Per spiegare il senso della rivista «átopon», appunto rivista di psicoantropologia simbolica e tradizioni religiose pubblicata a cura dell’Istituto Mythos, vorrei innanzitutto cominciare col raccontare come e con quali intenti è nato l’Istituto Mythos. Il gruppo di studiosi che ha fondato Mythos era prevalentemente costituito da psicoanalisti junghiani. Proprio come psicoanalisti ci incontriamo quotidianamente con il dolore, con l’ angoscia, in una parola con il male di vivere non solo del singolo che chiede aiuto e che, paradossalmente, essendo già consapevole del suo malessere ha più possibilità di difesa, ma con il male della nostra società, della nostra cultura, della nostra epoca, che è un’ epoca di secolarizzazione, in cui l’uomo è ormai un uomo senza qualità, ridotto ad una sola dimensione, schiacciato come Sisifo sotto il peso della materia. Come psicoanalisti, quale risposta dare a questa domanda angosciata e confusa di aiuto, se non una risposta che riconosca innanzitutto la dimensione simbolica dell’uomo e quindi la dimensione simbolica dei suoi bisogni, delle sue sofferenze, della sua domanda che è sempre metafora di un’altra domanda più profonda e celata. Questo, forse, è un punto su cui vorrei insistere perchè credo sia il punto centrale, ma anche il nodo e ciò che ha fatto sorgere molti equivoci e fraintendimenti a proposito della psicoanalisi. – La psicoanalisi è un’analisi di una sofferenza che si presenta come psichica – Il vero problema è quello di comprendere, di decifrare questa domanda, questo bisogno, questa sofferenza che naturalmente si presenta con un certo linguaggio, una certa modalità, ma questo modalità è simbolica. Per fare un esempio, è forse oggi a tutti abbastanza noto, perché se ne parla molto grazie ai mass-media – troppo, forse il problema dell’ anoressia e della bulimia.
L’ anoressia è il problema di chi rifiuta il cibo, la bulimia di chi ha bisogno di troppo cibo. Ma se si rimane esclusivamente a questo sintomo, a questo fatto, non si riesce certo nemmeno a toccare la vera essenza del problema. Si può arrivare a questo solo se si tiene presente che il cibo ha una dimensione simbolica, e quindi aver desiderio o rifiutare il cibo può voler dire ad esempio che si ha fame; bisogna però vedere di che cosa si ha fame, forse non di solo pane, perché l’uomo non vive di solo pane, e rifiutare il cibo può voler anche dire che quel pane che viene offerto non è il pane di cui ha bisogno la persona, che forse necessita di ben altro.
Ecco, questo tanto per spiegare, in maniera molto semplice, come si può muovere uno psicoanalista che tenga presente la dimensione simbolica.
Quindi la nostra risposta come psicoanalisti non potrà limitarsi a offrire una qualche soluzione o consolazione momentanea, insomma una terapia sintomatica che finirebbe con l’essere un’ altra droga, in aggiunta alle tante che la società moderna distribuisce. E dunque necessariamente la risposta dello psicoanalista non si può porre mai come definitiva e risolutiva, non ci sarà mai una sola causa. Il trauma infantile, o quest’altro problema o quest’altro ancora. Ma si dovrà sempre rimandare ad una nuova domanda. Certamente questa modalità di approccio può generare sgomento in chi, in preda all’angoscia cerca un sollievo immediato, ma sappiamo anche che proprio questo non poter tollerare la sofferenza, che è inscindibile dalla condizione umana e che ne costituisce il mistero, è causa di patologie e di nevrosi. Cos’ è la nevrosi, in fondo, la sofferenza, la patologia, la psicopatologia? Una sofferenza a cui non è possibile dare un senso, quindi non è possibile trasformare. Il nostro Istituto si è dunque proposto di promuovere un’attività culturale transdisciplinare, cioè che raccogliesse studiosi delle problematiche dell’uomo, ma un uomo collocato fra cielo e terra, in un dimensione quindi ad un tempo orizzontale e verticale o, come ci insegna il prof. Ries, nella mostra da lui curata qui al Meeting, un uomo con “i piedi sulla terra, ma lo sguardo verso il cielo“.
