Editoriale vol. V

Annamaria Iacuele

 

I  miti si perdono nel profondo pozzo del passato, come sappiamo da Thomas Mann, o se vogliamo nei remoti   recessi della memoria collettiva, nelle strutture congenite del Sapiens. Ma, passando attraverso le epoche storiche e le differenti culture, i miti si arricchiscono e talvolta, di arricchimento in arricchimento, arrivano a cambiare senso.

Compito dello studioso di miti, ci ricorda Gilbert Durand non è solo quello di collezionare le varie lezioni dei miti, di paragonarle e di registrare i cambiamenti apportati dai vari contesti d’epoca e di cultura, ma soprattutto di trovare il leitmotiv del mito, il suo motivo guida.

Gilbert Durand nel suo articolo, Una lezione di mitoanalisi. Le nostalgie di Orfeo, studia le varie lezioni del mito delle avventure di Orfeo/Dioniso e ne evidenzia il paradigma a carattere iniziatico: prova iniziatica e discesa agli inferi, passione, ritorno/ricordo in una seconda vita immortale.

L’eroe Orfeo è iniziato ai misteri di Samotracia nella prima avventura, la spedizione degli Argonauti di cui è il capo-nocchiero; è iniziato ai segreti inferi della nekuia, nella seconda famosa avventura del suo infelice amore per Euridice; e al suo ritorno quale vedovo sconsolato in Tracia è iniziato ed iniziatore di una società segreta interdetta alle donne che si vendicheranno straziando il suo corpo.

Infine nella quarta avventura, con la narrazione del miracolo della lira e della testa che, al di là della morte, continuano a cantare in eterno, inizia l’orfismo nei suoi esiti sia metafisici che musicali. E tutte le avventure gravitano attorno ad un leitmotiv permanente ed ossessivo: la nostalgia, cioè secondo l’etimologia, il dolore legato al desiderio del ritorno.

Ritroviamo questo leitmotiv anche in altre costellazioni mitiche, come quella di Dioniso, il dio iniziato e iniziatore, pastor et agnus, cacciatore cacciato, costantemente posseduto da un mondo altro, al di là dell’hic et nunc, ma a cui tocca l’avventura del nostos, del ritorno ad una seconda nascita, dopo aver patito ad opera dei Titani lo sparagmos, il dilaniamento.

L’autore prosegue con l’esame di un’altra significativa parentela orfica, presente nel paleo-cristianesimo latino, secondo la quale il Cristo Buon-Pastore è assimilato ad Orfeo nel suo cammino di trasfigurazione dell’«uomo peccatore» in un «Uomo nuovo».

L’articolo di Giuseppe Lampis, Immortali mortali. Trasformazioni di uomini e dei, ci propone un’originale lettura di un altro importante mito paradigmatico del difficile percorso che l’umanità deve intraprendere per tornare alla sua originaria condizione.

All’inizio della storia della cultura europea, i Greci raccontano che il destino dell’umanità ha preso avvio da una grande guerra mitica che coinvolse uomini e dei. Ciascuna delle due schiere che si scontrarono comprendeva sia gli uni sia gli altri, perché uomini e dei prima della catastrofe comunicavano in mutua vicenda; ma da allora in poi gli dei hanno trattenuto per sé in esclusiva una condizione privilegiata.

Tuttavia gli dei celavano un segreto, lo hanno sempre celato, e – anzi – hanno combattuto coloro che volevano utilizzarlo a proprio vantaggio: il segreto che anche gli dei possono morire. Il fatto che in illo tempore abbiano respinto l’assalto degli uomini non li ha però messi al riparo definitivamente.

L’esito della guerra che ha visto soccombere gli uomini dei primordi, detti eroi, impose a questi e all’umanità attuale da loro inaugurata un percorso più arduo e penoso per tornare a godere della esistenza integrata che condividevano con gli dei.

Ormai l’umanità ha per destino di passare attraverso un percorso di morte. La condizione di distretta dalla quale deve obbligatoriamente ripartire viene interpretata dai Greci come la terribile prova di un itinerario iniziatico infero. Eppure chi saprà trovare l’uscita nascerà, come Dioniso, una seconda volta, quella vera.

Attraverso uno studio comparativo dei miti gnostici dei primi secoli dell’era Cristiana, tratti dai codici della biblioteca di Nag-Hammadi, l’articolo di Ezio Abrile ci presenta alcuni paradigmi speculativi – e le loro varianti – della mitologia gnostica, in cui il processo cosmogonico scaturisce dalla sostanza divina caduta e imprigionata nel mondo della materia sotto forma di simbolo luminoso

Secondo la psicologia gnostica l’anima che ha riconosciuto la sua vera origine spirituale, è in grado di far ritorno, attraverso un processo di anamnesi, alla sua patria celeste, nel seno della «Madre Luminosa»..

La Sophia gnostica, entità mediatrice tra Luce e Tenebre, sempre mossa dal «desiderio della luce superiore», attraverso alterne e tragiche vicende, riesce infine a liberarsi dalle acque tenebrose e a risalire in alto. Immagine della Pistis celeste, contro l’arrogante Yaldabaoth, essa annuncia l’esistenza dell’«Uomo» e del «figlio dell’Uomo». Questo mito è alla base di riti e di cerimonie, in apparenza libertine e trasgressive, ma in realtà volte alla salvezza, cioè alla liberazione del «seme di luce imprigionato nella materia», alla liberazione dalle leggi del fato e dall’eterno ciclo di nascite e di morti, alla reintegrazione dell’anima nel suo principio originario, alla sua scaturigine celeste e perfetta.

L’articolo di Julien Ries, I terapeuti di Alessandria. Filosofia e guarigione dell’anima, ci riporta a quanto ci è stato tramandato da Filone di Alessandria. Secondo i Terapeuti, setta di giudei risiedenti sul lago Mareotide, la cui filosofia di vita improntata al rifiuto di ogni cura mondana e all’ascetismo, la liberazione e guarigione da ogni male psichico, poteva avvenire solo in conformità con l’Essere e nel raggiungimento dell’immortalità. I Terapeuti impegnavano la loro vita ad uno stesso tempo alla cura delle anime e dei corpi e al culto di Dio, ripetendo nella loro condotta di vita, come nelle cerimonie il modello delle azioni di Mosé che, quale intermediario di Dio, aveva condotto il proprio popolo alla liberazione definitiva.

Il tema della liberazione della sofferenza e della salute/salvezza, è ripreso nell’articolo di Maria Pia Rosati, Potenzialità terapeutica dell’immaginazione. Al modello occidentale medico-scientifico-tecnologico che sembra ignorare il senso più profondo e il mistero della vita, della sofferenza e della morte, viene contrapposta la potenzialità terapeutica di una immaginagione metafisica, propria delle culture tradizionali in cui l’uomo, microcosmo di un macrocosmo vede il male, sia fisico che morale, come la rottura di un ordine armonico, la perdita di uno stato originario, che egli deve poter ritrovare, grazie alle proprie capacità di dare un senso alla sofferenza e di trasformarla alchemicamente.

Ma dal dolore, dall’affanno, dall’angoscia può nascere anche il sorriso, antico privilegio di coloro che riescono a vedere con occhio distaccato la vita e le sue vicende, quasi per incanto guardassero la terra dall’alto. Per questo è stato detto che il riso è dono degli dei. Questo è il tema del Seminario Dal pianto al riso tenutosi presso l’Istituto Mythos di cui sono riportate le trascrizioni di alcuni interventi.

Annamaria Iacuele