Estremadura e la domanda fondamentale

Maria Pia Rosati

L’uomo nella notte accende una luce a se stesso.
Eraclito, 26

Estremadura: un luogo simbolico

Il titolo di questa raccolta di pensieri di Giuseppe Lampis è il nome della fascinosa Estremadura iberica, un nome di alto significato simbolico con il quale si vuole indicare un luogo di riflessioni, meditazioni, chiarificazioni sulle questioni più importanti dell’avventura del vivere. In Estremadura sorgeva il convento di Yuste, sottoposto alla severa regola dei gioachimiti: là si ritirò Carlo V quando ritenne fosse giunta l’ora di lasciare il governo dell’impero. Questo enigmatico Signore europeo del Cinquecento raggiunse quella regione spopolata e montana quando sentì che non era più rinviabile la prova, ancora più complessa, della cura del proprio spirito e comprese che per dedicarsi a pensare alle cose più importanti per il suo destino di uomo doveva prendere le distanze.

Prendere le distanze

estremaduraEstremadura è innanzitutto il luogo lontano, il luogo dell’allontanamento, della presa di distanza, del distacco dalla esistenza consueta e quotidiana, il luogo simbolico del silenzio, della notte, del ricordo, del ripensamento degli eventi e delle idee. Ma allontanamento non significa né fuga nè vile rifiuto. L’allontanamento ha valore e dà senso solo a chi ha vissuto l’avvicinamento. Solo chi si è avvicinato può allontanarsi. Solo l’uomo che ha fatto esperienza della prassi e ha guadagnato lo spessore che deriva dall’averne affrontato le prove può avviarsi a prendere le distanze e farsi asceta (e ascesi significa esercizio e addestramento). La presa di distanza non vale allo stesso modo se si ha esperienza del mondo o se non se ne ha. Una cosa è avere attraversato le pianure della vita senza scansare le sue prove e altra cosa è essere rimasti fermi presumendo di essere al riparo. Colui che è stato semplicemente fermo come se già avesse raggiunto la mèta e ha evitato il rischio del vivere resta succube delle circostanze in cui si è trovato, senza poterne mai prendere le distanze. Colui che prende le distanze dal molteplice sovrapporsi e succedersi degli eventi che gli sono capitati e in cui è capitato deve cercare di guadagnare una prospettiva che gli permetta di vederli meglio. Egli non si solleverà più in alto per sfuggire alla materia della sua esistenza ma per cimentarsi meglio con essa. Prendere le distanze non equivale a sganciarsi dalla realtà per librarsi in un vuoto rarefatto e introverso. Nessun salto potrebbe riuscire senza avere fatto i conti con il bagaglio pesante e le forze gravitazionali che legano verso il basso. Per tentare di capire cosa significa il tempo che ci è stato dato bisogna averlo accettato, vissuto e conosciuto.

Un luogo dell’anima

Il nome di Estremadura indica un ideale e un programma. Per questa ragione, Estremadura è un autentico esemplare “átopon”, non è un luogo materiale effettivo, è un rovescio invisibile, una situazione limite tra il tempo e l’atemporale, tra il mutevole e il costante. Il varco per arrivare laggiù è sempre al nostro fianco anche se non si vede. Estremadura è un luogo parallelo che costeggia strettamente e di continuo quello in cui ci troviamo. Nella propria giornata può sempre capitare di ritrovarsi in Estremadura, non è necessario che sia fisicamente notte o silenzio o solitudine. C’è sempre un varco per passare in Estremadura se lo si cerca. Può accadere dovunque e a ogni ora, in tram, in un caffè, durante una riunione, ascoltando la radio, leggendo il giornale, nel dormiveglia, e improvvisamente si abita altrove, lontano. Questo altrove è Estremadura, un luogo dell’anima dove ognuno di noi viene a trovarsi quando pensa alle questioni più importanti.

La ‘cerca’

Possiamo dunque comprendere il motivo per il quale Giuseppe Lampis ha scelto il nome di Estremadura per il titolo di questa prima raccolta di pagine tratte dai taccuini delle sue meditazioni. Il titolo allude al chiostro e alle deambulazioni di chi è assorto nel suo silenzio appartato. Anche se la pagina può presentarsi molto breve, in essa è concentrata sempre una lunga deambulazione precedente. I motivi trattati sono molto vari, dalla gnosi alla psicanalisi, da Parmenide a Aristotele, dalla religione indù al cristianesimo, dalla resurrezione alla politica moderna, dalla idea di città all’ecologia, dalla danza alla preghiera. Nella raccolta si possono trovare nuclei che sono stati sviluppati in saggi e altri che lo potrebbero, ma per la maggiore parte i pensieri hanno una loro completezza. Gli argomenti sono portati alle conclusioni anche nel giro di brevi frasi, spesso hanno la forma di intuizioni, talora sono citazioni che evidenziano il passo significativo di un testo che merita di essere riletto con attenzione. Non vi si deve cercare una sequenza da diario, la ricerca procede riformulando e riprendendo gli stessi temi da angoli diversi. Riflessioni dedicate in apparenza a cose distinte convergono a chiarire la stessa domanda posta al centro. In ogni caso, non si tratta di un opus conclusum, il lavoro è aperto da entrambi i lati, non c’è un inizio privilegiato né tanto meno una conclusione. Ogni pagina può essere la prima o l’ultima, il lettore può deciderlo a seconda della sua inclinazione culturale. In un certo senso è come se l’autore si abbandonasse alla forza della corrente: egli accoglie dei segni, si predispone a ciò disincrostandosi dai pregiudizi del tempo, aspetta che sia il pensiero a condurci nei passi ulteriori. E così può fare anche il lettore. Si può avvicinare questa procedura alla ‘cerca’, alla ‘quête’, dove ciò che prevale non è la mèta finale ma il percorso, dove è il percorso stesso a rappresentare la vera mèta. Per mettersi in questo genere di cammino occorre, però, acquisire una disposizione preliminare alla libertà : chi non ha paura di lasciare che il pensiero cerchi liberamente può avvicinarsi a quell’ideale antico della verità che è il contrario dello spirito della menzogna e dell’asservimento. Nel convento di Estremadura il clima fondamentale è la libertà. Non sono necessari i compromessi con la mondanità politically correct, non ci sono uditori da blandire e non c’è bisogno di accattivarsi consensi facili.

