Verità anagogiche del Cristianesimo (da àtopon Vol. III)

(Traduzione dal francese di Annamaria Iacuele)

Gilbert Durand

“Resurrectio Cristi non est
proprie factum ordinis historici…”

Pio X  Lamentabili (1907)

Voglio riprendere un tema che mi è caro, al quale ho dedicato mezzo secolo di riflessione, in questo nostro terribile XX secolo, uno tra i più sanguinosi della storia: cioè la ferma denuncia dell’ipostasi della Storia e ipso facto il ritorno – e il ribaltamento! – a una definizione della verità meno angusta di quella, così unilaterale, lasciataci dal meccanicismo e dallo storicismo che ne è l’erede.

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Adorazione al trono del Signore – Apocalisse di Bamberg, foglio 10

Vorrei fondare la mia esposizione su due approcci paradossali.

Il primo consiste nel mettere la ricerca storica al servizio di una sorta di anti-storia, cioè al servizio di una demistificazione delle falsificazioni veicolate dalla storia. Abbozzare in qualche modo, come sto sognando da molto tempo, un’anti-storia di un’anti-filosofia! Il secondo consiste nel cominciare dalla fine per risalire verso gli inizi, e dunque nel mettere l’aratro davanti ai buoi, prendendo fermamente coscienza che il bue non esisterebbe – sarebbe rimasto toro! – senza l’aratro, proprio come l’aratro non sarebbe apparso senza il grano. Notevole ribaltamento prospettico delle nostre causalità freddolose e pigre!

Comincerò dunque con la nostra modernità, quella del secolo scorso, quella di tanti sconvolgimenti epistemologici, soprattutto nel campo che ci interessa – nella scienza religiosa cioè nelle (ma non amo affatto questo plurale!) Scienze dell’Uomo.

Nella seconda parte, risaliremo il corso dei secoli per vedere quali sono le radici, o almeno le connivenze, dei nostri moderni sconvolgimenti.

Nella terza, stabiliremo quale è il luogo proprio delle realtà nuovamente scoperte, cioè il Mundus Imaginalis.

Nella quarta, cercheremo di mostrare come a una pluralità della verità corrisponda una teoria ­ completamente dimenticata da tre secoli – della pluralità delle cause.

1. Le verità comprensive. Dal Verstehen alla Darstellung

Èsignificativo che Henry Corbin, alla ricerca di immediati antecedenti della sua ermeneutica filosofica, citi Wilhelm Dilthey, colui che ha scoperto (1883) un altro, completamente altro, orizzonte del sapere, quello delle Geisteswissenschaften, delle ‘scienze dello spirito’ che egli separa e oppone alle Scienze della Natura (Naturwissenschaften). Più precisamente la famosa formula: “nicht erklären, aber verstehen”, “non spiegare, ma comprendere” segna bene questa “divisione delle acque” in cui la Scienza dell’Uomo si disgiunge dalla consueta tutela delle spiegazioni scientiste. Notiamo di passaggio un punto (meglio sarebbe dire un nodo) storico: il 1883 è l’anno in cui appare l’Einleitung in die Geisteswissenschaft, l’anno in cui Wagner muore a Venezia, l’anno in cui il giovane Georg Simmel sostiene la tesi di dottorato; Diltey, Wagner, Simmel e più tardi Ferdinand Tönnies, Spengler, Max Weber, Troetschl, ecc. promuovono nelle ultime decadi del XIX secolo il grande rivolgimento della sensibilità e della “Visione del Mondo”da cui è direttamente sorta la nostra modernità.

Certamente questo fluire di riflessioni e teorie che mettono in questione l’unilateralità di una verità e di un metodo, è stato messo in disparte per lungo tempo – dai selvaggi dilaceramenti di due, se non tre guerre – nel pensiero francese. La maggiore opera di Spengler fu tradotta in francese (1948) solo trent’anni dopo la sua apparizione (1916-1920); quella di Diltey (1883) sessant’anni dopo (1942); quella di Weber (1921) quarantacinque anni dopo (1965)… Da qui, non soltanto un evidente ritardo del pensiero francese, ma una feroce opposizione culturale, se non razzista, nei confronti del pensiero proveniente dalla Germania. In Francia, non cessa ancora la “divisione delle acque” epistemiche. Forse si tratta di una divisione delle acque di due oceani, se si crede a Gusdorf, quello dei Lumi della Rivoluzione Francese che si oppone a quello del vecchio pietismo germanico.

