Streghe Una storia di terrore, dall’antichità ai giorni nostri

Ezio Albrile

Ronald Hutton
Streghe. Una storia di terrore, dall’antichità ai giorni nostri
(La Cultura, 1518), traduzione di Marco Cupellaro,
Il Saggiatore, Milano 2021, pp. 419

I conseguimenti, le acquisizioni e i fallimenti della società contemporanea contribuiscono in modo determinante alla disintegrazione della memoria culturale. Le memorie dell’antico, dell’umanesimo, del romanticismo, sembrano cancellate da una tecnica e una ‘scienza’ ormai egemoni non solo in ogni campo del sapere. Un libro sulle streghe ci riconduce in un tempo nel quale i confini fra realtà e illusione non erano ancora ben definiti, assestati come nel ‘terrore pandemico’ contemporaneo.

Il libro esordisce con una rassegna etnografica degli atteggiamenti nei confronti della stregoneria e del trattamento delle presunte streghe nelle società non europee, prosegue esaminando gli stessi fenomeni nelle società antiche dell’Europa e del Vicino Oriente; anche qui l’attenzione è rivolta soprattutto alle grandi differenze di credenze e prassi tra le varie civiltà e sulla rilevanza di molte di esse ai fini della successiva storia europea. La prima parte si conclude con una riflessione sulla questione se eventuali tradizioni sciamaniche estese a tutta l’Eurasia abbiano avuto un ruolo significativo nella genesi delle credenze europee in fatto di stregoneria e magia. In tale prospettiva, è inevitabile soffermarsi sulle diverse definizioni dello «sciamanesimo», un vocabolo creato dagli studiosi occidentali.

Gli antropologi, pur avendo fornito gran parte dei materiali di studio, hanno sviluppato, dalla metà del XX secolo in poi, una notevole diffidenza verso questa parola, proprio alla luce della sua imprecisione; quindi essa è stata applicata più liberamente nel campo della storia delle religioni e degli studi religiosi, oltre che da alcuni storici, archeologi, storici della letteratura e psicologi, inoltre, è stata largamente utilizzato fuori dell’àmbito accademico, in particolar modo nella sfera delle cosiddette «nuove spiritualità». Nella sua accezione più ampia, tale vocabolo designa le attività di chiunque sia ritenuto o si dica in grado di comunicare con altre dimensioni spazio-temporali, che siano i ‘mondi’ riservati alle divinità o in maniera più specifica agli spazi dell’oltretomba e dell’aldilà.  Molto spesso il termine è riferito alle tecniche di chi, nel quadro di una società tradizionale non occidentale, comunica regolarmente con gli spiriti a beneficio di altri membri della propria comunità. Ancora più frequente è il ricorso a questo vocabolo per indicare chi apparentemente comunica con gli spiriti in uno stato alterato di coscienza, descritto di solito come trance. Spesso per rientrare nella definizione di «sciamanesimo» occorre soddisfare anche altri requisiti: bisogna essere in grado di tenere costantemente sotto controllo gli spiriti anziché esserne controllati; di lasciar fuoriuscire temporaneamente dal proprio corpo lo spirito diretto verso altri mondi; o di creare il necessario contatto con gli spiriti nel corso di elaborati rituali. A un estremo del campo semantico si colloca chi vorrebbe confinare la genesi della parola alla Siberia e alle zone limitrofe dell’Eurasia: «sciamanesimo» deriva infatti da «sciamano», un vocabolo che deriva da un gruppo linguistico di area siberiana, il tunguso. Non esiste un criterio oggettivo per stabilire se una di queste accezioni sia più legittima delle altre: in pratica, gli autori, accademici e non, scelgono l’una o l’altra per comodità, nel contesto del proprio specifico ragionamento.

