Sull’origine del sufismo

P. Giuseppe Scattolin

Pagine in anteprima tratte da
Manifestazioni spirituali nell’Islam [1]
Letture di alcuni testi fondamentali del sufismo classico
(secoli I/ VII- VII/ XIII)

(in corso di pubblicazione)

 

La questione dell’origine storica del sufismo è stata molto dibattuta sia fra gli studiosi europei o orientalisti fin dai secoli XVII-XX, che fra studiosi musulmani antichi e moderni. Prendiamo qui brevemente in considerazione le principali posizioni degli orientalisti al riguardo, mentre in seguito tratteremo la posizione islamica sul tale argomento.

Al Ghazali

Occorre notare che il sufismo con cui i primi orientalisti vennero a contatto nei secoli XVIII e XIX era il tardo sufismo, soprattutto quello persiano dei secoli VII/ XIII – VIII/ XIV, rappresentato da sufi come Jalâl al-Dîn Rûmî e Shams al-Dîn Ḥâfeẓ Shîrâzî (m. 792/ 1390). Nei detti di questi sufi si trovavano molte espressioni di tono panteistico o monista che poco si confacevano con il rigido monoteismo islamico delle formule dogmatiche. Tipico a tal proposito è il famoso canzoniere di Johann Wolfgang von Goethe (m. 1832) dal titolo West-Östliche Divan (Il divano occidentale-orientale)[2], in cui il poeta romantico tedesco segue le tracce del poeta sufi persiano Ḥâfeẓ Shîrâzî, leggendo in esse il suo romanticismo panteista. Partendo da tali premesse, si svolse un lungo dibattito tra gli orientalisti sull’origine del sufismo e varie furono le teorie proposte. Presentiamo in sintesi quelle principali.

Una di esse fu quella dell’origine ariana del sufismo. Alcuni orientalisti vedevano un contrasto radicale tra il mondo spirituale di quei sufi, tutti di origine ‘ariana’ (cioè dei popoli indo-europei), e il legalismo tipico delle religioni semite (come l’Ebraismo e l’Islam), basato sulla rivelazione di una rigida ‘legge’, monoteista, dogmatica, dettata da Dio.

Altri orientalisti ricorsero alle religioni orientali quali il Buddhismo, l’Induismo, e il Taoismo per spiegare le fonti del misticismo islamico. Il grande studioso giapponese Toshihiko Isutzu (m. 1993) ha mostrato molti e interessanti paralleli tra la visione sufi e quella taoista in uno studio comparativo fra le due visioni[3]. In esso Toshihiko Isutzu mette in luce la profonda identità di concetti che esiste fra i due mondi. Tuttavia occorre dire che l’influenza delle religioni orientali avvenne (se avvenne!) in epoca molto tardiva rispetto alle prime manifestazioni del sufismo.

Altri hanno insistito sul monachesimo cristiano orientale come fonte del sufismo, mettendo in luce alcune somiglianze esistenti a livello di pratiche religiose (ad esempio, il vestito di lana – in arabo ṣûf – visto da molti come imitazione dei monaci orientali) e di pensieri (molte massime dei monaci orientali trovano eco nei detti sufi)[4]. È pure certo che in molti testi antichi si parla di incontri fra alcuni sufi e dei monaci cristiani orientali (vedi Ibrâhîm b. Adham, e altri), come vedremo.

Incontro di Jalal al Din Rumi e Molla Shams al Din

Ora però, dopo tutte queste discussioni, possiamo affermare che la questione delle origini del sufismo è stata alquanto chiarita. Fu il grande orientalista Louis Massignon (m. 1962), nel suo libro sull’origine della terminologia sufi, a difendere in modo convincente l’origine islamica del sufismo, che egli considera prima di tutto uno sviluppo interno della fede islamica[5]. Massignon mostrò che il linguaggio e la terminologia sufi derivano in primo luogo dal Corano, il libro sacro dei musulmani, mediante la tecnica dell’istinbâṭ, cioè dell’interiorizzazione del senso delle sue parole per mezzo della loro memorizzazione e la loro ripetizione meditativa continua. Tale tecnica, come si sa, esiste anche in altre religioni, come nelle invocazioni ripetitive dei monaci cristiani e nei mantra delle religioni orientali. La tesi di Massignon fu approfondita dal suo discepolo, lo studioso gesuita Paul Nwyia (m. 1980)[6]. Questi sottolineò in particolare l’importanza della messa in pratica e dell’esperienza (tajriba) vissuta delle parole dei testi sacri da parte del sufi, esperienza che porta a una trasformazione profonda della visione interiore del sufi stesso. Anzi, egli afferma che il sufismo “…ha creato all’interno della lingua araba un linguaggio nuovo, quello dell’esperienza spirituale”[7]. Possiamo dunque affermare che ora la maggioranza degli orientalisti accetta la tesi di Massignon, come vedremo in alcuni testi sufi di questa Antologia. Tuttavia, nel corso della sua storia, anche il sufismo ha subito l’influenza dei vari contesti storici per cui è passato, come lo è stato per altre discipline e scienze nella storia dell’Islam. Questo fatto deve essere tenuto presente nella lettura di molti testi sufi.

