Una vita non è solo una vita

Giuseppe Lampis

Eraclito B 27 (apud Clemente Al. Stromata4, 144, 2)
anthropous menei apothanontas hassa ouk elpontai oude dokeousin
«gli uomini una volta morti li aspettano cose che essi non sperano né si rappresentano» (Colli 1980);
«when men die there await them what they neither expect nor even imagine» (Marcovich 1966, 20012).

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Passo misterico.
Ancora un discorso ermetico sull’anima; quand’anche stia parlando del suo romanzo post mortem, le espressioni sono strettamente coperte e adombrano un codice iniziatico.
La vita in cui l’anima sopravviverà e continuerà, incomprensibile dal versante attuale, è presentato in un’aura di incertezza.

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I pochi frammenti in cui troviamo cenni al post mortem non soccorrono al deciframento.
Non la notizia che le anime nell’Ade usano il naso e nemmeno i trapassi e le inversioni dell’anima che muore in acqua.

Nelle mutazioni di materia definite «morte»(B 36),le anime muoiono al plurale, rinascono al singolare. Degenerano nella perdita del carattere di unicum e risalgono risvegliandone il possesso.
«Per le anime è morte diventare acqua, per l’acqua è morte diventare terra, ma dalla terra viene l’acqua e dall’acqua l’anima.»
L’anima che riuscirà a mantenersi asciutta sarà la più sapiente e la più alta per valore (ariste, B 118).
L’anima più capace di sacrificio sarà quella che saprà conservare o ricuperare la sua natura di fuoco passando attraverso la morte per acqua.

Ma quanto sopra non getta luce sulla confutazione delle speranze e delle immaginazioni incombente non appena la morte subentri.

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Più interessante per le connessioni interne è B 88, dove le trasformazioni vivo–morto (!), sveglio–dormiente, giovane–vecchio sono designate con il verbo metapiptein. Qui le mutazioni avvengono per rovesciamento, per ribaltamento improvviso, con la caduta e lo sprofondamento di un’opposizione nell’altra.

Possiamo trarne un suggerimento.
Se prudentemente rinunciamo a leggere in B 27 un romanzo dell’anima post mortem, l’unica cosa chiara che balza dal testo è che post mortem ci sarà una negazionedi questa vita.
Il cuore di questa vita sono le cose che gli uomini sperano e credono, e alla fine queste cose saranno negate da altre cose fuori dalla loro portata.
Infatti, a conferma della limitatezza dell’anima proclamata impietosamente, sappiamo da B 18 che l’uomo può soltanto ad–tendere un arrivo dell’«insperato» da un ambito trascendente il suo stato.

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Rinunciamo a definire in che consistano le cose che attendono al varco alla morte. Ciò nonostante il passo ci dà un insegnamento egualmente importante, forse ancora di più.
La vita mortale è parte di un intero che la comprende e fonda. È il ramo di una doppia polarità unitaria. È il complementare indissolubile di un’altra vita, ed entrambe non sono possibili da sole e a sé, perché sono i due poli di una sintesi e di una convergenza.
La mia vita di ora, non solo ogni suo particolare momento, bensì l’intera mia vita di ora, è legata a un’altra vita.
Questa seconda vita deldopoè in opposizione con la prima, la nega e confuta.
Epperò ambedue sono legate per essenza.

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La seconda vita è opposta alla prima e la reciproca opposizione connette essenzialmente le due vite quali poli in tensione unitaria e drammatica di un unico arco di realtà.
Per una legge paradossale, irrazionale e misteriosa, gli opposti coincidono in ogni punto del loro realizzarsi, sono complementari e si coappartengono, non sono separati mai, non sono distinti nel tempo.
Il nesso degli opposti autentici non è la successione nel tempo. Gli opposti autentici non sono in successione ma stanno assieme in ogni istante della loro esistenza. La successione è una deformazione della prospettiva del non sapiente. Eraclito censurò Esiodo per non avere capito che notte e giorno sono il medesimo evento.
Perciò questa vita e l’altra stanno l’una conl’altra esattamente nel senso che stanno l’una nell’altra.
La successione delle due vite è una maniera exoterica fuorviante di leggere il rapporto di reciproca costituzione e spiegazione. La separazione temporale è un difetto della prospettiva parziale umana.

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La storia dell’interpretazione del passo ha ruotato sul carattere del post mortem in esso indicato, se sia positivo o negativo, miglioramento o castigo, salvezza o condanna.
A tal proposito l’attenzione dei filologi si è appuntata sul verbo elpomai.
Significa sperare o invece aspettare? Si «spera» un destino positivo, mentre si «aspetta» anche la possibilità di un esito travolgente.
Per il pensare greco, è da tenere presente che il verbo è inscindibilmente ambiguo, il suo significato risale a prima che i due concetti di attesa e speranza si separassero e specificassero nella teologia.
La sua antica radice (per Chantraine, che segnala un digamma iniziale F, la semivocale u) è addirittura *wel, da cui volere latino, wollen tedesco, will inglese.

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Quando arriva la fine, arriva l’ora di una sorpresa che confuta e nega.
Una forza prevalente e sommergente si oppone. Entra l’opposizione e travolge.
Non è detto che l’opposizione sia male o bene, secondo che si è discusso a lungo fra gli studiosi; male e bene sono divisioni che appartengono allo stato esistenziale che muore e che viene negato e sommerso.

La sorpresa alla morte è di trovarsi di fronte il significato metafisico di ciò che abbiamo vissuto. Alla fine scopriamo che questo significato si è preparato lungo la strada intera accompagnandola in parallelo nella stessa maniera del filo di una tessitura complessa.
La struttura di questa vita implica che essa sia esposta alla confutazione e alla negazione.
Nessuno può evitare, diceva Plotino, l’ultimo combattimento. La tesi è antica almeno di otto secoli.

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Per la filosofia indiana, il tempo e l’eternità coesistono e sono le due facce dell’assoluto. Stanno assieme e contemporaneamente nell’essere assoluto. Per la Maitry Upanishadsono due poli della manifestazione di Brahmâ.

L’ignorante vede, angosciato, soltanto la temporalità e crede che non esista altro al di fuori del tempo. Non comprende che il tempo ha senso esclusivamente nello stare in rapporto essenziale con la definitività, con l’eternità.

Giuseppe Lampis


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