Abraxas – La magia del tamburo

Ezio Albrile

Paolo Riberi – Igor Caputo
Abraxas. La magia del tamburo
Il culto dimenticato del dio cosmico, dallo sciamanesimo alla gnosi
Mimesis
Milano – Udine 2021 pp. 173

Il dipinto di Hieronymus Bosch Il prestigiatore (1502 ca.) offre un angosciante scorcio sulla contemporaneità: un giocoliere dai tratti somatici di un passato primo ministro fiorentino, gioca un brutto tiro a un poco furbo benestante. Sono gli inganni della storia. In un bel libro di un po’ di anni  fa Giorgio Antonelli (La profonda misura dell’anima, Liguori, Napoli 1990) faceva notare come nella costruzione della sua teoresi magico-gnostica il grande Carl Gustav Jung utilizzò importanti fonti documentarie. Particolarmente caro gli fu il dio gnostico Abraxas con il quale si intrattenne in una serie di visioni. Sempre Antonelli faceva notare come al tempo di Jung le fonti antichistiche su Abraxas erano ben scarse, risalendo addirittura a testi del 1700, un vuoto che paradossalmente la contemporaneità non aveva colmato. L’occasione, ghiotta, per riempire questa latenza è giunta a due giovani ricercatori piemontesi Paolo Riberi e Igor (Andy) Caputo, che a tale illustre personaggio hanno dedicato una agile monografia.

Basilide, il più antico fra gli gnostici, racconta che il Dio che non esiste, il Dio che non è (ouk ōn), «senza pensiero, senza sensibilità, senza volontà, senza divisamento, senza passione, senza desiderio», crea il seme del mondo; un seme che si divide in tre parti o «filialità»: una sottile, una spessa, una bisognosa di purificazione. Mentre le prime due tornano nel Dio che non esiste, la terza resta in basso, nel «grande ammasso della semenza» da cui trarranno origine gli Arconti facitori dell’universo (Hipp. Ref. 7, 20, 1-26,1). Nel mezzo di questa baraonda cosmica, cioè tra il vuoto divino e i famelici Arconti, sta una divinità interstiziale, egemone dei 365 cieli e delle creazioni ivi contenute: il suo nome è Abrasax, meglio conosciuta come Abraxas, così chiamata perché il computo delle lettere che ne compongono il nome (isopsefia) corrisponde a quel numero. L’Abrasax basilidiano, di cui parlano i Padri della Chiesa è quindi un’entità ordina­trice preposta al governo dell’ordine cosmico di tutte le sfere celesti situate al di sotto del Mondo della «Pienezza», il Plērōma. A rimpinguare lo scenario cosmogonico, i nostri autori evocano anche altre fonti letterarie, tra cui tre trattati gnostici di Nag Hammadi: l’Apocalisse di Ada­mo (V,5), il Vangelo degli Egiziani (III,2 e IV,2) e Zostriano (VIII,1). Anche in questi casi Abraxas è una  figura sottoposta all’autorità delle potenze superiori dello ‘Spirito’, ori­entata al bene e incaricata del governo del cosmo e delle sfere astrali. Meno convincente è la sovrapposizione con una differente entità gnostica e «hypnotica» nominata Morphaia, presente nel segmento finale di un ulteriore trattato di Nag Hammadi, la Parafrasi di Sēem (VII,I).

Succosa la parte dedicata all’iconografia ‘abrasaxiana’, con il dio figurato nella sua natura ibrida e  anguipede. La versione più nota è quella che lo rappresenta con le gambe serpentine, il busto umano e la testa di un uccello. In una mano brandisce una frusta corta, mentre nell’altra regge quello che, secondo molti commentatori, dovrebbe essere uno scudo circolare. Non mancano le varianti a questo denominatore comune iconografico: in alcune versioni l’anguipede ha la testa di leone, in altre la frusta corta è sostituita da una mazza, mentre in altre ancora ricorrono anche il nome IAO e altre frasi magiche. Particolarmente significativo è anche lo sfondo: l’anguipede è inserito in una forma ovale, immagine cosmica entro la quale si intravedono cinque o sette stelle ‒ i cinque pianeti con l’aggiunta del Sole e della Luna. C’è chi si salva da solo senza chiedere ad altri un aiutino. C’è chi ha bisogno di un’illuminazione profana: l’immortalità non è mai stata prioritaria, l’importante è agguantare e sopportare il momento presente.

