Editoriale Vol. VI

Annamaria Iacuele

Questo volume è dedicato agli opposti (bene/ male, luci/ tenebre, felicità /infelicità) e a scoprire se sia possibile per l’umanità intravvedere, a livello immaginativo, una via di salvezza che consenta di superare il dilaceramento dovuto a queste antitesi per giungere ad una sintesi che risolva i conflitti nell’unità della coincidentia oppositorum.

Il volume si apre con un articolo di Gilbert Durand sulle differenti accezioni simboliche del drago in Asia e in Europa.
In Occidente, il Drago, la cui immagine sommaria è quella di un grande rettile con artigli e con tratti del viso più o meno umani, è nella maggior parte dei casi un simbolo negativo, legato al male, al peccato, alla “mala morte”, alla femminilità nefasta di Eva. È dunque compito dell’eroe combatterlo e divenire un sauroctono.
Facendo astrazione al carico peggiorativo di cui è gravato il drago, vediamo come in Europa intorno alla radice indoeuropea “dark” e ai suoi eponimi, fiorisca una costellazione di immagini che gravitano attorno a tre poli: la chiaroveggenza, gli attributi acquatici saurici/ittiomorfi e tratti della femminilità lunare vicini alla fecondità. Questo stesso nucleo semantico presenta una completa inversione assiologica in Oriente e soprattutto nella vasta e perenne cultura cinese ove l’immagine imperialista del drago, confusa con il Cielo e il Figlio del Cielo, si carica di tutte le possibili influenze benefiche per la condizione umana (saggezza, equilibrio, giustizia, pace, prosperità).

Ma a che cosa sarebbe dovuto questo trattamento contraddittorio della figura del Drago in Oriente, e in Occidente?

Si tratterebbe, secondo Durand, di un fenomeno tipico del passaggio dal regime diurno a quello notturno (veglia/sogno) che comporta, come è ben noto agli psicologi, l’inversione delle voci passive-attive del verbo e dunque l’inversione dei ruoli. È precisamente ciò che accade quando si passa dalla cultura occidentale cristiana a quella cinese, separate da distanza geografica, gruppo linguistico, ceppi etnici, preistorici ed etnologici, orizzonti filosofici e religiosi. Gilbert Durand ha insistito in molti dei suoi lavori sull’appartenenza della cultura occidentale al regime diurno dell’Immaginario e più precisamente ai suoi caratteri “schizomorfi” (o diairetici) su cui pesano l’eredità della filosofia socratica, il monoteismo giudeo-cristiano e il patrimonio di pensiero delle lingue del gruppo detto indo-europeo. Il quadro culturale rappresentato dalla filosofia dualista socratico-platonica rinforzata dalla logica aristotelica del “terzo escluso”, dal monoteismo dell’essere che respinge come male il non-essere e il molteplice e da una falsa dialettica di tipo hegeliano (in cui ad una tesi sta un’unica antitesi) ha favorito in Occidente il mito e la cultura dell’Eroe che combatte e vince il mostro delle Tenebre e che ristabilisce la solidità dell’essere contro la molteplice perversità.

In Oriente invece predominano gli aspetti “sintetici” di un regime culturale notturno. Così nell’Oriente cinese l’immagine del drago è benefica e si arricchisce di tutte le ricchezze della molteplicità. Il drago assimilato al “Figlio del Cielo”, imperatore del quaggiù terrestre, al centro del mondo dei cambiamenti, è il modello della riconduzione all’ordine dei contrari che costituiscono la natura o la società (coincidentia oppositorum) come dello svolgimento temporale delle cose. Suo attributo essenziale è il movimento e egli assicura il buon andamento delle pluralità politiche, geografiche, antropologiche e del calendario.
Si fronteggiano così due visioni del mondo: una che salva l’essere-uno facendo a pezzi il drago, l’altra che si contenta di mettere in ordine cambiamenti e trasformazioni. Gilbert Durand sottolinea l’importanza di un approccio scientifico sincronico per illuminare i vasti orizzonti di così profondi periodi culturali nella speranza che culture fondate su valori antagonisti attribuiti all’archetipo comune del drago possano trovare un accordo per una felice e saggia fruizione del mondo, dimora e bene comune concesso all’umanità.

