Il terzo volume di «Átopon» è dedicato alla capacità simbolica vista quale caratteristica essenziale dell’Uomo che è sempre ad un tempo homo symbolicus e homo religiosus.
L’articolo di Gilbert Durand riassume le conclusioni di una ricerca più che trentennale dello studioso dell’Immaginario e vuol essere una definitiva denuncia del meccanicismo univoco e unilaterale e del piatto storicismo, suo erede, che dominano le visioni più anguste del nostro secolo. G. Durand propone invece, con Henry Corbin e Henry de Lubac, una visione che ponga maggiore attenzione al significato del fatto storico e ne espliciti il senso.
Al senso ana-gogico, il quarto senso di ogni scrittura e il più ricco, secondo la tradizione medioevale, è affidata, per lo studioso, quella elevazione del senso che può essere data dalla fede («Fiat tibi sicut credidisti», Mc VIII, 13). È la fede che fa sì che l’uomo, spinto da una necessità superiore, inizi nel profondo della sua anima un itinerario verso quell’Átopon, che è sempre “Altrove”, ma anche contemporaneamente nell’uomo stesso, e sappia così cogliere il miracolo dell’evento nel semplice avvenimento storico e riconoscerne il divino.
Ogni simbolo è infatti una ierofania, una manifestazione del legame tra uomo e sacro, come dice Jacques Vidal il quale colloca all’origine del senso spirituale del simbolo l’espressione, assolutamente particolare, del sacro. Ed il sacro è un dato irrinunciabile della condizione umana, una modalità di esistenza inerente all’uomo e che fa parte del suo progetto di interezza, che è quello di trascendersi e di guardare al divino, verso un topos dell’Altrove assoluto, un kairós che sia pegno e promessa di eternità.
Ogni cosa è per l’uomo simbolo, anche il numero. Lima de Freitas ne esplora il senso profondo e la caratteristica di essere modello formale e ritmico dell’energia psichica, principio strutturante. Il numero introduce nella massa vivente (miscuglio di elementi istintivi, sensoriali, mnestici) e nella vita dell’inconscio ordine e chiarezza, costituendo un ponte tra le proprietà della materia e i processi ordinati dello spirito.
L’autore si sofferma in particolare sulla cifra simmetrica 515 (la misteriosa sigla con cui Dante designa il Messo di Dio che salverà il mondo) e, attraverso un ampio studio che prende avvio dal linguaggio ierogeometrico degli Egiziani, ne rivela il senso profondo di simbolo della Divinità e dell’Incarnazione.
Ogni qualvolta ci imbattiamo in vestigia umane, sin dai primi albori, incontriamo un uomo che vive in maniera simbolica, un uomo che rimane impressionato emotivamente dal mondo che lo circonda, dallo splendore della volta celeste, dagli astri, dagli spazi siderali che gli comunicano il senso della trascendenza, della forza divina, dell’immortalità.
La volta celeste e la terra sono simboli primordiali attraverso i quali l’uomo accede al mistero fondamentale degli uomini e delle cose.
Julien Ries, ci fa scoprire, a partire dalle tracce dei Sumeri e degli Egiziani dell’Antico Impero, il senso del simbolo della montagna sacra, quale congiunzione della terra e del cielo.
Il problema del rapporto tra itinerari della conoscenza e della salvezza è al centro dell’articolo di Giuseppe Lampis. Questo rapporto è rielaborato da un fenomeno di complesso valore, quale lo gnosticismo, che emergendo sulla soglia dell’era volgare ingaggia un’inquietante dialettica con le religioni popolari della salvezza.
Lampis indaga i nessi interni che legano le idee del messaggio gnostico e le riconduce a una metafisica della ribellione. Il nuovo ethos, che associa il rifiuto e la libertà, diverrà una delle componenti fondamentali della coscienza moderna.
Il mondo moderno è un’epoca di estrema secolarizzazione, in cui, venuti meno gerarchie e modelli di riferimento, il soggetto si erge a creatore e rivendica a sé una sconfinata libertà. Questa libertà, in un mondo che si è svuotato di significato, si rivela soltanto una condanna ad una corsa continua alla ricerca di senso, nel tentativo di placare un’ansia apparentemente immotivata. «La mancanza di significato impedisce la pienezza della vita – scrive Carl Gustav Jung – ed è equivalente alla malattia. Il significato rende molte cose sopportabili, forse tutto».
Quando il sacro è rifiutato, respinto, ci dice la psicologia del profondo, in particolare quella junghiana, quando la potenza della sua energia non diviene l’asse portante della vita dell’uomo, gli si rivolge contro in maniera violenta e distruttiva e l’uomo entra nell’inferno di una sofferenza cieca, senza speranza.
All’interno del problema delle possibilità e dei limiti del lavoro dell’analisi psicologica, in cui si muovono le riflessioni di Annamaria Iacuele e Maria Pia Rosati nell’articolo «La psicoanalisi e l’inferno», si sottolinea il rischio che la psicoanalisi, nel cercare soluzione all’angoscia dell’uomo, si fermi ad un esame, troppo angustamente circoscritto, delle problematiche del soggetto e in esse lo fissi. Se infatti si fa della vicenda umana il referente ultimo, si rischia di non riuscire più a riconoscere quella forza trascendente, insita nell’uomo, che sola può aiutarlo a dare senso alla sofferenza.
L’esperienza del sacro attraverso il vissuto del simbolo dà invece all’uomo la possibilità di sfuggire alla morsa del contingente, alla schiacciante ed opprimente pesantezza delle situazioni presenti, e gli permette di attuare una vera trasformazione creativa che dia slancio alla sua aspirazione spirituale.
È questo il messaggio di alcuni degli interventi del II Convegno Internazionale di Psicologia analitica e Psicoantropologia Simbolica (organizzato a Roma nell’Aprile del ’93 dall’Istituto di Psicologia Analitica e Psicoantropologia Simbolica Mythos) sul tema: Simboli della Trasformazione: L’uomo come tensione creatrice riportati nella sezione dedicata alle Voci congressuali.
Annamaria Iacuele