Lo sciamanesimo, e il problema delle sue definizioni, ha assunto rilievo nello studio della stregoneria dell’era moderna grazie all’opera di uno dei più noti storici italiani, Carlo Ginzburg, che elaborò la propria teoria a partire dalla scoperta di una tradizione esistita in Friuli all’inizio dell’era moderna: quella dei cosiddetti benandanti, o «buoni camminatori». Costoro affermavano che di notte, mentre il loro corpo era immerso nel sonno, oppure in una sorta di trance, il loro spirito usciva per andare a combattere contro gli spiriti delle streghe per il bene della comunità. Ginzburg comprese immediatamente che questa idea corrispondeva ad alcune attività tipiche degli sciamani, e riscontrò l’esistenza di altre tradizioni simili in varie zone dell’Europa orientale. Inoltre, egli avanzò l’ipotesi che tali tradizioni derivassero da un patrimonio comune di idee anticamente diffuse in tutta l’Eurasia, e che il ricordo di queste idee fosse il modello del moderno Sabba delle streghe. Ginzburg era consapevole della difficoltà di definire lo sciamanesimo, e per questo stette sul generico parlando di elementi di provenienza sciamanica ormai radicati nella cultura folklorica, come il volo magico e le metamorfosi animali, quali apporti nel formarsi di tali tradizioni stregoniche: figure come i benandanti non avrebbero praticato necessariamente lo sciamanesimo, ma si sarebbero ispirate ad antiche pratiche che derivavano dallo sciamanesimo oppure gli somigliavano. Ginzburg era fortemente influenzato dalle speculazioni dello storico delle religioni rumeno Mircea Eliade, un’autorità assoluta di cose ‘sciamaniche’, da lui ritenute frutto di una tradizione antichissima e universale che parlava di una cerchia ristretta di maghi guerrieri che in stato di trance avrebbero guidato la propria anima, al comando di una schiera di spiriti, a combattere contro le forze del male per difendere la propria comunità. Tale modello aveva un evidente nesso con i benandanti di Ginzburg; un particolare colto e sottolineato dallo stesso Eliade, che propose tra l’altro di estenderlo ad altre figure folkloriche dell’Europa sudorientale.

Benandanti

La conclusione che si può trarre da tutte queste ricerche è che ci sarebbero evidenti prove dell’esistenza di una vasta «area sciamanica» estesa non solo alla Siberia e alle zone adiacenti l’Asia centrale, ma anche alle zone artiche e subartiche dell’America settentrionale, la Russia e la Scandinavia. Inoltre, l’influenza di questo sciamanesimo si poteva cogliere anche nell’esistenza di un’«area subsciamanica» che copriva altre parti del mondo nordico, come la Norvegia e l’Islanda. Sarebbe quindi legittimo affermare l’esistenza di elementi sciamanici in pratiche magiche presenti in Europa, se non altro a causa della mancanza di una definizione generalmente accettata di «sciamanesimo»; ma una simile ipotesi non può essere dimostrata con certezza, e gli elementi in tal senso sono interpretabili anche in modi alternativi.

Uno di essi implicherebbe un volgersi più a ‘Oriente’, e interpretare il fenomeno della stregoneria come un lascito della magia praticata nell’antico Egitto. Gli antichi egizi, però, ignoravano il concetto di stregoneria, purtuttavia credendo nell’esistenza di entità spirituali spaventose e minacciose. Alcune agivano direttamente nell’universo, altre erano fantasmi di defunti o strumenti di divinità irate. Tali entità erano di solito associate a luoghi normalmente non frequentati dall’uomo, come la notte, il deserto, l’oltretomba. La magia serviva a proteggere gli uomini da tali entità che, pur non essendo considerate intrinsecamente malvagie, avevano sia qualità positive che negative: la prevalenza delle une o delle altre dipendeva di volta in volta dal contesto in cui esse agivano. Quando si riusciva a indirizzare quegli spiriti contro i nemici, essi diventavano poderosi alleati; alcuni testi erano interamente dedicati a illustrare come ottenere tale risultato. Al più tardi dal primo millennio a.C. si riteneva possibile e degno di elogio che un mago riuscisse con la propria abilità a porre al proprio servizio un’entità sovrannaturale. Particolarmente importante era conoscere il vero nome di quest’ultima, e chi padroneggiava questa conoscenza poteva esercitare su di essa un grande potere. Nell’arco dei tremila anni intercorsi dalla nascita del regno d’Egitto alla conquista romana, questo sistema di credenze non subì grandi mutazioni: l’unica novità fu un aumento del numero di azioni e oggetti associati. Stranamente, visto il carattere persistente, formalizzato e apparentemente statico della cultura egizia, quel sistema si dimostrò subito capace di assorbire idee da altre culture, specialmente orientali.