Tuttavia, bisogna segnalare, anche in Francia, l’inarrestabile penetrazione delle epistemologie della comprensione. Nel dominio delle scienze religiose, che qui ci interessa, e accanto a Corbin (che è stato, non dimentichiamolo, uno dei primi traduttori di Heidegger), che si oppose alla “tragedia” (parola di Corbin) dello storicismo bultmanniano, una pleiade di specialisti delle religioni, sia protestanti (J. Wach, R. Otto, N. Söderblom, ecc…) che cattolici (E. Castelli, H. Bouillard, C. Colpe, J. Vidal, J. Ries, ecc…), adotta, in fondo, il pluralismo epistemologico diltheyano. Questi studiosi postulano fermamente che esiste un ordine di verità altra da quella a-gnostica dello storicismo e del determinismo materiale: un ordine di gnosi nel senso etimologico del termine, cioè di doké(verità epifanica, cfr. Corano IV, 156).

Sottolineiamo che questa alterità della verità era già presente in Francia, dalla fine del XIX secolo, con l’intuizionismo di Bergson e l’ “immanentismo” di Maurice Blondel. Ma soprattutto intorno agli anni 50 e 60, con i lavori di G. Dumézil (1941-1948), di C. G. Jung (1941), con il Traité d’Histoire des Religions del 1949 di M. Eliade, con le opere di G. Bachelard (1955; 1961) e le famose e fondamentali opere di Corbin (Avicenne et le Récit Visionnaire, 1954; L’imagination créatrice dans le soufisme d’Ibn Arabi) viene avvalorandosi una teoria dell’alterità della conoscenza in opposizione al modello unico, eredità del razionalismo classico e della sua progenitura storicista. Per quel che riguarda direttamente il nostro proposito, bisogna citare qui Das Ende des Neuzeit del 1950 (vent’anni prima di Lyotard!) di Remo Guardini e  Histoire et Esprit del 1950 di H. de Lubac, in cui l’eminente gesuita, nella linea di Maurice Blondel, denuncia l’inflazione della fattualità storica.

Non è difficile mostrare, con Henry Corbin, ciò che una tale posizione, che afferma i fondamenti pluralistici della verità, ha in comune con la Darstellung (la mostrazione) romantica di Schleiermacher, di Schlegel («Deus est in se, fit in creaturis »), di Novalis («Lo Spirito Santo è per noi più della Bibbia »), di Fichte che afferma l’indipendenza del Cristo e del Gesù storico.

La nostra modernità più contemporanea e il suo immediato passato romantico sfuggono al diktat della verità unilaterale, dell’unico metodo ‘esplicativo’ sorto dapprima dalla riduzione cartesiana e in seguito amplificato dallo storicismo (che è necessario differenziare dallo storicismo dei discepoli di Diltey, Troetschl e Spengler) sorto dal positivismo.

2La tesi della pluralità dei sensi

La Gerusalemme celeste e l'Agnello Miniatura del 1400 circa, Bibliothèque Nationale, Parigi
La Gerusalemme celeste e l’Agnello
Miniatura del 1400 circa,
Bibliothèque Nationale, Parigi

Bisogna dunque risalire ancora un po’ di più verso il bue! Si incontra allora, tra gli altri, nel XVIII secolo l’esperienza veramente ‘paolina’ (che cioè non poggia altrimenti che su di un avvenimento visionario) di Emmanuel Swedenborg. Per quest’ultimo, caro allo spirito di Corbin, ci sono tre cieli o tre sensi della Parola divina. Il primo è detto esterno: è ciò che chiameremmo il significante letterale o il fatto di un racconto, sia pure storico. Il secondo è l’esegesi del significato del precedente, ne esplicita il senso. Il terzo infine, il Cielo Celestiale è il fondatore esoterico degli altri due, ciò che Lubac e Blondel chiamano l’ospite segreto, e che l’ermeneutica islamica chiama il segreto del segretobtin, al-btin.

Ma questa teoria dei tre sensi del sapiente svedese del XVIII secolo si radica, ancor più a monte di Cartesio e di Galileo, presso i platonici e i cabbalisti – sia pure cristiani! – del Rinascimento di cui Pico della Mirandola è il paradigma.

Non a caso troviamo ancora sulla nostra strada H. de Lubac che nel 1974 ha consacrato a Pico una monografia (‘apologia sproporzionata? dichiara con irritazione Urs von Balthasar). La cerca dei ‘cabbalisti cristiani’, e dunque di Pico, sul modello della Cabbala ebraica, rivela l’innalzamento ‘appassionato’ (secondo la parola di H. de Lubac) della lettera del racconto della Storia Santa, verso una verità sigillata, oltre che nelle parole e nelle frasi, nelle lettere, di contatto con l’interiorità che si fonda proprio sul silen illuminando il letteralismo stesso attraverso procedimenti gematrici, fino a far apparire e coincidere il Cristo cosmico con quello del racconto della Storia Santa.

