La conversione di un uomo moderno

Maria Pia Rosati

Domenico Burzo
LA CONVERSIONE DI UN UOMO MODERNO
Pavel Florenskij e il sentiero dell’esperienza religiosa
Prefazione di Lubomir Žak
MIMESIS EDIZIONI, Milano 2020.

 

La prefazione di Lubomir Žak, teologo della Pontificia Università Lateranense, che ha dedicato molti suoi studi alla teologia ortodossa e in particolare a Pavel A. Florenskij, già nel titolo Alla ricerca di una visione di insieme, ci fa intuire il cuore della ricerca che padre Pavel Florenskij ha perseguito lungo il sentiero dell’esperienza religiosa fino alla fine della sua vita quando nel 1937 nel gulag staliniano delle isole Solovki, prima della fucilazione, scrisse

Che cosa ho fatto per tutta la vita? Ho contemplato il mondo come un insieme, come un quadro e una realtà unica, ma in ogni istante o, più precisamente, in ogni fase della mia vita, da un determinato angolo di osservazione.  Ho esaminato i rapporti universali in un certo spaccato del mondo […]. I piani di questo spaccato mutano, tuttavia un piano non annulla l’altro, ma lo arricchisce, cambiando: ossia con una continua dialettica del pensiero […]. (p. 9)

Florenskij, come aveva scritto il suo amico Sergej Bulgakov, non era solo un fenomeno di genialità, tutta la sua vita è stata un’opera d’arte. Nella sua persona tutto era profondamente e intimamente collegato, le sue intuizioni erano ad un tempo intellettuali, mistiche, spirituali. Scienziato pluridisciplinare (matematico, fisico, chimico, biologo, letterato, artista), aveva saputo cogliere nella visione religiosa una dimensione superiore:

mentre le verità scientifiche sono limitate, temporanee, soggettive, quelle religiose sono un asse saldo nella storia, mai attaccato dai vortici dei tempi, perché il loro contenuto è attuale in eterno. (L. Žak, p. 11)

La modalità, il come della sua ricerca e la sua ininterrotta tensione intellettuale hanno illuminato la sua conversione e il sentiero dell’esperienza religiosa che egli percorse in profonda sintonia con l’esperienza Cristica.

Due idee, due focus concorsero alla visione del mondo di Florenskij e alla sua concezione della religione:

sia l’idea dell’esistenza di una conoscenza innata, preconcettuale e preverbale, che conferisce a ogni uomo e donna la capacità di entrare spontaneamente in una comunicazione empatica con il cuore sacro di ogni essere e si manifesta come una sorta di senso comune onniumano percepito ed esercitato in particolare dai “popoli semplici”, vicini alla natura, capaci di rispettarne la sacralità e di vivere in sintonia con il ritmo della sua misteriosa vita; sia l’idea di un’ontologia pan-en-teista, ossia di un’interpretazione ontologica delle parole dell’apostolo Paolo: “In Lui [Dio] infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,28), parole che indicano quale sia la reale situazione di ogni cosa creata; quella, cioè, che tutto ciò che esiste è mantenuto nell’essere da un unico fondamento, da un’unica radice realmente presente nelle profondità abissali di ogni esistenza: la luce vivificante che, rifranta in infiniti raggi, promana dal Creatore […]. (L. Žak, p.13)

Durante la prigionia, anche nei momenti più brutti, Florenskij ha creduto nella possibilità di una comunicazione “non attraverso lo spazio, ma al di sopra dello spazio”:

Noi conosciamo una cosa non perché la vediamo, la udiamo, la fiutiamo e la tocchiamo, ma al contrario: se vediamo, udiamo, fiutiamo e tocchiamo, è perché già prima conosciamo la cosa, cogliendola (anche se inconsciamente o al di sopra della coscienza) nella sua autenticità e nella sua realtà diretta. La percezione, allora, deve essere considerata solo come materiale per il trasferimento della cosa dalla sfera inconscia a quella cosciente, e non come materiale del contenuto stesso della conoscenza (lettera del 21 febbraio 1937). (p. 14)

Nelle lettere inviate dal gulag, Florenskij sottolinea l’origine ontologica della spontanea/innata empatica comunicazione tra gli umani, legata alla struttura sostanziale degli esseri, “condizione primordiale e universale di ogni esperienza religiosa quale percezione innata e timorosa della presenza del mistero nella vita”. (L. Žak, p. 14)

Žak si dice convinto che il libro di Domenico Burzo, proprio in quanto nato “dal desiderio di un dialogo vitale e intimo con Florenskij, facendo proprie le sue domande e sperimentando esistenzialmente la verità delle sue risposte” possa offrire un significativo contributo alla pur vasta e importante ricerca florenskijana.