Gli antichi egizi non facevano alcuna distinzione tra religione e magia, non possedevano alcuna nozione in qualche modo assimilabile alla figura della strega e non avevano alcuna ostilità verso la magia; per contro gli antichi romani distinguevano tra religione e magia, avevano una visione articolata della strega e vararono leggi sempre più severe contro le pratiche magiche. È naturale chiedersi cosa accadde quando questi due universi culturali entrarono in collisione, nel momento in cui l’Egitto entrò a far parte dell’Impero Romano. La risposta è che gli egizi sembrarono adattarsi alla nuova situazione in modo estremamente creativo. La dominazione romana prosciugò le risorse finanziarie del sistema dei templi e spazzò via i privilegi del suo clero. I sacerdoti per motivi di sopravvivenza, non solo culturale, furono costretti ad allargare la propria offerta di servizi magici alla società, in un processo che appare associato allo sviluppo dei cosiddetti «papiri magici greci». Questi ultimi, come indica il nome, erano quasi tutti redatti nella lingua divenuta dominante dopo la conquista di Alessandro – il greco, appunto –, ad eccezione di una minoranza di testi in demotico (il sistema di scrittura allora utilizzato per la lingua nativa). In seguito (a partire dal II sec. d.C.) si sarebbe affermato il copto, basato sul greco con l’aggiunta di sette grafemi presi dai segni geroglifici; parte dei testi magici saranno quindi redatti anche in questa lingua. Gli atteggiamenti, le tecniche e i soggetti delle azioni magiche di questi scritti si collocavano a metà strada tra il proseguimento dell’antecedente tradizione egizia, e l’immissione di nuovi contenuti.

Uno degli aspetti di questo cambiamento fu un aumento della complessità e delle aspettative dei rituali, che essenzialmente servivano a invitare o evocare una divinità all’interno di uno spazio consacrato, al fine rivolgerle una supplica. A volte il dio o la dea si trovava sotto costrizione, e veniva scacciato oppure costretto a manifestarsi, attraverso un insieme di procedure ben definite. In parecchi testi si spiegava come evocare e «adorcizzare», cioè a far manifestare la divinità in un soggetto umano ‒ di solito un fanciullo ‒ affinché essa rispondesse a domande o fornisse indicazioni per bocca del medium.  Attraverso complessi rituali che coinvolgevano l’utilizzo di pietre, oggetti, profumi, sostanze animali e quant’altro, il mago evocava al suo cospetto le stesse divinità, costringendole a manifestarsi in forme predefinite, forzandole a risiedere in oggetti o manufatti esterni come anelli o medaglie. Per fare questo il mago entrava in uno stato di sonno catalettico, di trance medianica, coadiuvato dalla pronuncia di una serie infinita di onomata barbara, di parole incantatorie senza senso apparente il cui unico fine appariva il suscitare uno stato di visione ipnotica. A volte era egli stesso ad assumere l’identità di un dio o a fingersi tale.

