Il VII volume della rivista Atopon pubblica gli atti del Convegno ” Figure archetipali, tracce sui sentieri dell’uomo” tenuto a Bracciano il 3-4 ottobre 2009 in onore di Annamaria Iacuele ed esce nella veste tradizionale da lei scelta al momento della creazione della rivista della quale, come direttrice, ha curato ogni edizione con competenza e attenta cura.
Il convegno è stato una sinusia di studiosi che avendo conosciuto e stimato Annamaria Iacuele per la sua attenzione, nella vita come nella professione, a ciò che è più profondo ed essenziale le hanno dedicato le loro riflessioni sulle immagini e figure archetipali, tracce sui sentieri che l’uomo percorre nella sua ricerca dell’essere.
Le figure archetipali, rappresentazioni di ciò che sempre è stato, fu e sarà, al pari dei campi di energia magnetica sono forme formanti, significati significativi. Sono figure eterne, viventi vivificanti e la loro forza è l’energia emotiva e simbolica che muove il mondo. Sono tracce per lo sviluppo del cammino, o destino di ogni singolo uomo come dell’umanità.
La psiche nel suo cammino individuativo incontra molteplici problematiche archetipali che si presentano attraverso molteplici forme, figure; molteplici demoni si frappongono sul suo sentiero sì da farle perdere “la speranza dell’altezza”. «Nessuno – scrive Jung – può divenire Sé, cioè individuarsi, senza sottostare a quel pericoloso passaggio che è il sacrificio della sicurezza del conscio esser-Io e l’abbandono alla massima insicurezza di un gioco caotico di figure fantastiche».
Le religioni attraverso i vari riti e forme devozionali cercano di rispondere alle sofferenze dell’anima aiutandola a smascherare il demone, decifrare il problema specifico o il peccato ritenuto responsabile del male.
Il cristianesimo si confronta con il problema centrale dell’uomo, la difficoltà ad accettare la morte e il dolore e ne fa il significato fondante, tema individuativo e salvifico.
L’importanza di tali problematiche ci spinge a una riflessione psicoan- tropologica, filosofica, esistenziale, sulle tracce di quel cammino che l’uomo da millenni sta percorrendo, fondamento di quello ancora da percorrere.
Ai nostri giorni sembra quanto mai difficile rispondere alla ‘domanda non posta’ di un mondo travolto da ybris, soffocato dalla maniacale ossessione di tutto voler dominare grazie ad una ragione autosufficiente, e riproporre in tutta la sua enigmaticità quella dimensione simbolica archetipale che sola può portarci oltre l’orizzonte circoscritto della situazione e l’angoscia del non-senso verso il mistero di un senso altro.
Questo è anche il compito con cui si confronta la psicologia che voglia proporsi come psicoterapia, cura dell’anima.
Gli interventi dei relatori hanno aiutato la nostra memoria a ritrovare queste tracce e a soffermarci meditativamente su di esse.
Grandi sapienti, come il medico pitagorico Alcmeone e Platone, davano grande importanza alla memoria, l’arte della connessione del principio con la fine o meglio l’arte di fare della fine un principio, l’arte che ci porta alla scoperta della immodificabile e incontrovertibile realtà dell’eterno e della affinità dell’anima con l’immortalità.
Il primo articolo, l’immemorabile visitazione di Marina Plasmati ci propone di soffermarci sull’archetipo dell’annunciazione come il genio di Antonello da Messina lo “visita” e lo offre al nostro sguardo .
Raccontandoci l’annunciazione il pittore magistralmente sintetizza i due movimenti, del corpo e dello spirito: da una parte “l’eccomi, l’hoc est corpus meum,” il farsi carne del verbo che pone l’accento sul corpo, sulla sua presenza, sulla fisicità dell’essere presente e dall’altra la radicalità di un divino che non si può e non si deve vedere, il ritirasi di Dio, il Deus absconditus. Il capolavoro di Antonello compie il prodigio di mettere l’invisibile in luce, orientando, attraverso la mano di Maria, il nostro sguardo a ciò che eccede ogni visione, ogni memoria, ogni oblio eppure ci è vicino, è dentro di noi, è noi.
Le opere d’arte infatti, ci dice Marina Plasmati, non si lasciano reificare nell’oggetto della memoria. La loro sfida è assai più alta: l’arte vive di quella memoria che si profila nell’apparizione. Nell’opera dell’artista è il mistero che ci fa visita e svela ciò che non è suscettibile né di oblio, né di ricordo. L’arte è in certo modo epifania di una memoria immemorabile, depositata nell’eternità, non nella storia.
