Marina Plasmati
La Lepre Edizioni – Roma, 2015
Nella primavera del 1836 una carrozza giunge a Boscotrecase, un paesino sulle pendici del Vesuvio.
Ne scende un uomo piccolo, dal busto contorto e le gambe esili, sovrastato da una grande testa dai capelli sottili, con un pallore quasi innaturale dipinto sul viso, avvolto in uno spolverino consunto, troppo pesante per la stagione. Cammina a capo chino, scrutando lo spazio tra un passo e l’altro ed appoggiandosi “alla terra con l’andatura di un moribondo che volesse risparmiare ogni passo concessogli prima della fine.”
E’ il signor forestiero, l’ospite di riguardo, il cui nome sarà accuratamente celato durante tutto lo svolgimento del romanzo, ma in cui il lettore non stenterà a riconoscere Giacomo Leopardi, o meglio soltanto Giacomo.
L’Autrice, Marina Plasmati, immagina che il poeta trascorra gli ultimi mesi della propria esistenza in una residenza di campagna, in compagnia del cognato e della sorella di questi, per ritemprare – al clima salubre del vulcano – il proprio fisico afflitto da una miriade di malanni che un susseguirsi di dottori ha scrupolosamente diagnosticato nel corso degli anni.
I personaggi che si affacciano nelle giornate del signor forestiero sono tratteggiati con poche ed efficacissime pennellate, come nel caso del dottor Mannella, ennesimo cerusico consultato, che del tutto privo di empatia “parlava tanto, ma non ascoltava mai, come era in uso ai seguaci della scienza medica, disciplina miope ed ottusa, istituita per dare risposte, senza fare mai domande, indagare nei meandri delle viscere, mai nello scrigno dei pensieri.”. Ma i ritratti più riusciti, piccoli cammei, sono quelli dei personaggi umili, dei contadini, come Cosimo e la villanella, in cui l’Autrice riesce a trasfondere un’aura di luminosità mista a quella speciale energia che caratterizza le persone autentiche. La villanella, Silvia, è sorpresa mentre è intenta a guardare un foglio di carta su cui sono vergati i versi di un componimento poetico: “ Il vento cominciò a scherzare col vestito e i capelli; la veste aderì alle curve dei fianchi e disegnò il ventre gonfio di giovane ragazza. I capelli presero a svolazzare morbidi e giocosi sulla fronte e intorno alle orecchie. Un raggio di luce trasparente le colpì gli occhi chiarissimi e le illuminò le linee azzurrognole delle vene del petto e della nuca scoperta. La bocca risaltò di un rosso intenso, come le gote bagnate di sudore. Così, immobile, assorta in un sogno inondato di luce, la trovò l’ospite di riguardo, affacciandosi silenziosamente nella sua stanza.”
Alla vista della giovane, un timido rispetto si insinua nelle parole del poeta il quale, avendo compreso che non sa leggere, le recita i versi:
Qui sull’arida schiena
del formidabil monte
sterminator Vesevo
la qual null’altro allegra arbor né fiore
tuoi cespi solitari intorno spargi
odorata ginestra
contenta dei deserti
ricevendo in cambio il più semplice dei sorrisi e le parole ”è la ginestra nostra quella”. Si, quella ginestra che lo stesso ospite di riguardo ha scoperto qualche giorno prima con la complicità di Cosimo, durante una passeggiata, a ridosso del Vesuvio, a dorso di mula. Preannunciato da un profumo intenso ed inebriante “appena svoltata la curva, un prato giallo si spalancò alla loro vista. Centinaia di piccoli fiori, sbocciati su steli sottili, illuminavano il paesaggio brullo, piegandosi docilmente alle carezze del vento. Sembrava che quella minuscola zolla di terra avesse rubato al sole un raggio d’oro per disegnare un’isola di luce nel buio di quel deserto sterminatore”.
La natura, a tratti splendente a tratti desolata, è resa – in una narrazione in cui è possibile intuire il cromatismo dei fiori, la musicalità degli uccelli e persino il ronzio degli insetti che animano la vegetazione – attraverso un linguaggio semplice, quotidiano, alieno da iperboli o preziosismi da cui traspare una religiosità sottile, commovente.
Un’analoga religiosità si ritrova nell’adempimento delle faccende da parte dei famigli della casa.
Silvia, insieme al giovane Cosimo ed al padre di questi Giuseppe, sembrano i custodi di un antico rituale che conferisce sacralità alle semplici azioni di ogni giorno: “Lavare i panni era la cosa che le riusciva meglio, insieme a cantare; la nonna glielo diceva sempre. Hai la voce di tua madre e le mani mie. Sei nata per fare la lavandaia, così canti e lavori. Peccato che non viveva al Vomero, dove c’era l’acqua più buona di Napoli. Lì le lavandaie erano famosissime, facevano a gara con quelle del villaggio di S. Antonio, dove pure i panni, non si sa come, odoravano di maggiorana in ogni stagione (…). A lei piaceva tanto lavare i panni, renderli nuovamente puliti e profumati. Era un lavoro che le dava soddisfazione. Quando li mettevi addosso non sembravano gli stessi: era come se ne comprassi sempre di nuovi, come se divenissi nuovo pure tu.” Ed ancora “ Lo sapeva bene che non bastava l’acqua, né il sapone e nemmeno la fatica delle braccia. Tante volte l’odore rimaneva attaccato ai panni come una muffa o un fungo velenoso. Lei però per gli odori aveva un segreto, che le aveva confidato la cugina di una sua amica che abitava a S. Antonio e che non aveva detto a nessuno, nemmeno a sua nonna: quando preparava la cenere, da mettere nella tinozza insieme all’acqua per ripassare i panni, ci faceva bruciare dentro un ramoscello verde di alloro. Era come un miracolo”.
In questa atmosfera, che contagia anche il lettore rendendolo partecipe di un cosmo primigenio, il poeta trascorre le mattine, accompagnato da Cosimo alla scoperta di luoghi impervi e struggenti, anche se è l’ora dopo la mezzanotte che predilige, nella solitudine della sua stanza, quando ogni cosa è avvolta dal silenzio più profondo e le palpebre dell’immaginazione si aprono a mondi invisibili.
A salutarlo, prima della partenza per il ritorno a Napoli, giunge Cosimo, quasi il suo alter ego, il suo doppio che “aveva i capelli lunghi sulle spalle, nerissimi e scompigliati, il viso rosso, abbronzato sul naso e sulla fronte dal sole dei campi, le mani grassocce, le unghie nere di terra. Il suo odore emanava una gioia di vivere aspra e vorace, come il profumo del cielo prima della pioggia, dell’erba alta appena tagliata, della zolla di terra. Nei suoi occhi, azzurri, marcati da ciglia nere folte, lampeggiava il bagliore della vita appena iniziata”.
Quel bagliore che, invece, andava spegnendosi in Giacomo: un mese dopo, infatti, sarebbe morto a Napoli, intraprendendo quel viaggio dolce, che unico accomuna il destino di tutti i mortali.