Se nella straordinaria effervescenza intellettuale del Rinascimento una tale teoria ha potuto collegarsi con ciò che Pico, Roechlin, Postel scoprivano presso i dottori ebrei, il principio dei molteplici strati della verità è ancora molto più antico. H. de Lubac ha consacrato un libro alla Esegesi medioevale: i quattro sensi della Scrittura (1959). Questa ‘tecnica’ di esegesi che in effetti era corrente nel XIII secolo, distingue nettamente quattro sensi della scrittura che bisogna qui richiamare brevemente.

–  littera o sensus historicus, che non ha bisogno di ulteriore definizione.

–  allegoria (Corbin ne denuncia la confusione troppo frequente con il quarto senso: anagogia) fondata sul procedimento illuminante della metafora, abituale nelle parabole evangeliche.

–  moralis che è la lezione morale che si trae dai due sensi precedenti.

–  anagogia che trascende i tre primi sensi e si definisce come ‘Quid speras’, ‘ciò che speri’ (ricordiamo che la divisa discreta di Henry Corbin era la citazione del Vangelo del Centurione (Mt VIII, 13) ´Fiat tibi sicut credidist’ (ti accada secondo quanto hai creduto). Formidabile affermazione che fonda un ordine di verità e anche, ne riparleremo, un ordine di causalità su ciò che i buddhisti chiamano ‘la potenza del voto’, sull’intenzionalità della Fede stessa. Il suffisso ana che significa ‘in alto’ (opposto a cata) implica una risalita dei tre primi sensi situati quaggiù, verso un senso celestiale (come dirà Swedenborg): tecnica islamica del Twil (riconduzione) alla quale Corbin era perfettamente iniziato. Vogliamo sottolineare che la nozione di anagogia sembra essere stata utilizzata per la prima volta da Dionigi l’Areopagita, essa è la riconduzione inversa dell’emanazione creatrice, è la carta della deificatio. A tale proposito sono fecondi i ‘paragoni’ tra il Cristianesimo medioevale e l’Islam. Il perfezionamento della teoria islamica dei molteplici lumi, può anche illuminare un cristianesimo che ha progressivamente abbandonato ogni procedimento ermeneutico. In Semnni ad esempio la Storia Santa è interamente interiorizzata ed è costituita da sette tappe o gerarchie di Luce che significano le stazioni profetiche dei «Sette profeti della tua anima» (Adamo, Noè, Abramo, Mosé, David o Salomone, Gesù, Maometto…).

Nella storia del Cristianesimo, Corbin e Lubac (il quale nel 1950 consacra un libro, Histoire et Esprit, all’apologia di Origene), ritengono che Origene, il celebre teologo alessandrino del III secolo, sia il fondatore dell’interiorizzazione della storia, cioè dello sdoppiamento del senso delle Scritture.

Qui bisogna rigorosamente distinguere tra avvenimento fondatore (o ‘proclamato’, in greco kerygma) e ‘fatto diverso’ storico (l’errore di Bultmann risiede in una confusione del kerygma e del ‘fatto’ storico che egli oppone al dire ‘mitico’, secondo lui sprovvisto di realtà ‘positiva’, cfr. Kerygma and Mythos, 1953). Distinzione che Luigi Giussani, malgrado l’acuità del suo sentimento dell’avvenimento, non sottolinea abbastanza. Naturalmente l’avvenimento è ‘stupore’, ‘incontro’, ‘compagnia’ – aggiungiamo anche, secondo un bel titolo di George Steiner, ‘reale presenza’ – ma la proclamazione, il carattere kerygmatico che lo segnala è totalmente estraneo alla storia che è catena unidimensionale di cause e di effetti ‘positivi’. La storia non è che una sintassi causale di un racconto, non può mai far apparire e ‘comprendere’ il miracolo di un kerygma. Il rimprovero di non ‘tagliare’ tra immanenza naturale e grazia soprannaturale, che Massimo Borghesi (in «Trenta giorni nella Chiesa e nel mondo», n. 1, Gennaio 1993) fa a Lubac e Blondel, si rivolge facilmente contro questo ‘taglio’ neoscolastico, cioè tomista: il kerygma (avvenimento nel senso giussaniano) è grazia imprevedibile che si deve assolutamente separare, ‘tagliare’ tanto dal sillogismo della ragione che dal sermo historicus, cioè dal prevedibile, dal deducibile. L’avvenimento è meta-storico, sebbene antropologico, come Blondel lo definisce, è – diremmo in termini di epistemologia contemporanea – ‘a-causale’. Ne risulta che questo avvenimento ha bisogno di un luogo proprio antropologico, di un luogo che sfugga al tempo fisico newtoniano, come lo rivendicava già Bergson e che sfugga anche allo spazio omogeneo euclideo.