La domanda fondamentale 

Camus apre Le mythe de Sisyphe con queste parole: “Il n’y a qu’un problème philosophique vraiment serieux: c’est le suicide. Juger que la vie vaut ou ne vaut la peine d’être vécue. Le reste, si le monde a trois dimensions, si l’esprit a neuf ou douze catégories, vient ensuite. Ces sont des jeux; il faut d’abord répondre. (C’è un solo problema filosofico veramente serio: il suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta. Il resto, se il mondo ha tre dimensioni, se lo spirito ha nove o dodici categorie, viene dopo. Sono giochi; prima bisogna rispondere al problema fondamentale).” Camus vede la questione più importante in questo modo: il punto cruciale è se la vita valga la pena di essere vissuta o no. Questa è l’unica vera domanda e a questa domanda ‘dobbiamo’ dare una risposta. Pensare non serve a nulla e è uno scherzo fatuo se non risponde a questo dubbio pregiudiziale. Per decidere non serve sapere se le categorie dell’essere o dello spirito siano dodici o tre. Il ragionamento ha un’andatura un po’ buddista e un po’ stoica e può apparire strano che quella domanda basilare e prefilosofica in definitiva venga espressa nei termini di una domanda filosofica. Tuttavia non c’è dubbio che siamo messi di fronte a una domanda con il denso significato di una domanda originaria: come troviamo spiegato in una delle pagine di questo libro, in origine la domanda chiede assieme di sapere e di avere, essa è indissolubilmente ‘quaestio’ e ‘petitio’. Per pensare in senso originario non è perciò necessario fare filosofia nel senso tecnico acquisito dalla storia moderna; anche un poeta pensa, anzi, saranno proprio i poeti a parlare per ultimi: “quel che resta, lo fondano i poeti” dice Hölderlin rievocando Empedocle. La parola ultima, dopo la consumazione di un mondo, è la prima del nuovo mondo. Se si torna a mettere al centro la domanda principale, il pensiero torna giocoforza a essere originale: torna, cioè, a dedicarsi alla origine e a esprimere l’origine.

Pagare il debito

Pensare è un destino e un dovere non eludibile. Pensare è un debito e Estremadura è il luogo dove si cerca di saldare questo debito, il luogo del cimento essenziale con l’esperienza della vita e specialmente con le idee mediante le quali la incontriamo e la viviamo. Non possiamo entrare nella dimensione che si allontana dal tempo senza passare dalla porta che si è aperta in esso. Pensare non è un esercizio ginnico autocontemplativo e autoreferenziale, non è un avvitamento nel piccolo ego. Il pensiero non può essere arbitrario ma si deve pensare ciò che si deve pensare. Perciò pensare è un compito etico prima che logico. Pensare è metafisicamente un debito. A ciascuno tocca pagare il suo debito, a ciascuno il debito concreto e determinato delle specifiche e empiriche circostanze del suo tempo. E questo non si limita al tempo della propria circoscritta vita, perché il tempo della propria vita fa parte di un tempo più ampio nel quale essa è collocata. Non si può entrare nell’eterno, nella dimensione che si allontana dal tempo, senza passare dalla porta che nel nostro orizzonte temporale si è aperta soltanto per noi. Diceva Tertulliano che “cardine della salvezza è la carne” (De Resurrectione 8: “caro salutis est cardo”): per la salvezza si deve passare attraverso la condizione della vita incarnata naturale mondana. Solo dopo essere sottostato a questa esclusiva preliminare condizione e aver pagato il proprio debito, ciascuno potrà poi regolare i rapporti con il tempo in generale, con l’esistere nel tempo. Questo è il fine più rilevante della ricerca per il quale si intraprende il viaggio verso una mèta tanto impegnativa. La Estremadura simbolica di Lampis è, possiamo dire, il luogo-non luogo in cui si riflette sull’essenziale che sta sotteso all’esperienza della vita; è là che si fa la ‘cerca’ di senso del nostro destino e della vita stessa ed è là che proviamo a rimettere i debiti affinchè ci siano rimessi i nostri. Là ci avviamo, liberandoci di ogni inutile bagaglio sia materiale che affettivo e culturale, ad incontrare noi stessi e in noi la verità.

Maria Pia Rosati