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Il libro è diviso in tre parti.

Nella prima parte, Il Cammino Faticoso Della Conversione, Burzo ha cercato di seguire Pavel A. Florenskij nella dinamica che lo ha condotto dallo scetticismo alla fede, e ha confrontato il sentiero della sua esperienza religiosa con la modalità di percepire l’esistenza tipica dell’uomo moderno occidentale sin dal rinascimento. Si è anche ampiamente soffermato sul dove e come la sua visione si è collocata nel contesto filosofico contemporaneo in dialogo con grandi studiosi del sacro come Mircea Eliade, Romano Guardini, Walter Otto e figure significative della letteratura russa come Tolstoj e Dostoevskij.

Scissione e sdoppiamento: il dramma della modernità, titolo del primo capitolo introduce al dramma interiore da cui ebbe inizio la svolta decisiva della vita di Florenskij.

Nato in Azerbaigian, vissuto in Georgia tra le montagne del Caucaso e le spiagge del Mar Nero, già dai primi anni della vita il giovane Pavel, colmo di meraviglia e stupore, si sente avvolto dalla magica forza vitale della natura che contempla incantato. Tutto gli appariva “misterioso ed enigmatico”. “Il senso del mistero” divenne la nota “dominante”, “lo sfondo” della sua interiorità

Mi piacevano […] l’aria, il vento, le nuvole; mi erano vicine le rocce, sentivo spiritualmente affini i minerali, soprattutto i cristalli, amavo gli uccelli, ma più di ogni altra cosa le piante e il mare.

 Ogni cosa poteva rivelarsi “un indizio, un prodigio della natura in cui l’essere recondito sollevava la cortina del suo mistero per lanciare uno sguardo scaltro”. (p. 30)

Il bambino possiede formule metafisiche precisissime su qualsivoglia trascendenza, e quanto più forte è il suo senso dell’Eden, tanto più determinata è la sua conoscenza di tali formule. Quanto a me, posso dire che la mia vita successiva non mi ha rivelato nulla di nuovo […]. Tutto il mio sapere sulla vita si era formato nelle mie primissime esperienze, e quando la coscienza le rischiarò le trovò completamente formate, terreno ubertoso che attendeva solo condizioni propizie per dare frutto. (pp. 30-31)

Si veniva formando in lui una visione metafisica della realtà in cui coesistevano, distinti e inseparabili, due mondi, mondo sensibile e mondo sovrasensibile, collegati da corrispondenze per cui, attraverso un legame inscindibile, questo mondo si rivelava alimentato dalle energie dell’altro mondo. Lo schiudersi al mistero diventerà il motore di tutta la sua vita.

Tuttavia il piano educativo della famiglia, in sintonia con la modalità positivistica dell’epoca, intendeva indirizzare il giovane Florenskij a una visione scientifica del mondo, “scacciando senza pietà il soprannaturale” che turbando la sua viva sensibilità avrebbe potuto intralciare i suoi studi. Non sono consentite favole e fantasie. Il giovane sentiva che il suo spirito anelante al mistero e alla meraviglia era come soffocato e impercettibilmente spinto allo scetticismo e al dogmatismo scientifico.  Ciò produsse una dolorosa lacerazione interiore che pure generò una forte risonanza spirituale: anche le vette dell’esperienza scientifica, inevitabilmente, venivano indorate dal sentimento magico, meraviglioso, simbolico della natura.