È da notare inoltre che i termini europei ‘sufismo’ (sufism, soufisme) non sono una traslitterazione diretta di un termine arabo, ma una latinizzazione del termine arabo ṣûfiyya, cioè sufismo in generale. Tale latinizzazione è stata fatta per la prima volta dall’orientalista tedesco Friedrich August Gottreu Tholuck (m. 1877) nel suo libro dal titolo assai significativo: Sufismus sive theosophia persarum pantheistica (Il Sufismus ovvero la teosofia panteistica dei Persiani) (Berlino, 1821).

 

La struttura interna del sufismo: la Legge (sharî‛a), la Via (ṭarîqa), la Verità assoluta (ḥaqîqa)

Quando si esamina la struttura interna del cammino mistico nell’Islam si trova che esso è un cammino che si svolge attraverso molte tappe, descritte in abbondanza nei vari manuali sufi. Inoltre, attraverso un’analisi approfondita si può notare che tali tappe possono essere riassunte in tre stadi fondamentali, indicati dai sufi stessi, che ogni discepolo deve percorrere per raggiungere la perfezione finale del suo cammino.

Prima di tutto viene la Legge (sharî‛a), termine arabo che designa in origine ‘la strada’ nel deserto che il beduino doveva percorre per andare a prendere l’acqua, e poi è stato usato per indicare la legge divina come cammino del credente. Tale Legge (sharî‛a) è stata stabilita e rivelata da Dio agli uomini, e nessuno quindi può cambiarla. Essa è riassunta nei cinque pilastri dell’Islam che ogni buon musulmano, e il sufi in modo particolare, deve osservare scrupolosamente. Questo è il punto di partenza di ogni cammino sufi: nessuno può pretendere di essere sufi se non osserva la legge divina (sharî‛a), rivelata da Dio. Essa è la tappa dell’obbedienza (ṭâ‛a) a Dio, a cui il sufi si sottomette totalmente. Nessuno va a Dio se non per la retta strada tracciata da Lui. Tutta la tradizione sufi testimonia l’importanza di tale tappa.

Poi viene la via (ṭarîqa), termine arabo che pure designa la strada ma in senso minore, e che come termine tecnico indica un metodo di vita che il fedele segue per vivere la legge divina secondo le intenzioni più profonde intese da Dio. In questa tappa prevale lo sforzo ascetico (jihâd mujâhada) attraverso cui l’aspirante sufi (murîd) cerca di purificare il proprio cuore per renderlo disponibile all’azione di Dio. Questo è uno stadio intermedio, ma pure necessario per giungere al fine del cammino sufi. Qui il discepolo impara a purificarsi dalle proprie mancanze per rivestirsi delle qualità divine, secondo un detto, trasmesso a volte come hadith: “Rivestitevi delle qualità di Dio (takhallaqû bi-akhlâq Allâh)”. Queste qualità divine sono riassunte nei novantanove nomi di Dio conosciuti nella tradizione islamica, che il sufi memorizza e recita continuamente aiutandosi con una catena di novantanove grani detta subḥa. In tal modo egli cerca di adornarsi di tali qualità. Occorre osservare che la sharî‛a riguarda soprattutto l’aspetto esteriore della vita sufi, mentre la ṭarîqa riguarda più il suo contenuto interiore, senza il quale le pratiche religiose diventano ‘gusci vuoti’ (qushûr), come afferma il grande teologo e sufi Abû Ḥâmid al-Ghazâlî.