3. L’Immaginale come luogo proprio dell’avvenimento

Dopo il preromanticismo, dopo le estetiche di Baumgarten, di Burke, di Hutchinson e soprattutto dopo la definizione dello ‘schematismo trascendentale’ di Kant, si presentiva esistere dietro ‘le forme a priori’ della percezione, come dietro le categorie dell’intelletto, (anche se solo come termine medio necessario al legame tra le sensazioni e le concettualizzazioni) un luogo proprio in cui la rappresentazione prendeva una certa realtà e in cui le realtà naturali prendevano, per così dire, un ‘corpo di rappresentazione’. Tale era già il ‘senso estetico’ presso i preromantici, tale era il ruolo dell’immaginazione presso Kant. Ma, dobbiamo ricordare che ai nostri giorni è stato Henry Corbin a riscoprire, a far risorgere l’Imaginatio Vera. Quest’ultima – alla luce della filosofia degli intermediari nell’Islam sia sufista che sciita – è radicalmente immaginazione creatrice di realtà e di valori, e anche ‘terra celestiale’ in cui si spiritualizzano i corpi e prendono corpo, si incarnano, le intuizioni immaginarie. Queste qualità creatrici e realizzatrici permettono di chiamare questi mondi immaginali l’Immaginale, differenziandoli in tal modo dalle semplici fantasie (Coleridge). Henry Corbin è stato colui che ha esplorato più a fondo questo ‘mundus imaginalis’, mondo degli intermediari tra le istanze celestiali e il quaggiù.

Ma poiché abbiamo, con qualche malizia, deciso di seguire un piano ricorrente, dobbiamo soffermarci sulle antiche sorgenti di questa modernità, e soprattutto sulle sorgenti cristiane, rare invero, e rare perché spesso occultate.

Al di qua del XVIII secolo di Swedenborg e degli Illuministi, bisogna sottolineare la filosofia dell’immagine quale riemerge dai famosi Esercizi Spirituali (1548) di Ignazio di Loyola. Certamente Ignazio non è né un filosofo, né un teologo, ma il suo raro trattato è un vero ‘trattato della contemplazione immaginale’. Dalla prima settimana di Esercizi l’immaginazione nel suo insieme (visiva, auditiva, olfattiva, gustativa, tattile) è mobilitata per la ‘contemplazione’ dell’Inferno; nella seconda settimana è mobilitata, in maniera ugualmente totale, per la ‘contemplazione’ dell’Incarnazione, della Natività, della Fuga in Egitto, ecc… Il manuale di immaginazione visionaria prosegue per quattro settimane. Certamente l’adozione che i Gesuiti hanno fatto nella Ratio Studiorumdella pedagogia tomista, dunque in parte peripatetica, ha fatto sì che l’Ordine perdesse di vista le prescrizioni minuziosamente ‘immaginali’ del suo fondatore. Ma bisogna ricordare che l’Ordine, che avrebbe acquistato un così grande prestigio, voleva essere innanzitutto ‘compagnia’ (‘incontro’ direbbe Luigi Giussani!) di Gesù, proprio come due secoli prima Johann Tauler e Rulman Merswin si erano dichiarati Gottesfreundschaft ‘Amici di Dio’.

Già un secolo prima, nel XIII secolo, proprio l’opera di un Dottore della Chiesa, Doctor Seraphicus, Generale del potentissimo Ordine dei Francescani non è stata forse progressivamente offuscata, potremmo dire schiacciata, dalla famosa Summa del domenicano Tommaso d’Aquino? E tuttavia l’Itinerarium mentis in Deum di Bonaventura, itinerario verso la ‘soavità della contemplazione’, è una delle carte di ogni filosofia dell’Immaginale.

La natura intera, ma anche la Storia Santa – la Bibbia – in quanto creature sono segni del Creatore. Ogni creatura è, certamente, deficienza, ma in questa deficienza c’è un’irradiazione del Creatore. Ogni creatura ­ anche gli Angeli ­ è contaminata dalla materia, ma in ogni creatura c’è nostalgia, potremmo dire, ricordo del Creatore. Non c’è dunque autonomia dei mondi, e specialmente autonomia della ‘fisica’, che in Tommaso d’Aquino ha in se stessa il suo principio di esplicazione. Per Bonaventura c’è una non-separabilità generalizzata tra il grado più decaduto della creatura in cui dimora una semplice vestigiadel Creatore, passando per l’immagine di Dio di cui è capace l’anima umana – attraverso l’Intelletto agente che è nella creatura umana – fino alla somiglianza con Dio che dà ai santi la Sua grazia. La deificatio di Dionigi e di Eriugena – cioè platonica – è resa possibile a tutta la creazione. Non dobbiamo fraintendere: la sete di verità, l’itinerario è uno, ma le sue modalità, le sue stazioni sono molteplici, contrariamente al ‘metodo’ cartesiano (nato, come ha ben mostrato Gilson, dall’aristotelismo di San Tommaso) che è unilaterale, applicato a tutti gli oggetti possibili.