La transdisciplinarietà è una modalità, un’attitudine di pensiero che pur riconoscendo il valore delle specializzazioni cerca di superarle, facendo riemergere la loro unità nel rispetto delle differenze. La posta in gioco è ricomporre l’unità della cultura, ritrovandone il senso inerente alla vita. Con la rivoluzione dell’intelligenza in corso ci troviamo a confrontarci con nuovi aspetti di realtà, che la scienza, con le sue attuali modalità conoscitive può difficilmente interpretare, in quanto non sono esplorabili con le consuete modalità empiriche che collegano osservazione e sperimentazione; non si può misurare tutto con centimetro, né risulta vero soltanto quello che possiamo toccare con mano. Nel 1991 si è tenuto a Parigi un convegno internazionale sulle prospettive transdisciplinari promosso dall’UNESCO, su iniziativa del grande fisico teorico Basarab Nicolescu, specialista delle particelle elementari, al quale hanno partecipato scienziati, studiosi provenienti da tutti i continenti, i quali hanno denunciato l’esistenza di una pericolosa frattura fra la nuova visione del mondo prodotta dai progressi della scienza, soprattutto la fisica e la biologia, e il sistema corrente di pensiero fondato ancora sul determinismo meccanicista, sul positivismo e sul nichilismo. Tale frattura veniva dichiarata portatrice di gravi minacce di distruzione della specie umana. La conoscenza scientifica, per il suo proprio movimento interno, ha infatti raggiunto la frontiera da dove può e deve iniziare il dialogo con altre forme di conoscenza. Scienze esatte e sperimentali devono confrontarsi con le scienze umane e le scienze delle religioni, nella consapevolezza che il sapere, nella sua interezza, è un concetto più complesso della conoscenza scientifica.
Per questo ci siamo ricollegati con le esperienze più significative della nostra cultura europea, quali i famosi incontri di Eranos ad Ascona, sul Lago Maggiore. Eranos. Ricordo, per chi non ha avuto questa esperienza, – che si trattava di una vera comunità, nata in un’epoca buia e minacciosa (era il 1939), composta da persone che, avendo superato sia i complessi di superiorità che di inferiorità, tutti insieme docenti e discenti, aveva un unico proposito: studiare ciò che è essenziale all’uomo, alla ricerca di se stesso, ciò che ha significato permanente ed eterno. Eranos è una parola greca che indica quel pasto rituale, frugale, in cui ognuno porta con sé il proprio cibo per consumarlo insieme con gli altri, ritualmente, nella comunità. Io, più di 20 anni fa, sono andata per la prima volta ad Eranos avendo sentito parlare o avendo letto gli scritti degli autori, degli studiosi che avevano partecipato ad Eranos, e tutti i più grandi pensatori, da Jung a Dumezil, BurKardt, Corbin, tutti sono passati per Eranos ed hanno scritto. Quando sono stata lì, in questa piccola villetta in cui si incontravano insieme, in una vera comunità, questi studiosi, ho sentito che era veramente qualcosa di tanto grande ed importante che non poteva rimanere lì, bisognava fare assolutamente qualcosa perché un’esperienza del genere potesse continuare. E da allora non sono più ritornata ad Eranos, che è poi finito come tutte le cose di questo mondo, ma, naturalmente con tutta umiltà, si licet parva componete magnis Eranos ha ispirato la nostra comunità di Mythos e tutte le nostre energie le usiamo nel tentativo che questa idea possa aver seguito anche in Italia.
Ci siamo mossi in Europa cercando l’apporto culturale ed il sostegno degli uomini più rappresentativi collocati in questa linea di ricerca, che avevamo conosciuto attraverso le loro opere e che ci erano di modello e di esempio. Essi – e tra questi il prof. Ries (che ho incontrato sulle rive di un altro lago, quello di Ginevra), è stato tra gli esempi più significativi – ci hanno prova di che cosa sia la vera cultura: innanzitutto apertura, liberalità, generosità, disinteresse, capacità di dare testimonianza di ciò in cui si crede, ma anche lavoro costante, infaticabile, compiuto con tenacia, umiltà, spirito di sacrificio, abnegazione. E debbo dire questo, che quando in qualche momento crolliamo sotto il peso della fatica ci vergogniamo un po’ pensando al prof. Ries, che è sempre infaticabile, e quindi continuiamo a lavorare.
