Brunetto Salvarani
Dopo. Le religioni e l’aldilà
Laterza, Bari-Roma 2020, pp. 197
Di fronte all’impatto del Covid-19, le religioni hanno mostrato sorpresa e una lungimiranza relativa: è quanto afferma il teologo Brunetto Salvarani nell’Introduzione al suo interessante libro. Nonostante il sottotitolo reciti «Le religioni e l’aldilà», lo spazio dedicato alle fedi esterne al cristianesimo è abbastanza esiguo e si risolve in una veloce presentazione (pp. 2-28) del problema escatologico nelle antiche religiosità neolitiche, mesopotamiche, egizie, greche. La brevità delle trattazioni impone all’autore delle cesure non sempre felici, è il caso della nota «apocalisse di Ēr» narrata da Platone (Resp. 614 c-615 e). Ēr, figlio di Armenio, muore in battaglia; quando, dieci giorni dopo, si raccolgono i caduti sul campo, il suo cadavere è trovato intatto tra i corpi ormai decomposti dei commilitoni; riportato in patria e messo sulla pira per la cerimonia funebre, ritorna miracolosamente in vita, raccontando punizioni e ricompense intraviste nell’aldilà: a riguardo il Salvarani sostiene che «il racconto manifesta un’intenzione squisitamente pedagogica, di invito a vivere – ovviamente – scegliendo il bene ed evitando il male». Quel «ovviamente» sembra abbastanza inopportuno. Non va meglio per le religioni orientali (induismo, buddhismo, religiosità siniche), presentate sostanzialmente come epifenomeni di un unico credo, quello nell’«eterno ritorno». Nel caso dell’induismo – per esempio – sarebbe stato importante sottolineare la discontinuità fra religiosità vedica e misticismo upanishadico: una sorta di ribellione contro gli dèi in un cammino misterioso della conoscenza e della morte, in cui opposizione tra morte e nascita, fra tenebra e luce coinvolge chi procede lungo una via di sapienza esemplarmente descritta nella preghiera di Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (I, 3, 27): «conducimi dal non-essere all’essere, dalla tenebra alla luce, dalla morte all’immortalità».
Giunti al mondo ebraico-cristiano, l’esposizione degli insegnamenti biblici riguardo alle incognite della morte segue giustamente i due classici percorsi: lo Šeol, la «Fossa» anonima, nel quale si conservano le anime per una futura resurrezione, e il rapimento in Dio per pochi eletti. In realtà in libro di Salvarani si sofferma poco o nulla su questo secondo aspetto, rilevando, invece, come a partire dalla Sapienza e dai Maccabei «si svilupperanno – prima nel giudaismo farisaico, poi nel cristianesimo – le dottrine della vita eterna, della resurrezione dei morti e del giudizio universale»; una visuale apparentemente ‘cristocentrica’ che sembra dimenticare come gli insegnamenti di Gesù fossero in aperto dissidio verso tali interpretazioni: di fatto se leggiamo i Vangeli con attenzione, troviamo un Gesù in palese contrasto con il sentire rabbinico, un Gesù per esempio che attribuisce alla donna la stessa dignità e gli stessi diritti dell’uomo e non ne lega la figura a un peccato di ordine sessuale. Alcuni degli elementi caratteristici del suo messaggio saranno replicati non a caso, pochi anni dopo la sua morte, dal padre di tutti gli gnostici, il samaritano Simon Mago. Inoltre, seguendo le acquisizioni di Giovanni Garbini (1931-2017), semitista e grande studioso delle religioni del Vicino Oriente Antico, troviamo limiti cronologici e geografici in netto contrasto con quello che narrava l’Antico Testamento, ma confermati dal ruolo decisamente secondario che la documentazione extra-biblica attribuiva agli Israeliti. Soltanto la Bibbia documentava quello che si sarebbe voluto che fosse e che invece non fu. Questo discorso riguardava sostanzialmente il periodo anteriore all’esilio babilonese; ma dopo l’esilio la situazione diventò ancora più singolare. Ci si aspetterebbe, infatti, che come accade per ogni documentazione storica, questa divenga progressivamente più ricca a mano a mano che si scende nel tempo, ma nel caso degli Ebrei ciò non accade. Dopo l’esilio non esiste una sola fonte extra-ebraica che parli degli Ebrei sino ad Alessandro Magno; e anche dopo Alessandro le notizie degli scrittori greci sono tanto rare quanto vaghe, e tratte comunque da qualche opera scritta in greco dagli stessi Ebrei, oppure fatta scrivere in greco per il loro uso, come nel caso della versione greca della Bibbia, la cosiddetta versione dei Settanta, voluta da Tolomeo Filadelfo quale servigio per gli Ebrei ellenizzati che ormai avevano smarrito ogni legame con l’idioma originario.