Questa dottrina non è senza qualche ‘somiglianza’ con le ‘monetazioni’ dell’Assoluto dei mondi gerarchizzati della Cabbala ebraica – contemporanea di Bonaventura se si crede a Gershom Scholem – la cui scala delle Sephiroth sale e discende, attraverso dei ‘canali’, tra Kether, (la corona) e Malkuth (la madre terreste, la Knesseth Israêl ). Inoltre evoca stranamente in qualche modo tutta la tradizione di Avicenna – cara a Corbin – in cui i dieci mondi sono governati da dieci angeli e in cui l’angelo del nostro mondo sub-lunare è Gabriele, arcangelo dell’Umanità, cioè delle creature capaci di conoscenza e di rivelazione.

Non c’è altro ‘itinerario’ di conoscenza che quello che, attraverso le soavità della contemplazione, guarda al fondamento rivelato della verità. Non esistono ‘itinerari’ indipendenti: ogni verità si ordina in rapporto alla verità ultima. Un essente – si potrebbe dire in termini heideggeriani – non è ciò che è, se non in virtù della conversione che lo volge verso il Principio Supremo di cui egli mantiene il segno e di cui riceve gli effluvi della Grazia.

Prima bibbia di Carlo il calvo (scene della vita di san girolamo) Parigi, Biblioteque Nationale
Prima bibbia di Carlo il calvo
(scene della vita di san girolamo)
Parigi, Biblioteque Nationale

Questa dottrina chiamata ‘esemplarismo’ sarà stata inevitabilmente, come necessario, esagerata dai discepoli del maestro: Matteo d’Acquasparta, Jean Peckham; comunque l’esemplarismo francescano bagnerà uno dei più prestigiosi ‘bacini semantici’ che hanno irrigato l’Occidente cristiano. L’essenza della verità vi è definita come una declinazione, in qualche modo, della facoltà accordata all’uomo di immaginare. Vestigia, immagine, rassomiglianza sono i testamenti della divina verità.

Il paradigma storico – cioè nella storia del Cristianesimo – di questa contesa è stata la famosa disputa degli Iconoclasti che, nell’VIII secolo, inizialmente oppose l’Imperatore bizantino Leone III l’Isaurico al papato, e soprattutto a Giovanni Damasceno. Tutta la contesa dei secoli futuri tra un’astrazione deista e razionalizzante e la riconduzione attraverso l’icona a un ‘altrove’ di questo mondo, è in germe in questo confronto tra il potere temporale dell’Impero e l’accesso spirituale attraverso l’icona. Per Giovanni Damasceno, come cinque secoli più tardi per Bonaventura, l’icona è questa immagine intermediaria tra la semplice suggestione della testimonianza e l’impronta diretta della sacro-santità.

Come mostra benissimo Bruno Duborgel nel suo libro Icône, art et pensée de l’invisibile, gli iconoduli – i difensori dell’icona – si situano nella giusta prospettiva del platonismo del Fedro, del Simposio, trasmessa da Plotino, quindi da Dionigi l’Areopagita, Gregorio di Nissa, Basilio di Cesarea e Gregorio Nazianzeno.

Certamente le estetiche, léggi le etiche, nate dal trionfo degli iconoduli o dal trionfo dell’esemplarismo francescano saranno differenti. La prima – quella dei monaci di Bisanzio – è più fedele alla liturgia trasfiguratrice dell’immagine santa, la seconda – quella dei frati minori del Poverello – è più aperta a ‘Madre Natura’, alla mimesis. Si deve tuttavia ugualmente constatare che un posto primordiale è dato al ruolo anagogico delle immagini che riconducono – in maniera diretta a Bisanzio, indirettamente nella cattedrale gotica – alla contemplazione del Creatore. Si vede bene, sulla base di questi eclatanti esempi, quanto il principio creatore nella natura, come l’Intellectus agens nell’uomo, cioè l’immaginazione creatrice, sia il luogo fondamentale e necessario di ogni verità. Ma paradossalmente per realizzare questa unità trascendente del vero, bisogna abbandonare il totalitarismo forsennato di una causalità ‘unica’, ma separata da ogni intenzionalità trascendente, e ritornare a un complesso di cause differenti.

4La complessità delle cause. Dal semantismo all’eziologia.

