L’uomo simbolo tra i simboli

Claudio Widmann
La simbologia del Presepe
Ed. MaGi, Roma, 2004

Maria Pia Rosati

 

L’uomo vive in un universo di simboli ed è egli stesso simbolo, microcosmo di un macrocosmo, continua tensione creatrice, volto e mediatore dell’Universo nelle sue antitesi che sempre si oppongono e sempre aspirano alla sintesi.

Ma questo è appunto l’Uomo perfetto. E proprio di questo Uomo la nascita viene celebrata nel solstizio d’inverno: nel cuore delle tenebre farà sorgere la nuova Luce.

Nella Festività cristiana del Natale si celebra il mistero della vita, dell’incarnazione di questo uomo e Dio che in sé riunisce la debolezza della creatura e la potenza del divino, la cui nascita è cantata dagli Angeli nella gloria dei cieli e in terra dagli uomini di buona volontà che sanno percepire la presenza degli angeli ed ascoltare la loro voce, come i segni del cielo.

In tutto il mondo, al di là dell’osservanza della pratica religiosa cristiana, è diffuso il bisogno di festeggiare in questo momento dell’anno un grande mistero.

Gli uomini hanno bisogno di festa. Hanno bisogno di uscire dal tempo quotidiano, misurato dalle ore che scorrono, di uscire dai luoghi usuali per trovarsi di tanto in tanto in un altro luogo e in un altro tempo, nell’átopon, nel tempo della festa appunto nel quale l’uomo si propone di vivere accanto al divino, realizzando in se stesso l’Uomo perfetto, il destino di Luce a cui si sente chiamato. Goethe diceva all’uomo « w erde das d u bist», divieni ciò che sei. Jung ha chiamato processo di individuazione questo cammino di trasformazione profonda che porta a compimento e maturazione la natura stessa dell’uomo facendolo pervenire alla personalità totale, al Sé. Nell’individuazione, l’uomo tende alla realizzazione del suo essere uno con il Tutto, nella Pace universale, nella coincidenza degli opposti.

Ma quando le parole diventeranno “parola”? si domandava Martin Heidegger.

Anche per Eraclito è sapienza quella solo di colui che, oltre a dire “cose vere”, pure le fa e aveva parlato di un vero e che si fa e che si dice (B 112: alêthéa léghein kaì poieîn ):

Quando l’Uomo potrà farsi pastore dell’Essere?

Heidegger parla dell’Essere che si è allontanato dall’uomo attuale, di oblio dell’essere. In tal modo si avvierebbe il destino dell’Occidente, dall’età della Grecia classica, allorché non si riesce più a intendere che cosa sia alétheia, la verità, e si confonde l’essere con il mero oggetto pratico o la cosa. Heidegger non attribuisce l’avvenimento a una svolta in potere dell’uomo, bensì la pensa come un’eclissi dell’essere che si ritira fuori della vista umana. Eppure l’uomo non è estraneo a quel che accade.

Se l’essere si è allontanato dall’uomo attuale, c’era tuttavia un uomo al quale era vicino, come Abramo nel campo di Mamre con i due angeli ( Genesi 18). Le tradizioni ci parlano di popoli che siedono e mangiano con gli dei, ai confini del mondo:gli Etiopi ( Iliade I, 423-57), i Feaci ( Odissea VII, 201-3), gli eroi.

All’essere che si fa vedere – o intravvedere come fondo non esaurito nelle cose determinate – deve corrispondere un uomo che si protende e dispone.

L’uomo che non vive più nella dimensione simbolica, sempre memore dell’altra parte del symbolon (la tessera a ricordo di un legame indissolubile di cui si tiene solo una parte nella speranza e nell’attesa del ricongiungimento con il possessore dell’altra) ma schiacciato in un’unica dimensione, perde la possibilità creativa e trasformativa propria dell’uomo e si ammala. Molte delle patologie di cui si lamenta l’uomo di oggi sono dovute ad un sentirsi schiacciato da una realtà ad una sola dimensione, orizzontale, sì che egli si sente irrimediabilmente dannato, avendo perso anche “la speranza dell’altezza”.

Riteniamo dunque alquanto significativi tutti i tentativi di ricordare all’uomo che egli comunque vive in un universo di simboli e che il suo sguardo nei confronti della realtà deve dunque essere tridimensionale.

Perciò salutiamo con piacere il testo dell’amico Claudio Widmann, psicologo analista junghiano su “ La simbologia del Presepe ”.

Si tratta di un testo scritto da uno studioso, nel senso etimologico della parola, cioè di chi circonda di appassionata attenzione la materia delle sue ricerche. Widmann ama le tradizioni, i simboli, le opere artistiche, letterarie, musicali che esprimono e ci fanno vivere tali tradizioni.

«Il passaggio da un anno all’altro – scrive- è scandito da tradizioni che appartengono a mai estinti ‘riti di rinnovamento’. Il compimento sostanziale dei cicli, l’attenuarsi della luce, l’ibernazione della vegetazione costituiscono lo sfondo ancestrale su cui si dispiegano moderni festeggiamenti della luce (i falò di S. Silvestro), attuali celebrazioni della vita vegetativa (l’albero di Natale), diffusi riti di prosperità (l’opulento cenone della Vigilia). Appartiene a questo complesso di riti anche la rappresentazione della natività che è tema archetipico comune alla storia di Mitra, Aion e Buddha e altri. Tratti singolari accomunano queste nascite: la grotta buia, la madre vergine, la stella in cielo, la presenza di animali…

Riecheggiano in esse il contrasto tra luce e tenebre, l’opposizione fra luogo sotterraneo e regno celeste, la lotta fra il vecchio re e il nuovo nato ed è facile ravvisarvi una descrizione allegorica del ciclo stagionale che si rinnova e della luce che rinasce.»

Ma Widmann è anche e soprattutto uno psicoanalista, studioso e ‘terapeuta’ dell’anima che sa come «l’eccezionale venuta al mondo di un figlio di luce parla della straordinaria nascita di un lume di consapevolezza nell’esperienza umana» e come il presepe così radicato nella tradizione del Natale «rappresenta plasticamente l’alba della coscienza e mette in scena gli stati aurorali di un processo che porta l’individuo a stutturarsi in maniera consapevole».

Maria Pia Rosati