Mi pareva sconveniente e ingenuo spiegare il mondo agli altri tramite la magia […]. Dunque io parevo uno “scienziato”, mentre interiormente ero un “mago”. La mia, però, non era finzione, ma pudore sui generis e decoro mentale. (p. 39)

Ma come diventare un adulto adeguato al mondo moderno? Cominciò in lui una sorta di sdoppiamento, “la malattia del nuovo pensiero”: la scissione tra il pensiero scientifico inumano e l’umanità priva di pensiero. Il dolore lacerante che sentiva in se stesso lo portò a comprendere che l’uomo occidentale era stato sottoposto a scelte culturali che ne avrebbero inaridito l’anima. Visse questo dramma personale in un’epoca di grande travaglio spirituale, culturale e politico che coinvolse il mondo intero.

Mi fu di colpo chiaro che “il tempo era uscito dai cardini” e che, di conseguenza, si era concluso qualcosa di estremamente importante non solo per me, ma per la storia tutta. (p. 44)

Sia la realtà di Dio, sia il rapporto dell’uomo con Lui vanno giustificati davanti alla coscienza contemporanea, per la quale la stessa esistenza di Dio e le realtà affermate dai dogmi hanno perso la loro evidenza e non sono più la radice della sua concezione del mondo e della sua percezione della vita.

La meta di Florenskij era “adorare Dio in ‘spirito e verità – ἐν πνεύματι καὶ ἀλεθείᾳ”. E non fu facile trovare il cammino per raggiungere tale meta.

La conquista della verità, così come quella della santità, il “guadagnarsi lo Spirito”, richiede ardimento, richiede azzardo e non un semplice rifiuto del male: colui che naviga stringendosi timoroso alla riva e temendo il mare aperto per le tempeste in cui potrebbe incorrere, non raggiungerà mai la meta agognata. (p.23)

Nel momento in cui veniva maturando la sua conversione, la lettura della Confessione di Lev Tolstoj gli destò una viva impressione: percepì la sofferenza che lui stesso aveva provato mentre attraversava le lande desolate del dubbio e dello scetticismo e gli sembrava si spalancassero “le voragini della coscienza contemporanea”. Lo spirito aveva bisogno di un significato, di un orizzonte di senso. Come scriveva R. Guardini, l’angoscia dell’uomo moderno era dovuta alla mancanza “di non avere più un simbolico punto di appoggio”. E, quando le cose sono solo le cose, si ha paura di essere inghiottiti dal vuoto e dal nulla. Si rischia di perdersi, “nell’ultimo cerchio dell’inferno scettico, là dove svanisce il senso stesso delle parole”.

 “La verità è irraggiungibile”, “non si può vivere senza la verità”: queste due asserzioni ugualmente forti mi straziavano l’anima e portavano all’agonia il mio spirito. Come e dove trovare quel punto fermo che possa permettere la beatitudine? (p.92)

Florenskij sente che è arrivato il momento decisivo. Il lavoro precedente sembra crollare, eppure intuisce “l’inizio della liberazione e della resurrezione”.  Una notte di primavera, durante un sonno profondo, ebbe “una emozione non-figurativa e ineffabile”, di chiara natura “mistica” e si sentì come rinchiuso in una miniera, quasi sepolto vivo, e nessuno poteva aiutarlo. Era disperato per non poter uscire da quello stato.

In quell’attimo un raggio di sole sottilissimo, che era o una luce invisibile o un suono impercettibile, mi recò un nome: Dio. Non era ancora un’illuminazione né una rinascita, ma solo la notizia di una possibile luce. […] mi ritrovai faccia a faccia con un nuovo fatto, tanto incomprensibile quanto indiscutibile: esisteva un regno delle tenebre e della morte, e da esso veniva la salvezza. […] Per me fu una rivelazione, una scoperta, uno choc, un colpo […]. E per quel colpo inatteso mi svegliai all’improvviso, come destato da una forza esterna e senza sapere perché, […] gridai per tutta la stanza: “No, non si può vivere senza Dio”. (p. 96)

Pavel Florenskij

Dopo alcune settimane, durante il sonno, viene svegliato come da una scossa elettrica spirituale, segno della presenza misteriosa e possente di una volontà ignota che lo spinge fuori, nel cortile illuminato dalla luna, dove una voce nitida e forte lo chiama due volte per nome: “Pavel! Pavel!”