Conosciamo attraverso Aristotele le famose dottrine delle quattro cause: la motrice o efficiente (il martello e lo scalpello dello scultore), la  formale(l’idea della statua), la materiale (il marmo o il bronzo) e la  finale (la statua realizzata). Molto presto (dal 300 a. C.), mentre il pensiero aristotelico è esiliato ad Alessandria per ragioni politiche (Aristotele era un meteco macedone), Atene ripudia la tradizionale pluralità aristotelica. Per esempio Stratone di Lampsaco tenta di ridurre tutto a una causa motrice prima: la pesantezza, preludendo così al meccanicismo di Galileo, di Cartesio o di Newton.

Tuttavia questa molteplicità di cause rimane in molte dottrine ‘tradizionali’. La Cabbala ebraica considera le 10 istanze divine che tipificano le Sephiroth come cause. Zen ben Simon Halévy, cabbalista nostro contemporaneo, mostra come un’automobile nella sua natura e nel suo funzionamento risponda a dieci tipi di causalità ! In altre parole alle dieci stanze del divino, corrispondono dieci determinazioni diversificate. L’unità trascendente del vero, come abbiamo detto, necessita per manifestarsi di una pluralità di determinismi e di intenzionalità. Al contrario dell’unidimensionalità della causa unica (ad es. la dissimmetria della causalità  motrice che riduce ogni spiegazione alla spiegazione temporale attraverso l’antecedente) il famoso post hoc… che fonda ad un tempo le concatenazioni causali del meccnicismo e la spiegazione storicista.

L’Universo della Creazione, a livelli molteplici non è più orientato, come in Giovanni Damasceno o in San Bonaventura, da un solo desiderio, per così dire; si frammenta in mattoni infiniti il cui solo modello è l’urto delle palle da bigliardo e la pesantezza dei pesi dell’orologio. La trascendenza – cioè la presenza dell’altro – è esclusa, ridotta allo schiocco iniziale di un universo in cui tutto si spiega attraverso l’identificazione con il medesimo. La scienza, il vero sapere è, attraverso il suo metodo unico ed esclusivo, separato da ogni altro ordine di causalità e di conoscenza.» già ciò che Acquasparta e Peckham rimproverano al tomismo: una catabasi totalitaria, storicista, scientista, a-gnostica.

Assistiamo, ai giorni nostri, con l’enorme rivoluzione del Nuovo Spirito Scientifico e delle epistemologie che ne conseguono, con l’esplosione del meccanicismo classico e dei suoi corollari (lo spazio euclideo omogeneo e indefinitamente divisibile e il tempo newtoniano formale e dissimmetrico), a un vero rivolgimento (e di conseguenza ad alcuni ‘ritorni’ filosofici) della teoria del metodo unico di spiegazione di ogni fenomeno attraverso l’analisi riduttrice alla causa meccanica.

Segnaliamo soltanto, come riferimento, come sia esplosa la nozione stessa di ‘attrazione’, modello del meccanicismo newtoniano, in ‘attrazioni’ molteplici, secondo parametri indipendenti da quelli stabiliti da Newton (quadrato delle distanze e quadrato delle masse) quale l’ ‘elettricismo’ di Coulomb, Faraday, ecc., quali le ‘forze di coesione’ intra-atomiche, ecc. O ancora, in alcuni fisici di punta, la sostituzione dello schema di Hume del post hoc che utilizza la consecutività dell’antecedente e del conseguente, con uno schema – quello delle correlazioni E. P. R. sperimentato da Alain Aspect e Olivier Costa de Beauregard (per sostituzione delle catene di Jordan a quelle di Markov) – che installa, per così dire, la transizione quantica in un altrove fuori dello spazio-tempo della fisica classica. La biologia non rimane indietro rispetto a questi capovolgimenti della nozione classica di causalità unica e, in un vasto ritorno al vitalismo, rimette in circuito ‘forme causative’ le quali hanno bisogno, anch’esse, di un altrove (H. Waddington, R. Sheldrake, ecc…).

Ma bisogna purtroppo constatare anche l’enorme ritardo della Filosofia e della Teologia moderna rispetto a queste svolte del Nuovo Spirito Scientifico. Malgrado tutti i ‘modernismiî’ di cui affannosamente si piccano, esse rimangono legate sempre al modello decaduto (e recente, nello sviluppo del Sapiens; appena due o tre secoli…) della spiegazione a-gnostica attraverso la causalità efficiente, attraverso la riduzione del sapere alla sola ‘spiegazione’, contro ogni slancio di sapere ‘comprensivo’ della Scienza dell’Uomo. Contro anche – per quel che concerne la filosofia che si dice ‘cristiana’ e la sua teologia – le verità canoniche, non soltanto delle Scritture, ma anche della Fede.