Al problema del male e della lotta contro di esso è dedicato l’articolo di Giuseppe Lampis su Il Mitraismo.
Stabilire legami con il male non vuole dire sottomettersi a esso; al contrario, si può combattere efficacemente il male solo incrociandolo in un contatto stretto e costringendolo entro delle regole. Il grande demiurgo si impone soprattutto come il supremo detentore della potestà regale e della ars regia, che è l’arte di manipolare vittoriosamente il male. Mithra, il mediatore, collocato tra il sole superiore e il sole inferiore (Cautes e Cautopates), celebra il trionfo della faccia diurna e vitale del sole su quella mortifera e notturna. Nato nel solstizio d’inverno si afferma nell’equinozio di primavera, tipico della mondanità trionfante. Non si tratta infatti della vittoria di un dio lontano, un deus otiosus, ma di un dio della vita attiva, di un combattente vittorioso che è nel mondo e lo governa, lo regge, lo salva. Questo dio-re, che presiede la funzione regale, immergendosi fattivamente nelle cose del mondo degli uomini, affrontandone le terribili fatiche e le conseguenti inevitabili battaglie, proponendo la mediazione, è un dio signore della morte il cui atto fondamentale è l’uccisione del toro cosmico. Ma il sangue può alimentare animali immondi e può salvare: è importante il senso che si imprime a questo stesso atto. Nell’incendio escatologico che affonderà il mondo, Mithra il Giudice farà risorgere tutti gli uomini: alcuni saranno giudicati definitivamente mortali, altri saranno resi immortali dalla più regale delle bevande, il vino, acqua di vita, simbolo del sangue del toro sacrificato.
L’ideologia mitriaca è vista come una esplicitazione del senso del conflitto paradigmatico e del grande problema delle potenzialità creative e salvifiche del gesto cruento correttamente orientato, problema che occupa il centro delle ideologie degli kshatriya, militari e governanti, depositari della funzione solare.

Il problema del Male e delle sue origini è il tema dell’articolo di Julien Ries che riferisce i temi agostiniani della lotta contro il manicheismo.
Nel mito dualista manicheo, alle origini coesistono due principi coeterni, ingenerati, due radici che hanno fondato due reami, quello della Luce e quello delle Tenebre. Situato in alto, il Regno della Luce è la casa del padre della grandezza nella quale il soffio dello Spirito spande luce e vita sui cinque elementi che costituiscono questo dominio e sui dodici spiriti. Ai confini e al disotto si situa il Reame delle tenebre costituito da cinque abissi sovrapposti, presieduti da cinque arconti dalle forme di demonio, di leone, di aquila, di pesce, di serpente. Mani condanna senza appello le cinque nature che abitano nella terra delle tenebre come “orribili e pestilenziali” e sviluppa una teoria delle emanazioni che saranno all’origine del cosmo, della Gnosi, dell’uomo e della salvezza.
Ma Agostino oppone al pessimismo radicale di Mani una confutazione dei fantasmi della setta nella quale integra la sua propria dottrina e quella della Chiesa cattolica che si basa su un senso simbolico delle realtà del mondo cosmico e del mondo animale, sul rifiuto del disprezzo manicheo per le creature e su un ottimismo relativo fondato sull’armonia della creazione del mondo ad opera di un Dio buono e onnipotente.

Anche l’articolo di Maria Pia Rosati è dedicato al problema del male, vissuto come sofferenza e dolore, e alle possibilità per l’uomo di giungere alla liberazione dalla sua terribile schiavitù.
Tutte le tradizioni religiose sottolineano come per raggiungere la liberazione dalla sofferenza e la vera salute/salvezza sia necessaria l’iniziazione ai misteri della vita e della morte, cioè aver compiuto il passaggio attraverso il dolore, lo smembramento, la morte e averli superati. L’uomo per il fatto stesso di esistere appartiene al cosmo, alla più ampia sfera del tutto e non può dunque esimersi dal contatto con la sofferenza e il dolore del mondo: sono proprio essi che gli rivelano la sua dimensione universale e spirituale sì che possiamo dire che l’uomo soffre perché è nel mondo. Il mondo è la rappresentazione del modo con il quale l’uomo esiste nel suo profondo e proietta le sue sofferenze interiori: la morte, l’abbandono delle cose, l’allontanamento degli altri, la fine. Dal dramma sviluppatosi nell’interiorità dell’anima e nelle sue arcaiche profondità nascono e si fondano l’inizio del tempo, l’avvio della storia, il dispiegarsi delle forme esteriori della cultura. Appropriarsi di questo dramma archetipale è impresa eroica consentita solo all’iniziato che ha raggiunto la pienezza del suo essere Uomo, il suo Sé. Non è invece possibile per l’uomo ordinario, non iniziato ai misteri della vita e della morte, che non esiste per sé stesso, ma fa parte del mondo e del vissuto di un altro uomo e ne subisce tutte le vicissitudini interne senza capirle e senza poter opporre loro alcuna resistenza.
Nella filosofia moderna tale tema è ripreso dalla teoria della infelicità di Hegel, secondo la quale la coscienza infelice riguarda proprio la dimensione universale e spirituale dell’uomo: è una figura dello Spirito e un evento della coscienza, la coscienza dell’altro.
Hegel, sostenendo che la felicità sta nell’estremizzare cioè nel portare fino in fondo l’infelicità, riprende l’antico tema del viaggio iniziatico agli inferi che, nella tradizione degli sciamani, comporta l’esperienza della rottura, della lacerazione, del dolore, realmente sofferti anche con lo strazio del corpo.
Dunque all’uomo non rimane che prendere coscienza del proprio destino, sopportarlo e amarlo. Se e in quanto vi riesce, egli diventa il destino stesso.