Una serie di seminari presso il nostro centro e presso altre Accademie ed Istituti di cultura, tre convegni internazionali i cui Atti saranno pubblicati sulla rivista «átopon», varie pubblicazioni e soprattutto «átopon» con la sua collana di supplementi, sono il risultato della nostra attività. «átopon» è al sul terzo anno di vita, ospita articoli di Julien Ries, di Gilbert Durand, fondatore in Francia negli anni ’60 di un centro interuniversitario di studi sui simboli e sull’immaginario, di Jacques Vidal, teologo francese, che ha dedicato anni all’ermeneutica del simbolo e che ha riconosciuto l’importanza di un’analisi critica delle ermeneutiche psicoanalitiche, dello studioso di simbologia portoghese Lima de Freitas, nonchè articoli di psicoantropologia, di paleoantropologia, di filosofia e di psicoanalisi, e schede iconografiche dei membri del nostro Istituto.
La psicoantropologia non è una scienza nuova. Ha avuto grandi maestri e una grande scuola, di cui possono essere considerati fondatori Gaston Banchelard,, Carl Gustav Jung, Gilbert Durand, Mircea Eliade, per citare solo alcuni dei più famosi. Così, la paleoantropologia non è certamente una scienza nuova, ma purtroppo, come ha detto il prof. Ries nella sua relazione sulle origini dell’uomo, “Cultura ed esperienza del sacro”, ancora troppo pochi sono coloro che si dedicano a queste discipline e, aggiungiamo noi, soprattutto in Italia, considerata la grande quantità di documenti da decifrare e da studiare.
Dobbiamo forse spiegare il senso della scelta dei nomi “Mythos” e “átopon”. Il nome Mythos vuole significare, secondo la sua accezione originaria, la parola fondante, che è ad un tempo parola ed essere.
Il termine “parola” tuttora presso il popolo, e la voce del popolo è ancora quella che conserva le sane tradizioni, ha un senso molto forte, si dice: “è un uomo di parola”, “è un uomo di una sola parola”, “ha dato la sua parola”, il che vuol dire che la parola era veramente qualcosa di importante, un ricordo insomma della Parola originale. Quindi una parola che è parola ed essere, non è fumo ma quando si parla, a questa parola corrisponde un fatto, corrisponde un essere; essa è racconto, che grazie alla dimensione simbolica ci accosta alle realtà più vere e profonde, alludendo, suggerendo attraverso una dimensione metaforica ciò che trascende l’immediata esperienza umana e che non può essere detta con il linguaggio della banalità quotidiana. Le parole del nostro linguaggio quotidiano ormai sono consunte, non hanno più spessore, perciò non possono essere più utilizzate per realtà più profonde.
Il mito, e ne abbiamo sentito parlare, abbiamo sentito con gioia parlare di questo al Meeting è quella verità di cui ogni esperienza umana è riflesso temporale. Si tratta di un verità la cui validità è al di fuori del tempo e dello spazio, perché vale ovunque e sempre. Il racconto mitico, come ogni racconto sacro, comincia con un “all’inizio…”, che è sia alla sommità che al principio. E il mito è strettamente collegato con il rito, che ne è l’ attualizzazione, la presentificazione, come nel sacrificio. Siamo nel mondo del simbolo, che tiene sempre strettamente uniti i due momenti, ora e sempre, materiale e spirituale, visibile ed invisibile.
E poi “átopon”, che vuol dire “senza luogo”, ma anche ciò che non ha luogo, formato da alfa privativo e “topos”. “Topos” è il luogo, quello in cui abitiamo, la nostra contrada, ciò che ci è familiare, l’opinione comune, il verosimile, il normale. “átopon” è tutto ciò che eccede, dunque si colloca fuori del normale, perciò talvolta può apparire strano, insolito, assurdo, non facilmente collocabile, ma anche eccezionale, straordinario, mirabile, e che ci fa intravvedere proprio attraverso queste impossibilità di trovare collocazione e di essere definito, un altro mondo. “átopon” è anche, per usare le parole del nostro grande padre Dante, “Quel mare al qual tutto si muove…”. “Atopon” è il simbolo, molti sono i suoi nomi.
Se noi abbiamo scelto dei nomi greci non è per preziosismo, nè per esclusivo amore della grecità, ma perché vogliamo ridare il loro antico significato a parole ormai banalizzate nel linguaggio quotidiano, che è preoccupato esclusivamente della funzionalità. Noi siamo purtroppo abituati a non perdere tempo, dobbiamo usare delle parole che ci facilitino la comunicazione, che siano funzionali, che ci facciano intendere subito; e in questo perdiamo l’antico patrimonio di quelle parole che hanno quel sapore antico, perché il sapore viene proprio da un’antica sapienza, (sapore e sapienza Hanno la stessa radice), cioè questo spessore, questo antico portato. E noi volevamo ritrovare queste parole, quindi le usiamo anche se ormai sono troppo banalizzate, ma le usiamo nel loro significato originario, antico.