E inoltre, anche se si rimane soltanto alle teorie medioevali dei quattro sensi, delle quattro letture possibili delle Scritture, bisogna fare una constatazione dirompente.

–  a) Il Sensus historicus è il più fragile, il più contestabile nel cristianesimo. Innanzitutto perché – contrariamente alle altre ‘Genti del Libro’ – il cristianesimo non ha a sua disposizione l’espressione di un testo in una lingua rivelata. Attraverso il greco ci viene trasmesso un messaggio tradotto per lo meno dall’aramaico e dall’ebreo… La traduzione latina nella Vulgata di San Gerolamo è stata per quindici secoli il supporto della riflessione testuale… Ecco perché – se c’è una ricca, cioè pletorica ‘storia del cristianesimo’ a partire dal primo secolo, diciamo a partire da Nerone – non c’è invece alcuna storia cristica. Nessuno dei grandi storici contemporanei del primo secolo della nostra era, come dei possibili contemporanei di Gesù, riferisce l’avvenimento fondante, il kerygma. Né Flavio Giuseppe, giudeo romanizzato, amico di Vespasiano, collaboratore di Tito (a parte la riga certamente aggiunta delle Antichità XVIII, 3, 3), né Tacito, né Svetonio segnalano l’evento cristico. San Paolo, il fondatore, per così dire, della storia del cristianesimo, parla di Cristo soltanto attraverso la sua esperienza visionaria o per sentito dire.

Anche ai giorni nostri Bultmann – per una volta allineato su San Pio X! – lo spregiatore di ogni interpretazione diversa dalla ‘storica’, il ‘demitologizzatore’, è obbligato a collocare la Resurrezione al di fuori della storia, in un altrove che sfugge alle nostre cronologie entropiche e mortali.

–  b) Il Sensus allegoricus dei testi evangelici è, al contrario, molto ricco. Il processo, così corrente nell’antichità, della favola, della ‘parabola’ costituisce una grande parte del libro. Gesù ha avuto cura di indicare (Lc VI, 1-5; Mt XIII, 10-15; Gv IX, 39-41) che questo genere allegorico è soltanto per i cuori induriti, di coloro che hanno orecchie, ma intendono male. Ma questo tipo di evocazione del senso è come un tessuto costante nei quattro Vangeli canonici. Citiamo all’interno di questo florilegio soltanto le allegorie più famose: il Fico sterile, la Vigna e gli operai, la Pecora smarrita e il Buon Pastore, il Buon Samaritano, il Levita, il granello di senape, l’Intendente astuto, il ricco insensato, le Spighe strappate, la Gramigna, il Vino e i vecchi otri, ecc…

–  c) Il Sensus moralis è il cuore esplicito e diretto di quasi tutte le prediche di Gesù, talvolta accompagnato da un’illustrazione allegorica. è spesso un semplice commento della Legge (Mt V, 17-20): contro l’adulterio, contro il divorzio, contro i giuramenti, contro la vendetta, per pregare bene, digiunare bene, fare bene l’elemosina in segreto… Le più celebri prescrizioni morali sono naturalmente le «Otto Beatitudini» (Mt V, 3-12; Lc VI, 20-26).

–  d) Il Sensus anagogicus è quello che assumerà, tra tutti, un’importanza fondamentale nei Vangeli e nel destino del Cristianesimo.

I testi evangelici stessi usano tutte le precauzioni per separare il buon grano del senso celestiale dalle possibili confusioni con la lettera e il philumtemporale. Non soltanto la Resurrezione – fondamento della fede cristiana – è per definizione fuori del mondo della generazione e della corruzione, ma anche tutti i miracoli – tra cui la resurrezione di Lazzaro – sono gli annunci, i ‘segni’ della fine del temporale, al di fuori dell’entropia della storia e Gesù stesso afferma continuamente, con la sua bocca, la differenza tra il senso celestiale della Buona Novella e il ‘secolo’.

L’episodio del ‘tributo a Cesare’ (Mt XXII, 20-21; Mc XII, 15-17; Lc XX, 24-26) costituisce certamente l’affermazione più conosciuta della separazione delle famose ‘due città ’ (Sant’Agostino) ma c’è un gran numero di passaggi evangelici in cui è affermata la ‘separazione’ tra il ‘secolo’ e il Reame, tra l’alto e il basso (cfr. Gv VIII, 23), tra la famiglia positiva dei ‘fratelli e sorelle’ e la vera parentela di coloro che fanno la volontà di Dio (Mc IV, 35-36; Mt XII, 46-50; Lc XI, 27-28).