Non era un rimprovero, né una richiesta, non c’era rabbia e neanche tenerezza, era solo una chiamata in chiave maggiore e senza mezzi toni. Essa esprimeva in maniera diretta e precisa proprio solo ciò che voleva esprimere: una chiamata. […]si insinuava qualcosa di completamente nuovo, di semplice e chiarissimo, ma di imperioso, reale e indistruttibile come la roccia. E contro quella roccia io sbattei, e da ciò ebbe inizio la consapevolezza dell’ontologicità del mondo spirituale. (p.97)

Era “il crollo”, l’implosione della Weltanschauung scientifica che gli aveva impedito di guardare in alto e in profondità. Ma bisognava ancora combattere. Mentre prova a impegnarsi su una difficile questione scientifica, avviene un terzo episodio.

D’un tratto […] un altro pensiero assolutamente inatteso e intempestivo: “Quella questione è una sciocchezza e non è di alcuna utilità”. […] tornai a ripetere la mia domanda quanto alle questioni che con i loro nessi e la loro dipendenza reciproca formavano il tessuto della visione scientifica del mondo. E di nuovo la stessa risposta: anche la visione scientifica del mondo era una congerie di quisquiglie e convenzioni che non avevano nulla a che spartire con la verità, con la vita e il suo fondamento; e anch’esse non erano di alcuna utilità. Quelle risposte di un altro pensiero risuonavano sempre più crudeli, lapidarie e spietate.

[…] Nel giro di un attimo, come sferzato da una scossa sotterranea, lo sfarzoso edificio del pensiero scientifico si tramutò in ciarpame, e di colpo si scoprì che non era fatto di materiali pregiati, ma di trucioli, cartone e stucco. […] non avevo nulla da raccattare nemmeno tra i resti dell’edificio del pensiero scientifico in cui credevo e al quale – o accanto al quale – mi ero impegnato indefessamente. Corsi via da quelle macerie non solo svuotato, ma finanche disgustato. (p. 99)

Da quel momento dedica tutto se stesso agli studi teologici in attesa della Verità. Mentre scriveva La colonna e il fondamento della Verità, si impegnò nella teodicea, per “giustificare Dio” e la fede dinanzi alle pretese autonomistiche e antiteistiche della modernità. Via terribile dal momento che sembrava si fosse dissolto il naturale sentimento religioso dell’uomo e non rimaneva, come dice Guardini, che “una fede povera e nuda, se non addirittura tragica”.

Sente irrinunciabile il momento della teomachia, della lotta con/per Dio, attraverso la quale l’uomo può riuscire a vincere il principio titanico e quello diabolico e muovere verso la Verità. È necessaria anche l’antropodicea, che consenta all’uomo la sensazione di essere “realmente posto nel suo essere proprio” e che Dio è la sorgente del suo essere. Non più chiuso nel proprio raziocinio, raccolto in sé stesso, Florenskij avverte nel cuore la “scaturigine intima” della sua decisione: “metto nelle mani della Verità stessa il mio destino, la mia ragione, l’anima della mia ricerca che è l’esigenza della verità” (P. A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità). Il cuore è la sfera mediana nella quale “il mondo istintivo si apre allo spirito e si offre come materia dell’espressione di sé”. La spiritualizzazione dell’anima e del corpo creano l’equilibrio, la μακαρία, il benessere che porta l’uomo a un piano più elevato e più nobile: saggezza integrale, sanità fisica e spirituale, armonia della vita interiore, tranquilla serenità che Florenskij chiama celo-mudrie.