E’ stata data anche grande importanza, sulla rivista, alla ricerca iconografica, com’era giusto, del resto, su una rivista di psicoantropologia simbolica. Le immagini, i simboli, hanno una grandissima importanza; e le immagini della rivista non rispondono solo ad un criterio decorativo, ma ad un criterio estetico, anche qui “estetico” nel senso più completo della parola, secondo la quale ciò che viene percepito rimanda a qualche altra cosa che lo trascende. In questo senso, possiamo dire con Dostojievskji, che il bello salverà il mondo. Noi abbiamo bisogno di questo bello oggi, di immagini che come nell’arte medievale abbiano un’evidente funzione simbolica, e il cui realismo non sia una visione unidimensionale, ma abbia la pluridimensionalità del simbolo, in cui l’aspetto fenomenico rimandi sempre ad un senso anagogico.”Anà ” vuol dire “su”, quindi collocato più in alto. San Gregorio Magno dice: “Ab historia in mysterium surgit“.
Nella rivista compare anche una rubrica cui diamo molta importanza, quella delle voci congressuali, nella quale si danno notizie o si riportano interventi fatti in convegni che abbiano tematiche affini ai nostri interessi. Convegni di studiosi il cui scopo unico è quello di incontrarsi ed incontrare coloro che sono spinti dalle medesime esigenze e ricerche di studio. Dei convegni che siano, proprio per usare un altro simbolo, per parlare il linguaggio simbolico, ispirati alla logica del “Potlach”, che nelle società tribali è un sacrificio, una gara del dare, non dell’avere. Nelle società tradizionali in ogni momento importante per la tribù colui che ha deve distribuire tutto ciò che ha agli altri, e questo è un sacrificio, è un atto sacro.
Ugualmente, i libri che segnaliamo nella sezione biblioteca sono libri italiani e stranieri che non rispondono alla curiosità del momento, ma che sono testimonianza di un pensiero forte, di un pensiero pensante, che possa prendersi la responsabilità di pensare e giudicare, secondo dei valori che vengano ritenuti universali. Libri parlanti, non libri parlati.
Ci viene in mente, a questo proposito, la leggenda di Toth, riportata da Platone nel “Fedro”. Il Faraone si mostra preoccupato davanti al dio Toth che ha deciso di regalare agli uomini la scrittura, perché, gli dice: “Gli uomini dimenticheranno l’arte della memoria”, che consiste nel tenere ben vive nel loro cuore le cose importanti, in quanto si fideranno dei libri a cui affideranno tutto il patrimonio culturale. Questo mito ci sembra essere riproposto come particolarmente significativo oggi, momento in cui tutto il patrimonio culturale dell’Europa (questa volta la lettera, non il significato metaforico e simbolico, non lo spirito) è sepolto e sta marcendo in quei cimiteri della cultura che sono diventate le nostre biblioteche. Nel quotidiano invece vive e trionfa la più assoluta barbarie. Allora, ecco, i libri di cui vogliamo dare testimonianza sono appunto libri parlanti, quindi vivi, testimonianza viva di ciò che appartiene al reale in tutto il suo spessore, in tutto il suo significato. Il che naturalmente non vuol dire che siano testimonianze dell’effimero o di ciò che è alla moda.
Vorrei ancora aggiungere poche parole per spiegare il rapporto, che forse non è immediatamente comprensibile ed evidente, fra psicoanalisi, psicoantropologia simbolica e problematiche religiose. Si apre qui in realtà un problema molto delicato, in quanto gli psicologi ritengono di non dover occuparsi che degli aspetti psicologici dei problemi con cui si confrontano, quindi ritengono di dover escludere dal loro orizzonte la dimensione religiosa. Questo soprattutto nelle intenzioni dei pionieri della psicoanalisi, nell’intento di poter esprimere il risultato delle loro ricerche e le opinioni che si venivano formando, senza incorrere nel giudizio o magari nella condanna dei teologi. Dobbiamo anche pensare alla nascita della psicoanalisi o ai momenti di grossa difficoltà che dovevano aver avuto sia Freud che Jung, che si trovavano e a dover esprimere il loro pensiero cercando di difendersi da una parte dai neuorologi, dall’altra dagli psichiatri, mentre da un’altra ancora avrebbero potuto esserci obiezioni dei teologi. Quindi è comprensibile come tentassero di limitare le loro affermazioni anche per avere meno nemici, insomma meno fronti su cui combattere.