Infine il sufi giunge alla Verità-Realtà (Ḥaqîqa) assoluta. Questo termine designa la tappa finale del cammino sufi, che consiste nella ‘scoperta’ o ‘rivelazione’ (fatḥ) di Dio, Realtà Suprema e termine ultimo di tutti i simboli religiosi. Il sufi quindi è chiamato a passare dall’esteriorità delle pratiche religiose all’esperienza interiore, personale e viva, e in fine al ‘gusto’ (dhawq) diretto della Realtà divina, fonte della vera conoscenza sufi (ma‛rifa). Ma l’incontro con la Realtà divina non è come gli altri incontri umani: esso comporta necessariamente una profonda trasformazione della persona del sufi. La storia mostra infatti che molte volte tale trasformazione porta a esperienze ed espressioni che sembrano essere in contraddizione con la prima tappa del cammino sufi, quella della Legge. In realtà si tratta di una speciale ‘interpretazione’ di questa, interpretazione che va al di là di un letterarismo puramente ‘giuridico’. A ogni modo, questo conflitto, in cui la bianca rosa dell’esperienza mistica dei sufi è stata sovente imporporata con il rosso sangue del loro martirio, immagine-simbolo della loro esperienza, sembra un dato ineliminabile dal mistero dell’incontro di due libertà: quella dell’uomo e quella di Dio, l’Assoluto. In tale incontro con l’Assoluto, il sufi si sente libero da tutti i limiti della sua umanità temporale, egli vive ora in una libertà che sempre sorprende e scandalizza coloro che sono legati solo all’esteriorità della Legge o dei simboli religiosi. La maggior parte dei sufi continuerà a sottomettersi alla Legge, non per necessità, come all’inizio del cammino, ma per l’‘edificazione’ della comunità dei credenti. Altri sufi, invece, si sentiranno spinti a manifestare anche esteriormente tale libertà interiore, in comportamenti antinomici e in espressioni che sembrano ‘bestemmie’ (le famose shaṭaḥât), in contraddizione con le definizioni dogmatiche della fede. Questo atteggiamento innovativo dei sufi sarà fonte di molti conflitti con coloro che sono rimasti attaccati alla lettera esteriore (ẓâhir), senza gustarne l’essenza interiore (bâṭin), cioè senza una viva esperienza con Dio, l’Assoluto.

P. Giuseppe Scattolin

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[1] Il presente lavoro è fondamentalmente la traduzione dell’antologia di testi sufi in arabo: Giuseppe Scattolin e Aḥmad Ḥasan Anwar, Al-Tajalliyât al-rûḥiyya fî l-islâm. Nuṣûṣ ṣûfiyya ‛abra al-târîkh (Spiritual Manifestations in Islam. Sufi Texts in History), Al-Hay’a al-Miṣriyya al-‛Âmma li-l-Kitâb, al-Qâhira (Cairo), 2008 (qui citato come Al-Tajalliyât). La traduzione italiana è notevolmente ampliata con nuove personalità sufi, introduzioni, biografie e commenti ai testi sufi e indici riveduti e ampliati.

[2] Johann Wolfgang von Goethe, Il divano occidentale-orientale, a cura di Ludovica Koch e ‎Ida Porena, Bureau Biblioteca Univ. Rizzoli, Milano, 1997.

[3] Toshihiko Isutzu, Sufism and Taoism. A Comparative Study of the Key Philosophical Concepts of Sufism and Taoism, University of California Press, Los Angeles, 1984.

[4] Vedi a proposito i detti attribuiti a Gesù (‛Îsâ) dalla tradizione islamica in: Sabino Chialà e Ignazio De Francesco (a cura di), I detti islamici di Gesù, Arnoldo Mondadori, Milano, 2009 (citato come: Chialà e De Francesco, I detti islamici). Questo libro è un’ampia raccolta e un interessante studio sui detti di Gesù presenti nella tradizione islamica, con la ricerca delle loro fonti e del loro significato.

[5] Louis Massignon, Essai sur les origines du lexique téchnique de la mystique musulmane, Les Éditions du Cerf, Paris, 1999 (1a ed. Geuthner, 1922) (citato come: Massignon, Essai).

[6] Paul Nwyia, Exégèse coranique et langage mystique, Dâr al-Machreq, Beirut, 1991 (1a ed. 1970) (citato come: Nwyia, Exégèse) .

[7] Nwyia, Exégèse, p. 4.