Le sfide dell’antropologia simbolica

Julien Ries
Jaca Book, 2015

 

Il volume raccoglie gli interventi e i saggi relativi al quarto Seminario Internazionale organizzato da ’Archivio «Julien Ries» per l’Antropologia Simbolica’ presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore che oltre a custodire la Biblioteca donata dallo studioso, i suoi scritti e la corrispondenza con storici delle religioni e antropologi di tutto il mondo, si propone di garantire la prosecuzione delle molteplici prospettive di studio e indagine da lui aperte.

sfide1Il Seminario, dedicato all’approfondimento del significato dell’opera di Julien Ries, si è tenuto nel novembre dell’anno 2013, anno della morte dello studioso che l’anno precedente aveva ricevuto dal Papa Benedetto XVI la nomina a Cardinale, a pieno riconoscimento della sua figura di teologo al crocevia dei più fervidi studi del XX° secolo e di fondatore dell’antropologia del sacro.

Come sottolineato nella prefazione da Silvano Petrosino, presidente dell’Archivio, Julien Ries « non ha mai separato l’analisi della storia delle religioni e l’attenzione per le scoperte della paleoantropologia da un’insistente e originalissima interrogazione sulla natura dell’uomo in quanto tale ». Al fine di più pienamente guardare al cammino dell’uomo, ha abbracciato in una prospettiva transdisciplinare il nuovo approccio metodologico all’antropologia di M. Eliade, e le nuove ricerche sul simbolismo di E. Cassirer, di G. Durand di cui aveva compreso l’importanza euristica. Ne è nata un nuova antropologia religiosa fondamentale, una antropologia simbolica e del sacro che lo ha portato a vedere l’Homo habilis, già circa centomila anni prima della nostra èra,  come Homo symbolicus  e religiosus, capace di riflettere sul senso della vita e su ciò che è oltre la vita. I contributi del volume hanno voluto sottolineare l’ampiezza delle prospettive aperte da questa disciplina.

Tra gli autori segnaliamo Emmanuel Anati, amico di Ries e coautore di numerosi testi, Fiorenzo Facchini e il suo studio su simbolismo e tecnologia nell’uomo preistorico, Natale Spineto con l’articolo Storia delle religioni e «antropologia religiosa fondamentale», e Giulia Sfameni Gasparri che ha sottolineato il significativo contributo di Ries agli studi sullo gnosticismo e il manicheismo e sui culti orientali nell’impero romano.

Il testo di Anati, Ripensamenti sulle origini delle religioni, riprende i ragionamenti di una dialettica sull’antichità del fenomeno religioso, condotta negli anni con l’amico Ries. « Come ogni altro aspetto della cultura – scrive Anati – la religione si è formata per accumulazione graduale dei suoi componenti e si trova in un processo di formazione e trasformazione permanente. […] Si è ipotizzato un processo formativo simile a quello del linguaggio […] L’insieme di credenze, miti e riti costituisce l’elemento basilare della religione e questa ha ricoperto un ruolo socio-politico da sempre, in proporzioni adeguate al contesto socio-politico della società. […] Anche le popolazioni più primitive vivono in un’atmosfera mistica nella quale ogni evento è pensato e voluto da forze che l’uomo cerca di capire, con le quali prova a dialogare. Ogni atto quotidiano è effetto di ritualismo. Nel mondo dei popoli cacciatori non esiste separazione tra sacro e profano perché tutto ciò che è profano ha un significato sacro, compreso mangiare acquisendo le energie e lo spirito della preda consumata, dormire, comunicando con gli spiriti ancestrali e ricevendo i loro messaggi tramite i sogni.»

Anati si sofferma ancora sul culto dei morti, sui miti che testimoniano la credenza in un Aldilà, sulle tombe con corredi funerari e sulle necropoli che costituiscono già dei luoghi sacri, per tradizione ritenuti carichi di energia, in cui era possibile entrare in contatto con forze sovrumane, con gli spiriti ancestrali attraverso il sogno, o le visioni.

sfide2Uno degli aspetti più originali della ricerca di Ries, scrive Christian Cannuyer, è l’articolazione tra la nozione di regalità sacra nell’Antico Oriente e quella di salvezza. Lo studioso aveva infatti osservato come nelle grandi civiltà del Vicino Oriente antico, dove fin dal IX millennio l’uomo diventa stanziale, l’immagine umana esprime la supremazia divina. Così troviamo creazioni in cui una figura femminile rappresenta la dea madre creatrice e signora degli animali, la statua del dio modellata a immagine dell’uomo, sottoposta a riti di coronamento, diviene luogo irradiante della presenza divina. L’Aurea luminosa, splendore del viso e dell’intelligenza, irradia dalle statue nei templi e nei santuari, in India, in Iran, in Occidente. Un ideogramma, una stella, precede sempre il nome della divinità a significare che questa è in alto, in cielo, e che il mondo terrestre è il riflesso del mondo divino celeste. Anche la sovranità regale è considerata emanazione della divinità grazie alla quale è in grado di diffondere ordine, benessere e prosperità nel paese. Secondo Ries, sottolinea Cannuyer, l’ellenizzazione ha trasformato le antiche teologie regali in religioni della salvezza (sȏtêria), tema che nel cristianesimo diverrà fondamentale in quanto implica una fiducia nel superamento dei limiti, in particolare quello della morte. La salvezza diviene non solo liberazione dai pericoli ma promessa di pienezza esistenziale e iniziazione a un destino soprannaturale, immortalità, divinizzazione. Tale visione di salvezza nella teologia cristiana orientale sarà concepita come « l’accesso dell’uomo alla sua piena dimensione, alla restaurazione della somiglianza che il creatore ha voluto stabilire tra sé e Adamo » (p.116).