Tuttavia cosa è successo? Proprio questo voler limitare l’orizzonte delle loro visioni fa sì che essi non possano comprendere appieno il vero significato di quei sintomi che si propongono di curare rischiando di trascurare la complessità del problema in tutte le sue dimensioni sia su un piano orizzontale che verticale. Il problema allora continua a persistere, magari cambiando sintomatologia, insomma rientra dalla finestra il problema che era stato cacciato dalla porta. In realtà, come già aveva riconosciuto Jung, molte sintomatologie della nostra epoca hanno origine da una problematica religiosa di cui la persona non ha preso coscienza. Con ciò, non vogliamo dire che gli psicoanalisti debbano mettersi al posto dei teologi, o dare risposte sul piano teologico, ma appunto debbono saper comprendere il vero senso di una problematica, che magari può presentarsi sotto sintomi in apparenza tanto lontani. Il che non vuol dire evidentemente che, tanto per fare un esempio, se una persona va dallo psicoanalista dicendo “ho un problema, sono preso dall’ansia, non posso uscire di casa, oppure non dormo la notte”, lo psicoanalista debba dirgli “hai un problema religioso, vai in chiesa”, perché susciterebbe soltanto una reazione aggressiva, dato che la persona viene con una sofferenza precisa che la tormenta e per la quale vuole avere soluzione, senza sentir parlare d’altro. Oppure, “io ho continuamente fame”, “dì un po’ di preghiere durante l’ora dei pasti e vedrai che la bulimia ti passa”. Sarebbe una cosa assurda, sarebbe un ricadere nella stessa modalità di pensiero della persona che soffre. Non è questo, ma lo psicoanalista deve saper comprendere che l’altra sta parlando in un linguaggio simbolico, anche i sintomi sono un linguaggio simbolico, e tenerlo per sé fino a che l’altro potrà arrivare alla tranquillità di muoversi in un altro piano. Ci si potrà arrivare mano a mano, adesso sarebbe piuttosto complesso spiegare come, ma mi sembra già abbastanza importante aver lanciato l’idea.
La modalità con cui la rivista è scritta è quella del rigore metodologico e della serietà scientifica, non per questo però è un’opera per specialisti e per addetti ai lavori. Anche se certamente non si tratta di una rivista di immediata facilità. Il proposito della transdisciplinarietà è del resto quello di far vivere la cultura fuori dei ghetti per specialisti, e di promuovere un pensiero vivo, articolato, profondo, nella consapevolezza degli eterni problemi dell’uomo e delle problematiche che in particolare investono la nostra epoca.
Da quest’ ultima esigenza è nata in particolare la collana di supplementi alla rivista che abbiamo chiamato “Nostoi“, ancora una parola greca che significa “ritorni”, e allude in particolare al mito degli eroi reduci da Troia, fra i quali il più famoso è Ulisse, che hanno dovuto affrontare lunghi e tormentati viaggi per terra e per mare, prima di ritornare alla loro patria. Ma ancora una volta si tratta di un mito che racconta la vicenda di ogni uomo, che rischia nel difficile viaggio della vita di perdersi, di essere travolto dai marosi, di cadere vittima delle insidie dei nemici, o del fascino di un miraggio, quale quello dell’eterna bellezza o della giovinezza di una maga incantatrice, o della voce suadente delle Sirene, e che può salvarsi solo se riesce a ricordare la meta, la patria, il luogo che gli è destinato e a cui deve tornare, e che è in realtà lo scopo stesso del suo viaggio, l’idea che ha fatto sì che il viaggio fosse intrapreso. La meta è sempre un “topos”, ma nello stesso tempo anche un “átopon”, perché dietro ogni viaggio concreto od ogni pellegrinaggio, dietro ogni rimpatrio c’è sempre quel luogo assoluto che si avvicina a noi e a noi si rivela, proprio attraverso l’esperienza del luogo, della nostra vicenda umana e mondana.