Maria, madre della vita, è anche Mater dolorosa, figura archetipale che presentifica la partecipazione della donna al sacrificio, la com-passione, la fedeltà nel dolore: Stabat mater dolorosa iuxta crucem lacrimosa. Senza la pietas della donna-madre, il sacrificio, ciò che fa sacro e che consegna all’essere i frammenti di vita del divenire, non arriva al suo compimento, al telos, perde il suo valore di salvazione, diventa carneficina e il dolore un vizio assurdo. L’amore vince la morte e proprio l’amore della donna, di colei che dà la vita, ma sa stare accanto al dolore e alla morte, può aiutare nella sofferenza e far sì che la via crucis divenga via lucis.
La mater dolorosa è anche ad un tempo madre consolatrice. Il tema del Calvario, della morte e del compianto, vivo nell’immaginario della tradizione popolare, nell’arte figurativa, nella poesia e nella musica ci propone l’immagine del dolore che si tramuta in consolo e gloria. E nell’immaginario, anche nel più umile, come ci ha insegnato l’antropologo G. Durand, si scavano le fondamenta dell’immaginale o dello spirito e l’esistenza umana acquista significato e si fa cammino di individuazione.
Di un altro archetipo del femminile, di cui è icona Maria Maddalena, la donna che sa amare pur nella disperazione, immagine viva nella nostra psiche, ci parla Giulia Valerio aiutandoci a ripercorrere i suoi gesti compiuti nel silenzio e comprendere la portata eversiva degli archetipi che la costituiscono. Maddalena insegna che attraversando la valle più oscura si attiva in noi una luce inattesa, capace di sorprenderci, e che quando le luci della coscienza si sono tutte spente l’inconscio ricrea il nostro mondo in frantumi. La sua presenza si iscrive nel campo delle tre Grazie, divinità antiche e potenti, e nell’avvento della Grazia, che giunge sempre inattesa e scende come rugiada sulla nostra disperazione, rivoluzionando prospettive ed esistenze.
Claudio Widmann ci propone il tema della morte, soglia della vita, termine ultimo di ogni cammino terreno, ma limite da cui inizia il cammino dell’immaginale e dello spirito. Il vissuto della morte è esaminato in differenti contesti culturali a partire dall’antico Egitto nella cui mitologia le fantasie di ciò che accade dopo la morte trovano una delle espressioni più articolate. Nei testi e nelle immagini della Dwat (il regno dei morti) l’esistenza dopo la morte è modellata esattamente sull’esperienza della vita prima della morte e l’identità individuale è assimilata alle identificazioni dell’Io (in particolare con il corpo, i vissuti affettivi, le funzioni intellettive e l’auto-percezione), mentre la loro perdita genera angoscia.
Un passaggio significativo nell’immaginario mortuario si verifica quando compaiono non più immagini di morti, ma della morte: evento che impone all’Io una disidentificazione radicale. Nel medioevo italiano (XIV secolo) l’immagine della morte prende la forma di uno scheletro femminile armato di falce e diviene simbolo della “meditazione sulla morte”, strumento dell’ars moriendi, pratica psicologica di disidentificazione dell’Io e di differenziazione fra Io e individuo. è necessario un lungo e travagliato cammino interiore affinché la morte divenga un’esperienza preparata consapevolmente, e accettata quando il tempo è compiuto (kairos).
Il tentativo di esimere l’Io dall’onere di smantellare le identificazioni induce a sostituire alla “meditazione della morte” la “rimozione della morte”, che rende ideale un evento fulmineo e improvviso, imprevedibile e inconsapevole. Tuttavia la rimozione della morte se protegge, almeno parzialmente, dall’angoscia, non permette il processo individuativo che porta a fondare l’identità non sulla percezione dell’Io, ma sulla consapevolezza del Sé.
Alla riflessione sul vissuto della morte ci porta anche il saggio di Giuseppe Lampis che ritiene che l’inaugurazione dell’umanità attuale cominci con l’arrivo di una particolare specie di morte, quella dell’eroe che sacrifica la propria vita e custodisce nel carattere e nel senso della propria morte il segreto della vita eterna, e la porta per l’eterno. L’eroe vegliante è un custode benevolo che forma il mondo nel quale i mortali vivono e abitano e da esso apre la via che va in giù e ugualmente in su, la via della morte e della rinascita.