Dio ha messo nell’uomo il Suo dono più grande: l’immagine divina”. Il cuore cherubico è la “parte santa e misteriosa dell’anima invisibile nella vita quotidiana”, “non appena il cuore si illumina solo un poco, all’interno, rischiarata dal lume divino, inizia a brillare e a splendere come l’oro l’immagine di Dio.  (p. 155)

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L’esperienza religiosa e la filosofia della religione è il tema della seconda parte, in parte sintetizzabile nell’affermazione florenskijana: “I confini della fede e del sapere si fondono, crollano le mura di cinta del raziocinio, tutto il raziocino si trasforma in una sostanza nuova”. (P.A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità)

In ogni cultura, sin dai primordi dell’umanità, Florenskij ha riconosciuto l’esperienza religiosa quale luogo vitale dell’esistenza.  La fede, il legame religioso, è per l’uomo un grande sostegno nella ricerca di un senso, nel vivere la relazione con gli altri uomini, gli esseri viventi, la natura. Tuttavia, sa bene che la fede autentica “rimarrà sempre, pur nella certezza acquisita, una vetta da riguadagnare con fatica ogni giorno, con ogni nuovo sviluppo del pensiero”. (p. 171) Perché la religione “non è propriamente ragione, né conoscenza, ma relazione concreta con Dio […] accoglimento del divino nella sua essenza”.

E mentre nella religiosità occidentale moderna domina la voglia non solo di conoscere ma anche di sottomettere il divino alle leggi della ragione […] nell’ortodossia accade il contrario: la fede è nelle cose meno razionali e più assurde, è una fede intesa come rifiuto – autentico rifiuto – della ragione nelle questioni religiose, e perciò come libera, serena ammissione di quei fatti contraddittori e inaccessibili all’intelletto che fanno fremere un razionalista. (p. 174)

Trinità, Andrej Rublëv

Al di là però dei toni provocatori, Florenskij ha cercato sempre di evitare sia i limiti del razionalismo che gli eccessi dell’irrazionalismo per affrontare con chiarezza il problema della conoscenza. Distinguerà nettamente il raziocinio, “sistema di funzioni meccaniche”, dalla ragione, “legame vitale con la realtà”, “interazione dinamica del soggetto conoscente con l’oggetto conoscibile”. L’esperienza originaria infantile della meraviglia, che lo aveva portato alla conversione era allo stesso tempo esperienza religiosa ed autentica esperienza del φιλοσοφείν. Il cuore, centro vitale della persona, sa legare in un tutt’uno la sfera materiale del corpo con la sfera dell’anima e dello spirito, in modo che ogni scissione possa essere ricomposta e rivelarsi come “coincidentia oppositorum”. Il raggio d’azione della ragione si allarga e può recuperare l’originaria ampiezza per muovere verso ciò che la supera e la trascende. Nel contesto della cultura del XX secolo, dominato dal chiuso raziocinio, compare una luce diversa e sorge una profonda e globale ermeneutica dell’esperienza religiosa.

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La terza parte, L’ampliamento della ragione nell’abbraccio della Trinità, guarda all’evoluzione della particolare posizione filosofica e culturale di Florenskij che si sviluppa a partire dalla sua conversione. Alla luce della Divina Trinità egli ha sentito di partecipare al mistero dell’uni-sostanzialità e di vivere, sperimentare attraverso l’esperienza Cristica, la Verità come amore. Con stupore scoprì nelle opere di Platone immagini, intuizioni che fin da bambino aveva conservato nel cuore. La filosofia di Platone sorgeva proprio dall’incontro tra l’io e le cose del mondo che si offrivano al suo sguardo meravigliato. Vide in Platone il profeta di una verità primordiale e di un’esperienza religiosa universale che, tramite la filosofia greca compenetrata dal Cristianesimo, culminava nel mistero dell’uni-sostanzialità trinitaria e si poneva alla base della cultura europea. Burzo ritiene che si possa stringere, tramite Platone, il fondatore della “filosofia del cuore”, “il filosofo della mentalità primitiva”, un nodo ermeneutico tra Florenskij, Eliade e Guardini. Questi studiosi, nelle ampie ricerche che guardavano “questo mondo e quell’altro” hanno riconosciuto dietro l’Atene di Platone la “comprensione antica, realistica della vita” da parte di uomini e popoli che per due milioni di anni hanno calpestato religiosamente la terra. Il pensiero platonico, attraverso la tensione espressa dall’ἔρος, ambisce all’Unità Suprema del Bene, l’Assoluto che raccoglie nell’Unità la molteplicità delle Idee.