Il saggio di Albrile sull’estasi di Dinanukt e sul destino gnostico dell’anima tra Magi e Mandei ci porta al problema della salvezza, del destino dell’anima nell’aldilà, cioè alla possibilità di percorrere in questa vita, grazie all’esperienza escatologica iniziatica e alle tecniche estatiche, le vicende dell’anima dopo la morte e la realizzazione della propria palingenesi. Questa è infatti l’essenza della religiosità gnostica, una conoscenza delle “cose ultime” (i “novissimi”) che permettano all’iniziato di essere-nel-mondo, di convivere con il proprio destino (eimarmene) pur rimanendo separato da esso.
L’autore si sofferma in particolare sull’esperienza religiosa zoroastriana cui è peculiare il maga una condizione dell’essere umano in cui si realizza uno stato di “purità” che porta l’uomo ad entrare in comunione con gli Amesa Spenta, i “benefici immortali”. Colui che partecipa al maga acquisisce un potere magico, tramite il quale ottiene un’illuminazione, diventa un partecipe di una visione interiore non mediata e non trasmessa dagli organi corporei e di senso: egli vede con gli “occhi della mente” o della “sapienza”. L’iniziato che si è separato già in questa vita dal livello di esistenza corporeo e materiale, “conosce” nel viaggio estatico dell’iniziazione l’altro mondo, la realtà spirituale, poiché egli “vede” con gli occhi dell’anima e sperimenta quello che i molti affronteranno, spesso passivamente, nel  post mortem. La specifica finalità è di raggiungere il valore di “conoscenza della morte” proprio dell’iniziazione.

Ancora un’esperienza di visione estatica ci viene proposta nel breve saggio di Santaniello “luci e tenebre: antropologia ed escatologia in Plutarco” che abbracciando insieme il mondo dei “vivi” e quello dei “morti”, rivela una struttura del cosmo bipartita: in basso, un abisso avvolto nell’oscurità e densa di tempesta, da cui provengono gemiti di uomini, donne, bambini, animali; in alto, luci in rapido e vario movimento. Le anime, rappresentate da punti luminosi che emergono dalle tenebre, tentano di risalire dal profondo dell’abisso (il nostro mondo) sino al ciglio della voragine (la luna), ma solo poche riescono a stabilirsi saldamente e ad ottenere la completa purificazione dalle colpe uscendo dal “ciclo della nascita” ed evitando una nuova incarnazione. Dunque, conformemente alla tradizione pitagorica, il mondo che conosciamo è identificato con l’Ade e i castighi dell’oltretomba divengono rappresentazione delle sofferenze patite dall’uomo sulla terra. Plutarco ci offre anche una tassonomia della vita morale: tutte le anime sono partecipi del nous; ma alcune sono travolte dalle passioni e completamente sprofondate nel corpo; di altre, meno condizionate dalle passioni, emerge dal corpo solo la parte più pura; solo le menti degli uomini di senno divengono luci che si spingono verso l’alto.
All’interrogativo religioso perché la giustizia divina non trionfi in questo mondo Plutarco risponde con un secondo mito escatologico in cui l’aldilà è considerato come il luogo del ristabilimento della verità, attraverso il rituale (desunto dalle religioni misteriche) della confessione. Assistiamo ad un capovolgimento violento, tragico, paradossale del falso ordine che ipocritamente regola il mondo dei vivi: la sopraffazione e l’inganno palesano la loro essenziale debolezza e vano risulta tutto quel che conta nel nostro mondo; mentre reali, anziché illusori, si dimostrano la vita dopo la morte ed il sogno.
Lontane sono le radici di questa concezione del mondo e del destino e forse possono essere rintracciate alle origni delle culture europee, presso le etnie paleoindiche, o nelle tradizioni dell’arcaica cultura mesopotamica.

Nella tradizione sumerico-accadica, come ci viene riferito da Giuseppe Acerbi, domina una concezione ciclica del tempo che comporta una decadenza progressiva da un illud tempus. La creazione del Mondo quale Spazio Cosmico primevo, uranico, è dovuta ad Anu, Unico Ente, rappresentato con lo scettro su un mondo paradisiaco. Suo alter-ego, è En-lil, il Dio del Tempo e Signore del Destino, l’Artefice che presiede alla separazione degli enti universali, determinando la prima forma di Dualità. In questa prima età paradisiaca, l’uomo non conosceva né paura, né terrore, “non vi erano serpenti, né scorpioni” e «l’Universo intero, i popoli all’unisono rendevano omaggio ad En-Lil ( il Dio Supremo) in una sola lingua». La perdita di questa età felice e della pace originaria sarebbe dovuta a un dio geloso, En-Ki, il dio delle acque, che suscitò tra gli uomini i primi conflitti e la conseguente confusione delle lingue, per lasciare il posto a Eresh-Kigal, Regina degli inferi.

 Annamaria Iacuele