Abraxas

Nelle invocazioni confluivano anche dèi, eroi e demoni di estrazione più varia: greci, romani, semitici, iranici, a conferma dell’essenza cosmopolita dell’Ellenismo. Le divinità importate erano generalmente associate alla suprema potenza e sapienza (Helios, Zeus e Mithra), alla magia (per esempio Hermes ed Hekate) o agli incantesimi d’amore (Afrodite ed Eros). Dalla cultura ebraica arrivarono Yahweh (vocalizzato in Iao), Mosè, Salomone e gli Angeli. Il risultato fu un sincretismo estremo: uno dei riti prevedeva ad esempio di rivolgere una supplica al dio greco Apollo, assimilato a Helios, all’Arcangelo Raffaele, allo gnostico Abrasax, attribuendogli gli epiteti divini ebraici Adonai e Sabaoth o chiamandolo «fiammeggiante messaggero di Zeus, divino Iao». Attraverso queste azioni magiche era possibile acquisire potere e sapienza e veder esauditi i propri desideri materiali. Mentre gli antichi sacerdoti egizi erano sempre intervenuti offrendo protezione contro le calamità o i nemici, gli autori di questi testi dovevano saper offrire ai clienti qualunque cosa questi domandassero.

Specificità innovativa delle ricette tramandate nei papiri magici era l’appropriazione a fini di magia pratica del linguaggio e dell’ambiente dei culti misterici del tardo ellenismo: quelle cerchie iniziatiche chiuse, consacrate a particolari divinità, che attraverso il rito offrivano ai loro membri una sensazione di intenso rapporto personale con le entità venerate. Uno dei testi dichiarava che il fine supremo della magia era «persuadere tutti gli dèi e le dee», rivolgendosi al praticante chiamandolo «beato iniziato alla magia sacra» e promettendogli che sarebbe stato «venerato come un dio» poiché avrebbe avuto «un dio per amico». Un incantesimo dedicato alla dea ibrida Hekate-Ereškigal (metà greca e metà mesopotamica) e indirizzato a combattere la «paura del castigo», metteva in evidenza l’importanza dell’iniziazione e della catabasi in uno spazio ipogeo, un ambiente sotterraneo dove l’adepto tra le altre cose avrebbe potuto vedere «la vergine», la stessa dea. Un ulteriore incantesimo per diventare amico di Helios esordiva chiedendo al dio di poter «continuare a godere della [sua] conoscenza» per acquisire il potere di esaudire qualsiasi desiderio terreno. Il più celebre di questi testi, scritto su ben 36 pagine, è quello contenuto nel cosiddetto Grande papiro magico di Parigi. Si tratta di un brano liturgico, senza connessione con gli altri testi del papiro, che narra la rigenerazione spirituale di un generico adepto o myste conseguita attraverso un viaggio celeste dell’anima e l’unione con il principio sommo. Un rituale estatico che Albrecht Dieterich definì «Liturgia mithriaca», dal momento che lo studioso teutone pensava che esso fosse funzionale ai misteri di Mithra.

L’ipotesi era totalmente errata. Franz Cumont, il grande filologo belga, ne rivelò l’infondatezza sottolineando al contrario le affinità con la gnosi ermetica, in particolare con il tredicesimo trattato del Corpus Hermeticum.  Il testo si distingue infatti da paralleli contesti magici per la centralità che ha il tema della rigenerazione, la palingenesia, la nascita di un uomo nuovo, spirituale e quindi immortale: già in questa vita, grazie all’estasi in cui si abbandona il corpo, l’anima ascenderebbe in cielo fino a congiungersi col dio assoluto, precorrendo le sorti ultime.

Inizialmente, il myste si rivolgeva a due entità che in realtà sono uno: l’anima del mondo, che a partire dal Timeo di Platone figurava l’elemento intermedio rispetto al dio supremo, e la Pronoia o Provvidenza, che era la reale presenza del dio nel governo del mondo.  La voce narrante proclamava di aver ricevuto i misteri dal sommo dio grazie ad un suo mediatore; inoltre, l’iniziato invocava le potenze affinché gli concedessero l’immortalità. L’esperienza estatica gli permetterà di far rivivere in sé il mondo smarrito degli dèi, edificando un corpo spiritualizzato e immortale. La «grazia» concessa dal Dio sommo è il dono recato al myste per compiere un viaggio verso una nuova identità, verso la palingenesi. L’estasi era suscitata attraverso specifiche tecniche respiratorie: esisteva un rapporto sostanziale tra lo pneuma o soffio individuale e il respiro cosmico; la tecnica respiratoria stabiliva un nesso diretto fra lo pneuma dell’uomo e lo pneuma cosmico, la materia di cui erano composti i corpi superiori. Pratiche corporee che troveremo più o meno modificate nei rituali stregonici.

