Cina, il drago e il Tao

Giuseppe Lampis

da Pólemos e il nulla. Filosofia della II guerra mondiale, (libro IX, Il nodo di Gordio); átopon 2017, pp. 5–10.

 

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Completamente rovesciato, rispetto a quanto dicevo precedentemente dell’America, è il clima della Cina. In Cina nessun individualismo, al suo posto un diffuso sentimento religioso della collettività e della massa. L’insormontabile contrasto secolare tra Cina e Giappone non poteva essere basato su cause più inconciliabili.

La cultura cinese tradizionale elegge a valore primo la famiglia, la tribù, la gente, la tradizione impersonale e sovrapersonale. I figli non sono figli del padre bensì dell’antenato più antico, l’individuo non esiste, quello che esiste è la parentela.

Nel Celeste impero il sovrano deriva la sua autorità dal drago del quale deve essere espressione; proprio il signore di tutti è sempre e essenzialmente tutti: in siffatto modo lo si ritrova nei campi della morte conservato per i millenni nella madre terra accompagnato dai cavalieri chiusi a migliaia nelle statue di terracotta.

Gli europei hanno sentito il fascino della Cina da tempi molto lontani. Intensi rapporti sono in corso dal XII secolo, i francescani hanno presto cercato una connessione. I gesuiti li seguiranno tre secoli dopo. Gli illuministi hanno contrapposto la calma e lo scetticismo dell’umanesimo orientale e cinese alla rissosità e all’intolleranza dei religiosi e dei filosofi occidentali. Confucio è stato considerato un saggio superiore ai presuntuosi intellettuali europei. Pound ha studiato il significato metafisico dell’ideogramma cinese, espressione del lampo e dell’istantaneità della verità che si apre, contro la letteratura occidentale contemporanea decaduta a mero intrattenimento. Nella poesia cinese perdura l’unità, dimenticata in occidente, tra significato e segno; una poesia bella deve essere scritta o dipinta con grazia. Gli amministratori in Cina devono essere nel tempo stesso poeti, poeti devono essere i capitani degli eserciti, poeta il sovrano, ognuno deve cantare e le leggi devono scendere verso il popolo nella forma di un’armonia gioiosa, se il capo è triste e non sa cantare il popolo è triste.

Chiang e Mao erano poeti di una certa finezza. Per trovare nelle nostre plaghe un capo laico intellettualmente educato bisogna risalire a Federico II di Hohenstaufen o a qualche imperatore romano.

La malìa cinese si è prolungata ai nostri giorni e nei luoghi più inimmaginabili, non sorprende che abbia raggiunto le università parigine del 68, sorprende di più che abbia coinvolto le truppe americane in Vietnam. Il maoismo è stato una corrente politica di rispettabile ampiezza e influenza pressoché nell’intero mondo. Il maoismo era un genere di comunismo che piaceva perfino ai fascisti.

In vari modi l’occidente, insomma, gira attorno al mistero cinese da molto tempo.

La costituzione basilare della cultura cinese invita meglio di altre a affrontare il progresso del sistema industriale–tecnico che esige comunità indifferenziate e collettivistiche e capi lungimiranti e pazienti. I dirigenti comunisti, che con spirito pratico hanno aperto al capitalismo i territori della costa sudorientale, da decenni stanno tentando una strada pericolosa, lo fanno probabilmente perché costretti dalle ineluttabili tendenze della situazione mondiale, tuttavia la costrizione è accolta con uno spirito di sufficienza e di sicurezza, quasi a intendere che la struttura profonda del loro paese sia pronta all’impatto. Per formulare il problema nei termini consueti al dibattito filosofico e politico occidentale, essi ritengono che non saranno assorbiti e sottomessi dal destino epocale della tecnica che spinge all’uniformità mondiale.

Sono solo dei presuntuosi che non si rendono conto di essere diventati uno dei poli del sistema che ha il centro nevralgico in Wall Street o la faccenda è ancora aperta? Ci sono ancora salamandre corazzate a resistere nella fornace in cui si cucina il futuro?

La Cina ha giocato un ruolo determinante nella guerra che ha disegnato gli assetti strutturali del mondo del Novecento e si è guadagnata una posizione di prima linea per combattere la battaglia finale attorno al dominio del mondo della tecnica. Non bisogna guardare unicamente alla macroscopica importanza dell’economia cinese e all’attrazione che esercita ora sui capitali occidentali come sulle anime degli studenti ieri; bisogna vedere altresì la vera partita etico–politica che essa ha deciso, ancorché costretta, di giocare.

Brzezinski giustamente osserva che gli imperi non decadono, si smembrano, si smembrano allorché si esaurisce la forza centripeta, l’attrazione verso il centro. Quale sia il centro della Cina non rimane chiaro per noi occidentali. La Cina ha appreso molto dall’occidente e lo ha fatto tenendo esclu-sivamente per sé qualcosa di molto importante, qualcosa che non siamo in grado di afferrare o copiare.

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Gli occidentali sembrano essere giunti adesso, nella piena maturazione della modernità, in una regione del generico e dell’uniforme nella quale i cinesi si sentono già da tempo a loro agio.

Da una parte abbiamo pensato che la perfezione stia nell’individuo e nella forma, dall’altra che stia nel drago dalle infinite possibilità e trasformazioni.

Da noi il drago è sempre stato il primordiale nemico di ogni dèmone e dio – il serpente Tifone o la Gorgone distruttivi di ogni forma. Nella tradizione dell’oriente cinese il drago è il Tao, il saggio di ogni sapienza, l’abisso che tutto contiene e che di tutto è il principio.

I popoli amanti della forma, all’apice della potenza, sono andati incontro a quelli amanti della non–forma.

L’ultimo secolo era stato inaugurato con l’oriente ridotto a bottino da spartire; l’eterna attrazione sentita dall’occidente nei suoi confronti è infine culminata nell’aggressione imperialistica ma la colonizzazione dell’oriente si è rivelata un’illusione. La questione d’oriente si è rovesciata in una questione d’occidente.

Giuseppe Lampis