Florenskij conosceva bene il greco, si sentiva in parte greco e rintracciò nel pensiero greco l’intuizione della Trinità.

In tutte le culture antiche il numero Tre è presente e dominante. Il pitagorismo, come il pensiero platonico e neoplatonico, vedono nell’Uno la radice di tutte le cose. Dall’Uno che si fa Due, si genera un terzo elemento. Il triangolo è considerato nel Timeo figura geometrica originaria, forma elementare dell’universo. Il numero Tre, simbolo dell’ordine metafisico del cosmo, diviene barlume iniziale e profetico della Santissima Trinità. Come se i filosofi antichi già scorgessero l’impronta del Logos trinitario nelle manifestazioni della realtà e si abbeverassero “alla fonte da cui tutto sgorga e a cui tutto ritorna”. Dall’integrazione tra il pensiero filosofico greco e la riflessione cristiana, emerge la luce della Trinità. Impossibile non coglierla nell’icona di Rublëv.

Florenskij aveva una natura di artista, ma sapeva anche che la bellezza è difficile. Essa “è anche il volto manifesto di una potente ulteriorità che inquieta, dell’oggettiva realtà numinosa che si cela al fondo di ogni mistero attirando e impaurendo.” Nell’uomo anche l’insolito, il mostruoso, che mostra una realtà altra, enigmatica, desta meraviglia. In Ai miei figli Florenskij parla della “misteriosa illuminazione della realtà da parte di altri mondi, il tralucere di altri mondi attraverso la realtà, che ci è dato di toccare, vedere, odorare, assaggiare”. Siamo all’estasi che sempre si accompagna all’amore, pensiero universale che fa parte della saggezza dei popoli, e che scorge in un uomo l’Uomo nella cui essenza spirituale alberga il sentimento della Verità. Da millenni il popolo vive in sintonia, in simpatia con la natura, con tutti gli altri viventi e sa che tutte le cose sono nel tutto, in una rete di interazioni nelle cui vene scorrono le energie universali. Il popolo ne conosce la magia e vede nel mago colui che sa muoversi tra due mondi, il visibile e l’invisibile, e aiutare gli altri a ritrovare la strada perduta, e la fiducia in una realtà vivente dove l’uno si apre nei molti e i molti sono contenuti nell’uno.

Siamo giunti così a un tema centrale per Florenskij, che in una lettera ai suoi figli scrive: «Per tutta la vita ho riflettuto su un solo problema, il problema del SIMBOLO». Infatti ogni cosa, ogni frammento del mondo può diventare custode di un’idea e in tal modo trasfigurarsi e trasformarsi in un simbolo. Anche l’uomo può trasformarsi, divenire trasparente, accedere a un piano diverso che lo trascende e gli dona ulteriore energia spirituale. L’uomo stesso diviene simbolo, ponte fra due livelli ontologici: ciò che è inferiore, nello slancio verso ciò che è più in alto e più nobile ne rimane impregnato. Tutta l’opera di Florenskij è illuminata dalla visione dell’incarnazione, simbolo che riflette la sua luce sull’uomo, sull’esistenza e tutto ciò che fa parte della vita, del culto, della cultura. Vogliamo anche ricordare il mistero dell’incarnazione celebrato da Dante Alighieri nella preghiera di San Bernardo alla Vergine:
Vergine madre, figlia del tuo figlio / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio / tu sei colei che l’umana natura / nobilitasti sì che, che’l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura. / Nel ventre tuo si raccese l’amor / per lo cui caldo nell’etterna pace / così è germinato questo fiore.

Abbiamo accennato solo ad alcuni tra i mille temi inerenti la vita, il pensiero, la fede, la filosofia, l’esperienza religiosa di Florenskij, che Burzo ha esposto in uno scritto di cui ammiriamo l’ampiezza della ricerca, la completezza, il rigore filologico e soprattutto la sintonia profonda con la figura di un eccezionale maestro che ha indicato il sentiero non facile dell’esperienza religiosa e ha lasciato una indimenticabile impronta nella profonda cultura religiosa russa ma anche nella cultura occidentale.

Maria Pia Rosati