Hieronimus Bosch, Il prestigiatore

Partendo inoltre dagli studi del sommo Gilles Quispel, coptologo, storico del cristianesimo e discepolo junghiano, un altro trattato gnostico, l’Apokryphon Johannis (già conosciuto prima delle scoperte di Nag Hammadi) rivela come il Demiurgo omicida Ialdabaōth sia fornito di un corpo di serpente e di una testa di leone: la medesima figurazione zoomorfa dell’Abraxas basilidiano. Da richiamare, come fanno i nostri autori – e a suo tempo Quispel – le affinità fra il leontocefalo  conservato nel famoso rilievo mithraico di Modena e i misteri orfici, per il tramite di  una cosmogonia orfica ascritta a Ieronimo ed Ellanico (fr. 54 Kern) secondo la quale dall’unione dell’acqua con la terra sarebbe scaturito un drago alato, leontocefalo e taurocefalo, dal doppio nome di Chronos agēraos («Tempo senza vecchiaia») ed Herakles. Nella fluidità nebbiosa del Caos, Chronos agēraos concepisce un Uovo immenso, da cui fuoriesce un «dio incorporeo» – un essere ibrido con ali d’oro, teste taurine sui fianchi e un serpente svettante sul capo– il cui nome è Prōtogonos, il «Primogenito». Un personaggio che, in un’ulteriore  teogonia orfica definita «comune» o «rapsodica» (fr. 85 Kern), è chiamato Phanes; il dio ermafrodita, come lo sono gli uomini che abitano il mondo da lui creato, l’età aurea. Da Phanes e da Chronos agēraos, il passaggio al mondo iranico è breve: perlomeno per i nostri autori, che fruendo di studi accreditati e autorevoli, assimilano l’immagine del dio iranico (pre-islamico) del Tempo, Zurwān all’Aiōn ellenistico, il Tempo eterno. Sembra quindi molto probabile nell’iconografia dell’Abrasax basilidiano confluisca tutta questa pletora di divinità cosmiche.

Più suggestiva è l’interpretazione del materiale iconografico, e in particolare dei  due oggetti impugnati dall’anguipede. In un cospicuo numero di rappresentazioni, Abrasax indossa una lorica romana: un elemento che ha indotto la pressoché totalità dei commentatori a identificare i due oggetti in una frusta corta e in uno scudo rotondo, rileggendo così il dio cosmico degli Gnostici come un soggetto bellico. Se da un lato l’armatura potrebbe riflettere una  immagine di potere al seguito della forza egemonica dell’impero romano, da un altro lascia perplessi l’applicazione di tale immaginario a una divinità gnostica. Sempre rifacendosi all’ambiente iranico, i nostri autori ipotizzano ben altra elaborazione simbolica; la via intrapresa è quella del cosiddetto ‘sciamanesimo iranico’, al seguito degli studi di Gh. Gnoli, Ph. Gignoux, A. Panaino e A. Piras: lo scudo in realtà sarebbe il tamburo utilizzato dagli sciamani nelle loro ritualità estatiche, e la frusta lo strumento per percuoterlo. Con il tamburo e la trance estatica, lo sciamano raggiunge il cuore dell’universo, snodo verso ogni altra realtà, celeste o infera. Questa è la tesi eliadiana fatta propria dai nostri autori: per alcuni popoli il tamburo è un vaglio cosmico attraverso il quale lo sciamano scandaglia le anime nell’attesa del viaggio verso l’aldilà; per altri rappresentava una barca che consentiva di navigare nelle regioni celesti, mentre per altri ancora, la pelle animale lo rendeva a tutti gli effetti una cavalcatura alata. Lo sciamano viaggia negli universi paralleli, che siano abitati dai morti oppure da altre forme di esistenza. I nostri autori riconoscono questi tratti anche nella testa di uccello in cui è spesso figurato Abraxas: il costume da uccello è un elemento fondamentale per volare tra le sfere celesti verso il mondo ultraterreno. Iniziati a tali misteri, i nostri autori sottolineano come, all’inizio della cerimonia, il tamburo è sempre percosso in un rituale di ‘animazione’, con il quale lo sciamano evoca la propria identità teriomorfa per farsi guidare nel corso del viaggio.

Meno convincente è la seconda parte del libro, dove si tenta di trovare delle ricorrenze dell’Abraxas gnostico un po’ ovunque, dalla magia contemporanea, al cinema e alla letteratura: un esempio è il richiamo al noto occultista e poeta inglese Aleister Crowley (1875-1947): Crowley ricicla materiali magici già ben noti al tempo dalla letteratura specialistica, lo stesso discorso vale per una pletora di maghi e maghetti che alla sua più o meno discutibile opera si sono rifatti: quindi la menzione di una presunta divinità gnostica di nome Abraxas risulta abbastanza ininfluente. Così come ininfluente è la citazione della serie televisiva True Detective, un «Serial», leggiamo «che, però non fa mai riferimento esplicito al nome “Abraxas”, bensì soltanto alla filosofia che stava alla base del culto magico» (p. 150). Nel saggio, infine, sono citati alcuni studi del sottoscritto che, però, vuole ricordare agli autori come sull’argomento ha anche pubblicato diversi libri, sia per i tipi della Mimesis che per altre case editrici…

Ezio Albrile