Tornando al libro di Salvarani, interessante è la presentazione dell’escatologia islamica – messa in ovvia continuità con quella ebraica: la morte secondo Corano 23, 100 è sì estinzione dell’esistenza terrena, «ma non equivale alla scomparsa della personalità: anzi, il defunto conserva ancora una percezione tanto che, ad esempio, attraverso i sogni è in grado di comunicare persino con i vivi».
Come abbiamo detto, la prospettiva ‘cristocentrica’ è alla base del libro, i cosiddetti novissimi della teologia cattolica sono rivissuti in chiave antropologica: Gesù è un giovane rabbi carismatico, ma anche ebreo marginale; la sua è un’esperienza di un uomo di fronte al mistero della morte, un mistero risolto nell’affermare il primato della vita in Dio: il messaggio di Gesù riguarda in primo luogo una buona notizia, più che la notizia di castighi per i malvagi. Egli non fornisce, a ben vedere, descrizioni particolari dell’aldilà, e non ne parla specificamente: eppure, il suo insegnamento è leggibile in costante visione dell’aldilà. Questa visione di «Gesù uomo» collide con tutta la tradizione ecclesiastica posteriore, in primo luogo con il mancato realizzarsi della parusia, cioè il ripresentarsi del Salvatore alla fine dei tempi (I Cor. 16,22; Apoc. 22,20), e quindi con il disattendimento del concretizzarsi del Regno di Dio e della fine della storia. Come nota l’autore, il millenarismo e i movimenti apocalittici sembreranno colmare tale vuoto, così anche la dottrina della apokatastasis insegnata da Origene e Gregorio di Nissa; totalmente trascurato l’apporto ‘gnostico’. Così come sono totalmente dimenticati gli studi di (don) Luigi Berzano che sul «Gesù uomo» e sull’aldilà ha scritto parecchio. I teologi, poi, sembrano soffrire un certa allergia agli scritti di Peter Brown.
C’è infatti nel cristianesimo dei primi secoli un riproporsi della incubatio, ben diffusa nella religione antica, nata dalla convinzione che dai corpi santi e dalle loro reliquie emanasse un potere salvifico impregnante i corpi sepolti nelle vicinanze, santificandoli e garantendo loro l’unione con Dio. La pratica si manifesta a Roma e in Africa già nel III sec., quando le sepolture dei fedeli iniziano a raggrupparsi attorno a quelle dei martiri; si sviluppa poi nel IV sec. con la pace della Chiesa e quindi con l’imporsi del culto dei santi nella religiosità cristiana. Nei riti funebri un ruolo peculiare è svolto dalla commemorazione dei defunti, che assume sovente la forma del banchetto – dai tratti spesso orgiastici; esso è celebrato dalla famiglia sulla tomba o presso di essa, nell’anniversario del decesso. Agostino (Ep. 22, 5-6 [PL 33, 92]) ritorna più volte sull’argomento, censurando gli eccessi di tali pratiche attuate in coemeteriis ebrietates et luxuriosa comitia. I resti di alimenti e di manufatti da cucina e da mensa ritrovati negli strati associati ai banchetti ne provano l’effettivo uso per i pasti; ma l’alimentazione era facilmente estendibile al regno dei morti e la frequente presenza nelle sepolture di fori comunicanti con l’interno delle tombe indica inoltre la persistenza dell’uso delle offerte di cibo al defunto.