I papiri magici attesterebbero quindi l’appropriazione di forme religiose a fini magici; un universo incantatorio che secondo Ronald Hutton sarebbe alla base della moderna stregoneria. Se da un lato il nostro autore afferra con acume l’origine di determinate figurazioni magiche, da un altro sembra ignorare fenomeni filosofico-religiosi quali lo gnosticismo e l’ermetismo, strettamente relati alla composizione dei «papiri magici».

Thot

Nell’immaginario ermetico, l’Egitto è da sempre ritenuto la patria degli dèi.  C’è una storia, tutta egiziana, che parla delle origini dei libri ermetici, legata alla spregiudicata regina Arsinoe II, mossa da sfrenata cupidigia di potere, ma tanto esaltata dai poeti di corte dopo la morte. Arsinoe da giovinetta era servita quale strumento di politica espansionistica egiziana nel Mediterraneo. Nel 300 a.C. all’età di appena sedici anni era stata mandata in Tracia a sposare l’anziano re Lisimaco e vi aveva governato come regina. Quando nel 280 Lisimaco morì, Arsinoe dovette rifugiarsi in Egitto presso il fratello Tolemeo II, che tre anni dopo la sposò, da cui l’eponimo di «Filadelfo» = «Fratello-amante». Alla triste notizia della sua morte, nel luglio del 270, Callimaco compose la Ektheōsis Arsinoēs, celebrandone l’apoteosi, la divinizzazione, immaginandola rapita in cielo dai Dioscuri, accolta tra le stelle dell’Orsa Maggiore mediante l’artifizio poetico del catasterismo. Morta la sorella-sposa, il Filadelfo fece costruire in onore di lei un monumento di culto principesco, sul quale erano scolpite due cornucopiae associate. Qualche tempo dopo iniziò a circolare la voce – sempre più insistente – che i due fratelli-amanti fossero entrati in possesso di uno scritto molto prezioso, il «Libro magico di Thot», che permetteva di agire sul divenire, superando le facoltà umane, avvicinandosi alle divinità mediante formule e rituali incantatori. Figli e successori cercheranno affannosamente questo libro meraviglioso. Le loro vicende sembravano ricalcare la storia demotica di Setne e di Naneferkaptah alla ricerca del libro esoterico scritto dal dio Thot. Un classico della letteratura magica dell’Antico Egitto, la cui fama si univa alla nascita della filosofia ermetica e del suo genio tutelare, Ermete Trismegisto, l’Ermete «Tre volte grande» equivalente di Thot, il dio egizio dalla testa di ibis, patrono della sapienza e della scrittura. Nel primo capitolo del Libro dei Morti il sacerdote nell’accompagnare la mummia al sepolcro si identificava con il dio Thot: egli nel rituale si impegnava ad eseguire per il defunto tutto ciò che il dio – in un tempo anteriore e mitico – aveva fatto per Osiride, traendolo a nuova vita, facendolo risorgere dopo la morte.

Bisogna inoltre sottolineare l’apporto dell’immaginario gnostico: l’aldilà degli gnostici era una elaborazione completamente originale. L’Ade classico era ripartito in tre livelli: un mondo fantasmatico dove vagavano le ombre dei morti, l’infuocato Tartaro dove erano punite le anime dei rei e i Campi Elisi dove le anime elette vivevano in completa beatitudine. A questo schema lo gnosticismo reagì, trasferendo il mondo infero dalla terra al cielo. Gli spazi planetari, infatti, diverranno i luoghi di transito e di espiazione delle anime nel cammino verso il Mondo della Luce. Un periglioso viaggio sorvegliato da esiziali carcerieri, gli Arconti. Gli Arconti, creazioni diaboliche, crearono l’universo come un enorme meccanismo, il cui fine era quello di assicurare la produzione e la trasformazione dei beni destinati innanzitutto al loro uso personale. L’uomo era intrappolato in tale meccanismo, nella sfera del destino governata da pianeti e astri, l’inesorabile moto propulsivo della Heimarmenē nella ruota zodiacale.