La vita è un’ascesi, un esercizio, una preparazione. Il vissuto del dolore, la musica, lo studio del numero, la memoria, la teoresi, l’impegno nella direzione della politica, la discesa ad inferos e la risalita, tutto, secondo la più importante religione greca, rientra in un efficace rito sacrificale. Il sacrificio è l’atto supremo con il quale si dà senso al non senso, o si impedisce la fine di ogni senso. Il sangue versato nel sacrificio cessa di appartenere al regno del caso e della fatalità bruta e diviene atto di libertà.
Figura archetipale di eroe e martire della libertà, ricordata con commozione da P. Giuseppe Scattolin è il martire musulmano M Th, che ha lasciato l’esempio di una vita sacrificata in difesa dei valori della persona umana.
Per Th davanti a Dio non aveva significato la religione della lettera che uccide, ma la religione della misericordia e dell’amore che salva e dà la vita. Egli ritenne fosse giunto il tempo di liberare l’Islam da catene ipotetiche e politiche per restituirlo ai grandi temi della sua ispirazione originaria e fondamentale: i temi della fede, della giustizia, della libertà e della responsabilità etica. Il suo martirio, insieme a quello di coloro che nella storia hanno avuto il coraggio di difendere la libertà di coscienza, rimane testimonianza perenne cui ogni persona di buona volontà possa ispirarsi.
Al culmine di un lungo percorso di civilizzazione, in cui l’umanità ha consolidato una posizione di predomino assoluto rispetto al proprio universo, troppi problemi restano in soluti. Al dominio della specie, attuato su base tecnica, e indirizzata in senso estroverso nei riguardi del contesto socio-ambientale, non corrisponde una consapevolezza interiore adeguata. Una minacciosa debolezza etica si manifesta ad ogni livello della condizione umana in un orizzonte ideologico e di dibattito sconsolatamente piatto e sterile. Tuttavia Federico De Luca Comandini rinviene nella concezione psicologica junghiana la possibilità di una nuova consapevolezza etico-psicologica del mondo. Proprio la dimensione inferiore della psiche, dove affonda la radice inconscia della personalità, diviene determinante nel destino dell’essere umano e apre la prospettiva del processo d’individuazione psicologica. Nell’inevitabile l’incontro con la realtà infera dell’inconscio ove le prevalenze archetipiche chiedono di esser vissute e affrontate si dà senso alla propria vicenda personale e destinale.
Sin dalle origini, l’uomo ha cercato di dare significato alla sua vita, ma ogni progresso nel senso del pensiero ‘calcolante’ o dello sviluppo tecnologico lo ha reso paradossalmente più fragile, sorta di Prometeo, lacerato nell’intimo tra l’illusione di poter raggiungere illimitata libertà e potenza e la intima consapevolezza della tragicità dell’esistenza e degli invalicabili limiti umani. I tempi moderni infatti sembrano aver reso ancora più evidente l’antico e sempre nuovo “male di vivere”. Francesco Giordano si sofferma su malinconia e depressione, espressioni di un dolore che si coniuga nel rapporto dell’individuo con se stesso e con il mondo, dolore profondo, difficile da mettere in parole e che rischia di apparire inesistente e dunque ancora più insopportabile.
Su un terreno di ricerca più vicino alla clinica si orienta l’intervento di Magda Di Renzo mettendo in luce aspetti della genitorialità che rimandano a elementi arcaici non traducibili sempre e solo nella dinamica relazionale. Si sottolinea la complessità degli accadimenti psichici connessi all’assunzione del ruolo genitoriale, ruolo che attivando la polarità archetipica adulto-bambino, genitore-figlio rimanda necessariamente alle proprie origini e al senso dell’origine tout-court.
Immagini di madri e padri terrifici sembrano aver influenzato i comportamenti difensivi del bambino e le sue manifestazioni patologiche mentre i genitori reali non sembrano corrispondere all’Imago di cui il bambino è portatore. D’altra parte, genitori che appaiono eccessivamente severi sul piano relazionale possono costellare nel bambino Imago genitoriali positive.
L’esperienza clinica rivela la forte presenza della dimensione archetipica, troppo spesso ignorata o trascurata nel mondo occidentale orientato a vedere i problemi esclusivamente dal punto di vista tecnico-scientifico. Solo non sottovalutando la potenza di tale dimensione ma cercando di confrontarci con essa, possiamo riuscire ad affrontare insormontabili vicende personali,decifrare comportamenti altrimenti impensabili, connettere azioni e reazioni che appaiono incommensurabili e percorrere con più profonda consapevolezza il nostro tratto sui sentieri dell’uomo.
Maria Pia Rosati