Nei ‘modelli’ di aldilà cristiano che il Salvarani offre nella sua dotta disquisizione, un posto di rilievo è tenuto dalla Divina Commedia. Un modello che rinvia ad insegnamenti ermetici: secondo l’escatologia del Teleios logos, il «Discorso perfetto» archetipo greco dell’Asclepio latino, un Giudice celeste, il Demoniarca, afferrerebbe l’anima valutandone il comportamento tenuto nella vita sulla terra. Se scopre che ha tenuto una buona condotta con pia devozione, le assegna il posto meritorio che le compete, altrimenti sono guai. Il verbo ermetico riscrive la geografia infera di un noto dialogo platonico, il Fedone in un quadro astrale: l’Ade non è più un insieme sotterraneo di caverne e voragini di cui la più abissale è il Tartaro (111 d-112 e) – e il Piriflegetonte uno dei suoi fangosi fiumi –, ma l’infinito spazio in cui si muovono Stelle e Pianeti. In un perduto libro del neoplatonico Giamblico si racconta di come le anime salvate e «reintegrate» abitino in un luogo sovrastante la Luna: questo perché il Sole è il dio dell’Ade, cioè Plutone, e la Luna è Persefone. La dislocazione degli inferi negli spazi stellari appare consueta nel pensiero ermetico. Ma è il grande Demone dell’aria a giudicare ed enunciare il verdetto sull’anima, comminandole, a seconda dei casi, una punizione infinita, una catarsi e reincarnazione, oppure una beatitudine eterna che sigillerà e porrà termine alle trasmigrazioni da un corpo a un altro. Queste tre vie nell’immaginario occidentale si tradurranno nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso cristiani.
È un dato di fatto che l’Ade celeste nel Medioevo abbia subito una rinnovata sistemazione. In questa nuova geografia dell’aldilà, lo spazio viene organizzato in tre luoghi principali: Inferno, Paradiso, più un luogo intermedio, incarnazione di una trasformazione spirituale, di una purificazione, ossia il Purgatorio. Coloro che posero le basi teoriche del nuovo luogo dell’aldilà furono, però, Gregorio Magno e, soprattutto, Agostino il quale nella preghiera scritta nel 397-98 (Conf. 9, 13), dopo la morte di Monica, afferma l’efficacia dei suffragi per i morti. Pur non essendo un esposto dottrinale, questo testo contiene indicazioni importanti intorno all’efficacia dei suffragi per i morti. Dopo Agostino, l’altro padre del Purgatorio è, come s’è detto, Gregorio Magno. Egli fu chiamato, nel 590, al soglio di Pietro in circostanze drammatiche: il Tevere in piena aveva inondato la città fra segni terribili, soprattutto una spaventosa epidemia di peste (la prima peste nera, detta di Giustiniano) decimava la popolazione. Gregorio, persuaso che la fine del mondo fosse imminente, si dedicò a salvare il popolo cristiano, esercitando la sua passione escatologica anche oltre la morte: tra i cristiani da salvare potevano esserci anche dei morti «recuperabili». Ma la nascita del Purgatorio, sancita a livello dogmatico prima nel 1254 da una lettera ufficiale) di Innocenzo IV, e poi, nel 1274, dal II Concilio di Lione, ebbe, tra gli altri effetti, quello di modificare il sentimento e la concezione del tempo attorno alla morte. Questo aldilà intermedio e provvisorio, infatti, veniva a colmare la durata del tempo che intercorreva tra la morte individuale e il Giudizio collettivo. Il tempo del Purgatorio era dunque «storico», simile a quello terrestre e, in quanto tale, misurabile, divisibile, legato ad uno spazio anch’esso transitorio. Dall’ermetismo antico, alla riforma tridentina del 1545-1563, la genesi del Purgatorio attraversa momenti contrastanti.
Se può affermarsi che la Chiesa nel rapporto con l’aldilà si sia progressivamente alienata gli intenti originari, il Salvarani sottolinea come l’escatologia sia diventata fondante la teologia del Novecento, a partire dallo svizzero Karl Barth (teologo protestante), che affermava con virulenza l’esperienza della morte: «Il giudizio di Dio è la fine della storia, non il principio di una nuova seconda storia. La storia è conchiusa, non è continuata». Il vissuto della fine è presente nella quotidianità ed è fondante la «vita in Cristo»; quel «ladro nella notte» (Matt. 24, 43; I Tess. 5, 2) che irrompe a frantumare il quieto vivere della buona borghesia.