I confini tra gnosi, ermetismo, magia non sono quindi definiti; la capacità di evocare demoni e di impartire loro degli ordini venne, in àmbito stregonico, usualmente definita necromanzia, un termine che se da un lato implicava l’evocazione delle ombre dei defunti, da un altro includeva anche rituali ermetici e astromagici. L’evocazione demonica compiuta al fine di acquisire conoscenze segrete o proibite forse non richiedeva un’erudizione sofisticata, ma certa­mente il possesso di una maggiore esperienza che non la semplice pratica della stregoneria, tacciata di superstizione contadina, ed espressa in rituali grezzi che in seguito verranno etichettati quali epigoni di una pretesa «magia delle campagne». I metodi usati per le evocazioni demoniche seguivano i classici principî dei rituali astromagici, cioè il relegare uno spirito astrale, angelo o demone, all’interno di oggetto, in genere metallico (ma anche una bottiglia, un anello o uno specchio), e costringerlo ad agire secondo la volontà magica dell’operatore. La condanna di questo nuovo tipo di magia fu principalmente opera dei teologi scolastici, ma essi ricevettero considerevole so­stegno da parte del papato e dal suo «braccio violento», l’inquisizione. Nel condannare quelle pratiche i teologi non si limitavano a ripetere semplicemente il tradizionale attacco dei Padri della Chiesa contro la magia; essi dovevano rispondere piuttosto all’obie­zione che la pratica della magia astrale e demonica perseguisse propositi positivi. La risposta degli scolastici fu l’argomentazione logica che i demoni non fornivano servigi senza chiedere qualcosa in cambio. Le stes­se pratiche dei maghi lo confermavano, poiché essi molto spesso offrivano ai demoni sottomissione, o un rito spesso sacrificale, allo scopo di indurli al loro servizio. La conclusione a cui giunsero i teologi fu che praticamente tutti i maghi stipulavano patti diabolici.

Quando il mago evocava i demoni e offriva loro qualcosa in cambio il vincolo era evidente; altre volte era tacitamente inteso, nel sen­so che pur non stipulandosi alcun accordo, la pratica effettiva del­la magia implicava necessariamente il crearsi di una qualsivoglia relazione reciproca fra il diavolo e il mago. In entrambi i casi il ma­go doveva essere condannato perché, stipulando il patto, aveva reso partecipe il diavolo di un qualcosa che era solo concesso a Dio. Il mago era quindi un eretico, nella misura in cui non riconosceva a Dio la posizione esclusiva nel cosmo. Peggio ancora era un apostata, poiché egli abiurava la propria fede cristiana accet­tando di adorare o comunque di servire i demoni. Che i maghi fossero considerati eretici e apostati non era una novità, e nel fare questa affermazione gli scolastici si rifacevano a precedenti condanne della magia operate dai Padri della Chiesa. In un certo senso i teologi del XIV secolo confermavano un preceden­te atteggiamento della Chiesa nei confronti della magia contro le rivendicazioni dei maghi di non essere eretici.

Un’attestazione ermetica del sovrapporsi di queste due tradizioni sta in un documento dal titolo Lettera di Iside a Horus. Tale opuscolo parla di una rivelazione sopraggiunta nel tempio di Hormanuthi/Edfu, dove Iside avrebbe ceduto al desiderio dell’angelo decaduto Amnaele per ottenerne in cambio la rivelazione di alcune prassi alchemiche. È probabile che alla base vi sia una tradizione giudaica compendiata nel Libro di Enoch e rivisitata in vesti «egizie»: una leggenda secondo la quale i Vigilanti, gli angeli decaduti, si innamorarono delle figlie degli uomini e le sedussero inse­gnando loro le principali arti. La vicenda, raccontata nel «Libro dei Vigilanti» dell’Enoch etiopico (II, 6, 1-7, 1), rivela la sua antichità nei frammenti aramaici ritrovati a Qumrān.

