» e «femminile», vincolo e «laccio» che lega lo Spirito:

«Non battezzare te stesso con la morte e non entrare in contatto con quelli inferiori a te invece che con quelli migliori».

Il battesimo impartito da Giovanni Battista non serve a Gesù Cristo, che con la sua discesa nell’acqua del Giordano, cioè nel mondo di Tenebra, sancisce la fine del potere arcontico e demoniaco. Esemplare è la Testimonianza Veritiera, dove il fiume Giordano diventa l’«Oceano generativo». Il rifiuto del battesimo, coinvolge ovviamente anche Giovanni Battista, che pure era stato «generato dal Logos» come Gesù. Questa filiazione dal Logos permette al Battista di «rendere testimonianza» e di «vedere la potenza che scende». Ma ciò non gli impedisce, però, di essere «l’Arconte dell’utero», in quanto signore dell’elemento acqueo in tutta la sua negatività, principalmente sessuale. Il battesimo d’acqua è di per sé «arcontico», «cosmico», e quindi espressivo della sessualità, intesa come negativa e demoniaca (vale per tutto l’equazione acqua = epithymia, concupiscenza). Di certo la salvezza passa per un metangismos, una «transfusione» della luce attraverso gli uteri acquei. A questo battesimo impuro gli gnostici della Testimonianza Veritiera contrappongono un «battesimo di verità», che è la vera rinuncia al mondo. L’ignoranza, la «deficienza» degli psichici, fa loro credere che il «sigillo» battesimale ricevuto sia di qualche utilità, ma si tratta di un inganno: l’unica concessione fatta dagli Gnostici è che in tal modo «qualcuno entra nella fede», quella «psichica» che, sebbene illusoria, può rappresentare il primo passo verso l’autocoscienza della propria filiazione divina.

Ezio Albrile


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