Un interessante paragrafo è dedicato da Salvarani all’opera del teologo statunitense John Shelby Spong: anche in questo caso, il nostro ignora la recente pubblicazione di Incredibile. Perché il credo delle chiese cristiane non convince più, a cura di Ferdinando Sudati e Luigi Berzano, Mimesis, Milano 2020. John Shelby Spong è un teologo che ha scardinato le basi del credo cristiano: questioni fondamentali come la rappresentazioni del divino, la creazione, la vita di Gesù, la vita dopo la morte non appaiono più credibili. Esse sembrano anticipare, quale triste vaticinio, le conseguenze della presente pandemia: chiese in un primo tempo chiuse, poi contingentate, liturgie funerarie spesso negate. Per Spong le Chiese, la metafisica, la pietà di tutti i giorni risultano trasformate dal crescere delle scienze, della ragione di Stato senza trascendenza, dei successi del progresso, del tempo aperto al futuro. Tutto questo contribuisce a rendere meno significativo il regime che da sempre fonda il rapporto tra l’uomo e il mondo del divino. Ne viene coinvolta anche l’immagine di Dio, che diviene più lontano e più altro di quanto si è creduto. Questa crescente autonomia delle società e dell’individuo rispetto al religioso è proseguita di recente anche negli stili di vita: dalla più piccola pratica quotidiana fino alla valutazione generale della vita sociale e pubblica, la ‘liquefazione’ della società anche grazie alla digitalizzazione, ha coinvolto molte tradizionali visioni del mondo e della trascendenza.
Ora, l’identità del credente non è più legittimata e sostenuta dall’esterno, cioè dalla società che conferma quanto indica la religione, ma da scelte personali di appartenenza e di fede. Di qui nascono le oscillazioni tra l’adesione religiosa solamente culturale e l’intensità dell’impegno personale, tra il ritrarsi individuale e l’aspirazione a far parte di una comunità. La Chiesa cattolica è di certo la religione che ha subito gli effetti più negativi dalle limitazioni imposte dalle politiche contro il virus agli edifici di culto e alle celebrazioni collettive. Infatti è la forma religiosa più strutturata su gesti sacramentali, luoghi di culto, celebrazioni collettive e sul ministro unico a presiedere i riti. Le forme religiose meno strutturate e con esperienze spirituali più personalizzate – quali quelle del protestantesimo – risentono minori effetti negativi. Un effetto è sicuramente la perdita della dimensione reale e materiale dei riti, divenuti «spettacoli» da vedere. Il mondo religioso diventa immateriale, le celebrazioni liturgiche si trasformano in immagini e tutto diventa realtà digitale, cioè simulacro. Tutto ciò evoca Guy Debord e il suo La società dello spettacolo del 1967. Oggi, il situazionista francese direbbe che la religione diventa spettacolo e lo spettacolo è la religione. «Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione». In questa frase di Debord vi è la descrizione di quanto potrebbe accadere nel mondo cattolico, senza che i protagonisti siano consapevoli. La religione, concepita in senso immateriale e solo più consumata come forma spettacolo sarà ancora esperienza vissuta, conversione al messaggio evangelico e alla trascendenza? Da più parti del mondo cattolico c’è l’invito ad accogliere quanto sta avvenendo come un momento opportuno «per andare più al largo» in un mondo che si sta trasformando radicalmente. Questa è per Spong la Galilea di oggi.
Le sfide della contemporaneità sono molte, e Salvarani rileva come il messaggio cristiano sull’aldilà si mescoli alla ricerca di una ‘immortalità’ terrena. Traendo la felice locuzione di «società post-mortale» dall’opera della sociologa canadese Céline Lafontaine, il nostro sottolinea come il presente, grazie agli avanzamenti della tecnica, esprima una volontà di vivere senza invecchiare, prolungando indefinitamente l’esistenza. Sono gli scenari dipinti dal cosiddetto «transumanesimo», un termine che però ha anch’esso un’origine teologica, frutto del genio letterario di Pierre Teilhard de Chardin.