Quanto raccontato è in sintonia con una visione della realtà comune sin dal Medioevo, cioè il credo che i demo­ni fossero angeli caduti, angeli di gerarchie inferiori. Alcuni demoni, specie quelli di grado più elevato, venivano in­dicati per nome, possedevano una personalità distinta. Le frequenti allusioni, durante tutto il Medioevo, all’aspetto fisico del diavolo e gli altrettanto frequenti riferimenti al fatto che prendesse dimora in corpi umani, evidenzia il problema sulla natura metafisica dei suoi poteri. Il tema, ampiamente dibattuto dalla teologia medievale, fu risolto nell’affermare che i demoni, come gli angeli, erano pu­ri spiriti, non possedendo né carne né sangue. Essi potevano, tut­tavia, assumere la sembianza fantasmatica di un corpo umano o animale mesco­lando l’aria e altri effluvi della terra in modo da creare una sorta di replicante, un corpo aeriforme totalmente smaterializzato; una attitudine che era propria anche agli Arconti dell’antico gnosticismo, contraffattori di una realtà che all’inizio era luminosa.

Oltre ad assumere il sembiante umano o ani­male, il diavolo e i suoi angeli decaduti potevano imposses­sarsi o abitare il corpo di un essere umano. Racconti di simili pos­sessioni si trovano nell’Antico Testamento e continuano nell’antichità cristiana e medievale. Sovente i soggetti posseduti appartenevano al clero, e lamentavano che il diavolo avesse as­sunto il dominio sopra un certo organo o una certa funzione cor­porea. Quando i poteri demoniaci prendevano possesso di un corpo umano non avevano bisogno di comprimere o ispessire l’aria per creare un involucro aeriforme; essi semplicemente prendevano possesso del soggetto, usando il loro potere sulla materia per dirigerne le funzioni. La possessione di individui da parte del diavolo e dei suoi demoni aveva una funzione significativa nella stregoneria, giacché la possessione poteva essere la conseguenza dell’agire magico di una strega. In altre parole, la strega poteva ordinare al diavolo di prendere possesso di una vittima a seguito di un patto stipulato con lo stesso.

Una delle principali facoltà del diavolo e dei suoi demoni era quella di creare illusioni. Analogamente a quella di creare replicanti o «cloni» degli esseri umani, tale facoltà derivava dalla capacità di muovere varie sostanze, immagini e umori. Così come era in grado di compri­mere e ispessire l’aria, egli poteva anche impossessarsi di immagini contenute nella mente degli uomini e sovrapporle alle loro facoltà mentali, sicché avessero l’impressione di vedere cose che in realtà non esistevano. Nell’antico gnosticismo gli Arconti producevano lo «spirito di contraffazione» (antimimon pneuma) che invitava Adamo a mangiare dall’Albero della Vita, dandogli l’illusione di conseguire poteri.

In alcune descrizioni del patto diabolico, esso com­portava la pratica della magia. In una delle più famose, un mago ebreo riusciva a indurre san Teofilo a firmare il contratto e, per ef­fetto dello stesso san Teofilo, acquisiva poteri magici. Il credo che i maghi stipulassero patti col diavolo era ben assestato a tutto il IX sec., tant’è che Rabano Mauro poté far riferimento alla conclusione del pat­to come presupposto per condannare la pratica della magia. Il vincolo fra magia e patto diabolico diventerà palese tra i secoli XII e XIII, quando la traduzione di una cospicua serie di testi ermetici, magici e astromagici, islamici e greci, portò a un aumento significativo nella pratica delle arti magiche e quando gli autori ecclesiastici divennero più determinati ed espliciti nel condannarla.

Ezio Albrile