Jung e la creazione della psicologia moderna Il sogno di una scienza

Sonu Shamdasani
MaGi edizioni, Roma 2007

Annamaria Iacuele


Limponente lavoro di Sonu Shamdasani, basato su uno studio appassionato e sull’attento esame di un ricco e finora inedito archivio, vuol essere una esaustiva presentazione della teoria psicologica di Jung, a partire dalla sua formazione, un riconoscimento della sua importanza nella creazione della moderna psicologia e della significativa influenza nello sviluppo delle scienze umane e nella storia sociale ed intellettuale del XX secolo. 

jung_psicol_modernaIl libro di Shamdasani è stato immaginato dall’autore come un ritratto cubista e propone un approccio sfaccettato all’opera di Jung che è essa stessa sfaccettata e articolata su piani molteplici.

Il testo inizia con un prologo: “ Il maledettissimo dilettante”. 

Il titolo sottolinea il fatto che l’opera di Jung, come la sua persona, sfugga ad ogni possibilità di definizione e di ‘incasellamento’ accademico-professionale. Questa sua modalità di guardare sempre ai vasti orizzonti della cultura e della psiche umana, rifiutandosi di accettare i limiti ben definiti di una particolare disciplina gli ha guadagnato il titolo per noi onorifico, secondo l’etimologia, di ‘dilettante’, cioè di colui che è mosso dalla passione, dal diletto, ma non gli ha risparmiato molte critiche da parte di coloro che constatavano come il suo metodo di studio facesse spesso saltare i protocolli scientifici a cui erano abituati. 

Shamdasani considera importante il processo di formazione della psicologia in sé, divenuta al giorno d’oggi un fenomeno della vita contemporanea che esige particolare attenzione. Infatti le teorie psicologiche sull’essere umano hanno trasformato il soggetto che prefiggevano di studiare e le categorie interpretative, vastamente adottate, hanno prodotto nuovi modi di vivere. 

E Shamdasani ritiene della massima rilevanza il ruolo di Jung nella creazione della psicologia moderna. Ricorda che Jung, pur avendo utilizzato inizialmente il termine “analitica” per designare la sua psicologia, la ribattezzò negli anni Trenta “psicologia complessa, ossia psicologia delle ‘complessità’, vale a dire dei sistemi psichici complessi”. 

Jung riteneva che la psicologia fosse l’unica disciplina che riuscisse a cogliere il fattore soggettivo sotteso alle altre scienze. Rivelatrici le sue clausole: “Il trattamento della psicologia dovrebbe in generale essere caratterizzato da un principio di universalità. (…) la psicologia dovrebbe essere insegnata nei suoi aspetti biologici, etnologici, medici, filosofici, sorico-culturali e religiosi”. 

La psicologia in quanto disciplina che unificava il cerchio delle scienze doveva comportare una cultura enciclopedica: non c’era campo della del comportamento umano che, secondo Jung, fosse irrilevante per la psicologia. Egli stesso aveva adottato il motto di Terenzio: homo sum nihil humanum mihi alienum puto e la sua cultura spaziava nei campi più disparati. Come il grande filosofo Eraclito, Jung credeva che “i confini dell’anima per quanto lontano tu possa andare non li troverai, pur peregrinando per ogni via, tanto profondo è il suo logos”. 

La sua psicologia voleva essere uno studio interdisciplinare di ampio respiro: “abbiamo bisogno non solo degli psicologi e dei medici, ma anche dei fillologi, degli storici, degli archeologi, dei mitologi, degli studiosi di folklore, degli etnologi, dei filosofi, dei teologi, dei pedagoghi e dei biologi”. Per questo egli dava grande valore alle collaborazioni e agli scambi con gli studiosi delle differenti discipline, quali la microfisica, la teologia, la sinologia, l’indianistica, l’islamistica; ricordiamo tra gli altri il fisico Wolfang Pauli, l’indianologo Heinrich Zimmer, l’epistemologo Gilbert Durand, l’islamista Henri Corbin, con i quali si incontrava ogni estate ad Ascona, sulle rive del lago Maggiore, durante ‘le giornate di Eranos’ che hanno costituito senza dubbio la più ricca e feconda esperienza culturale del XXsecolo.

Jung si era posto un compito gigantesco, quello di salvare il destino della cultura dell’Occidente.

Non c’è da meravigliarsi se, nonostante il grande successo della sua opera, egli si sentisse talvolta frainteso e mal interpretato e soprattutto sentisse di non aver compiuto appieno il suo compito. 

In una lettera del 1960 egli scrive: “devo capire di essere stato incapace di far comprendere alle persone che cosa perseguo. Sono praticamente solo (…) ho fallito nel mio compito più importante, aprire gli occhi della gente alla realtà che l’uomo possiede un’anima, che c’è un tesoro sepolto nel campo e che la nostra religione e la nostra filosofia sono in uno stato deplorevole.” 

Aver sottolineato l’importanza di questo compito improcrastinabile è forse l’eredità più significativa che Jung ha lasciato agli psicologi e il libro di Shamdasani può aiutarci a ricordarlo.

Annamaria Iacuele