Ancora più interessanti sono le genealogie (Mt I, 1-17; Lc III, 23-38) di colui che era creduto figlio di Giuseppe e che attraverso questa affermazione volgono in ridicolo la genealogia stessa. Decisamente ‘il Reame’ non è di questo mondo, e la venuta del reame non si lascia osservare (Lc XVII, 20-21).

Vanno intesi secondo lo stesso ‘senso anagogico’ tutti i racconti apparizionali, tutti quelli dei Vangeli e specialmente le apparizioni del Cristo risuscitato alle donne, ai discepoli di Emmaus, a Tommaso e agli apostoli, a Saul sulla strada di Damasco e anche le apparizioni mariane che scandiscono da molti secoli la spiritualità della cattolicità.

Tutte queste apparizioni hanno un tratto comune: l’agente dell’apparizione, Gesù o Vergine Maria, non è immediatamente riconosciuto. è ciò che potremmo chiamare ‘l’effetto Emmaus’. Ma questo non riconoscimento di Tommaso o di Bernadette è il segno della trasfigurazione del corpo mortale in ‘corpo di resurrezione’ come dice Corbin, in ‘corpo celestiale’. La Visione miracolosa è il segno dell’anagogia, si colloca  hic et nunc fuori dello spazio-tempo mortale, è affermazione e conferma della realtà di un Mundus Imaginalis.

Non si colloca anche in questa meta-storia, specialmente nel cattolicesimo romano, la realtà sacramentale? Ciò è assolutamente chiaro nell’Eucarestia, che non è soltanto ‘transustanziazione’ del pane e del vino, ma egualmente ripetitività piena ‘per i secoli dei secoli’, dunque meta-storica, del racconto dell’Ultima Cena. L’avvenimento si distacca dunque totalmente dal ‘fatto diverso’. E né il dotto Renan che si ferma alla piatta esegesi dei ‘fratelli del Signore’, né il Commissario di Polizia di Lourdes che cronometra, orologio alla mano, il ‘raptus’ di Bernadette, né l’Inca che assistendo ad una Messa conclude che il dio dei cristiani era soltanto un ‘biscotto’, né la pia puerilità di alcuni storici della Bibbia o dei Vangeli, che allestiscono spedizioni per ritrovare i resti dell’Arca di Noé sul monte Ararat o i gradini di granito attraverso i quali il Cristo è ‘disceso nella Storia’ (sic!), colgono la verità del senso. Si lasciano tutti bloccare dalla piatta apparenza della lettera.

Conclusioni

Come concludere questa esposizione che si è divertita ad essere storica, volendo chiaramente mostrare che la nostra più recente modernità cognitiva (quella dei filosofi delle Scienze dello Spirito, quella delle teologie di molti nostri contemporanei – Lubac, Guardini, Blondel, Corbin, Eliade ecc. – quella della gigantesca rivoluzione delle epistemologie post-relativiste e post-quantiche) è stata un’insurrezione generale contro il ‘modernismo’ e soprattutto contro il meccanicismo e lo storicismo del secolo passato?

Di fronte al fallimento di quest’ultimo e delle sue apocalittiche eredità, davanti alla visione del mondo più attuale che è ad un tempo olistica, sistemica, a-causale, è ormai tempo che le Chiese che si rifanno al Kerygma cristiano discernano bene ciò che appartiene a Cesare e ciò che appartiene a Dio. Nessuno dei ‘misteri’ appartiene alla storia, l’homoiousia non è l’alleanza con Cesare. Il pontificato cristiano non è un califfato temporale.

Ogni cammino fondamentalmente cristiano consiste innanzitutto nel discernere ciò che è soltanto la ‘lettera’, il sensus historicus da ciò che è esigenza anagogica, necessità interiore e superiore di una riconduzione, di un itinerario verso un Altrove tuttavia ‘dentro di noi’, in questo ‘Reame’ molto concreto della Terra Celeste dell’Immaginale. Come dice San Paolo ci è chiesto «di rivestire l’immagine celeste» (Cor XV, 4a), per «riprodurre l’immagine del Figlio» (Rm VIII, 29). Ogni cammino fondamentalmente cristiano consiste quindi nell’insistere proprio su questa argilla adamica che ha incorporato la divinità, sull’homoiousia dell’anthropos e di Dio che è perfetta. Il Cristo è «l’icona di Dio» (Cor IV, 4), «immagine del Dio invisibile» (Col I, 15), «il visibile dell’Invisibile» (Giovanni Damasceno, I Trattato delle Icone XI), ecc…

La ‘verità instaurativa’ della religione cristiana non si fonda sul modello delle verifiche storiche del secolo, più di quanto non si fondi sulle deduzioni della ragione; essa è riconduzione (anagogia) attraverso l’intera Creazione all’immagine ‘prototipo’ che è, essa stessa, l’immagine del Padre.

Gilbert Durand


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