Per dare un quadro, se pur incompleto, delle vie aperte dall’antropologia simbolica e degli sviluppi che può dischiudere, citiamo l’articolo di Davide Navarria: Gilbert Durand, Antropologia e immaginario. Durand e Ries, lo ricordiamo con gratitudine, hanno partecipato al progetto della rivista « Atopon, psicoantropologia simbolica e tradizioni religiose » e ne hanno assunto la direzione offrendo indimenticabile guida e prezioso insegnamento.

Per Durand, già nei tempora ignota della preistoria possiamo rinvenire un primo laboratorio dell’immaginario che custodisce insieme passato presente e futuro, immagini interne ed esterne, crea relazioni tra esse dando origine a quell’attività simbolica, ricchezza inalienabile dell’uomo, cosmo vivente aperto ad altri cosmi viventi. L’Homo erectus, volgendo lo sguardo all’orizzonte entra in relazione con l’ambiente e ne scopre le caratteristiche, ciò che è per lui pericoloso o salvifico. Acquista così interiore consapevolezza delle sue potenzialità, immagina un suo ruolo significativo nell’universo e si percepisce come legame tra cielo e terra. Quando l’immaginario e la mano si legano in un rapporto simbolico scaturiscono tecniche, idee, progetti e l’Homo habilis diventa creatore di cultura. Simboli celesti e solari e figure di oranti, con le braccia levate verso il sole sorgente (5.000 – 3000 a.C.) ci mostrano un homo symbolicusreligiosus che epifanizza l’invisibile e fa del corpo e dei suoi organi simbolo e epifania del mistero della vita nell’aldilà. « L’immaginario durandiano – scrive Navarria­ – è un locus religioso, posto al crocevia di un intreccio inestricabile, labirintico, al centro dell’ineluttabile dissidio che oppone il necessario della morte e l’impossibile di una vita oltre la morte. Il testo dell’esperienza è con-testo non solo in quanto relazione costitutiva con la totalità degli essenti, ma anche in quanto contestazione, rivolta, speranza contro ogni speranza: l’uomo non può, e non deve mai ‘(…) tollerare l’astenia di una fine’ ».

La via del simbolo può anche aprire la strada a un dialogo tra le differenti religioni intese come lingue diverse in cui differenti popoli esprimono la loro percezione del sacro e l’incontro con il divino. A questo proposito ci sembra particolarmente interessante l’articolo di J.M.F. Van Reeth: Ma’na, Origini di un teologoumeno arabo e la sua influenza sull’esegesi islamica: il carattere simbolico del discorso rivelato.

Il Corano è, secondo l’Islam, la parola stessa di Dio, senza l’intervento di un mediatore e dunque anche il profeta Muhammad sarebbe solo un portavoce che registra passivamente i propositi divini. Ma allora, come aveva obiettato Filone, si pone il problema di come possa il testo essere eterno e perfetto, senza finire con essere una profanazione della parola di Dio. I teologi mu’taziliti son riusciti a uscire da questo impasse ricorrendo al concetto di ma’nā. Se la sostanza del Corano è creato da Dio, il suo significato è espresso attraverso un discorso formulato in linguaggio umano e mutevole che appartiene a una data cultura, un popolo un’epoca e dunque, come ogni testo rivelato, diviene un simbolo (ma-nā). Simbolo che diviene strumento di mediazione tra l’umano e il divino, epifania di un mistero, come diceva Ries.

La nozione di simbolo applicata al Corano può divenire, secondo Reeth, un rimedio contro ogni forma di fondamentalismo basato sulla letteralità del testo sacro. Come sostiene il teologo egiziano Naṣr Ḥāmid Abū Zayd (1943-2002), nello spirito del mu’tazilismo, è possibile un’interpretazione metaforica del Corano perché “Revelation which is divine and sacred, is embedded in a language as Arabic that was developed wiyhin history, as such, a language has nothing to do with the divine or with sacred” (Hamafi) e “the sacredness of the Qu’rān is the realisation of its potenziality into reality”. Su tali aspetti medita la teologia sciita. Aziz Esmail ritiene che la rivelazione non sia un fatto compiuto, basato su un testo fissato, ma parola viva, relazione e dialogo che Dio mantiene con l’umanità. Spira la potenza mistica di Ibn Arabi: l’uomo che conosce se stesso trova Dio nel profondo della sua anima. Questo il senso più profondo e originario della «religiosità» che, come leggiamo nel saggio La casa aperta del religioso di Silvano Petrosino va « ricercato proprio nell’apertura-a e nella custodia-di una alterità incalcolabile che abita/inquieta ogni esperienza umana.(…) si tratta più precisamente di un legame con qualcosa/qualcuno che il soggetto, proprio in quanto tale, non può mai evitare (non può mai restarne indifferente) ma al tempo stesso neppure dominare (non può mai ridurre o assorbire o fare propria questa differenza).