Annamaria Iacuele
Da átopon, quaderno n.1-2008
Il discorso scritto nell’anima
αὔη ψυχὴσοφωτάτη καὶἀρίστη.
L’anima riarsa di sete è la più sapiente e la più nobile
Eraclito, 118
Platone, nel Fedro (274b-275a), attraverso le parole del faraone Thamus, mostra il suo disappunto per la scoperta della scrittura che avrebbe prodotto la dimenticanza nelle anime di coloro che, fidando in essa, si sarebbero abituati a trarre i loro ricordi dal di fuori mediantesegni estranei, e non dal di dentro, da sé medesimi. Perché solamente nel discorso che ognuno reca in sé stesso, scritto nella sua anima, c’è chiarezza e compiutezza e verità. Al contrario, venendo a contatto con molte cose senza un vero insegnamento, si ottiene solo l’apparenza della sapienza, non la vera sapienza, e si diviene portatori di opinioni, non di verità.
L’uomo sa che la sua esistenza è effimera e transitoria, soggetta al fluire della vita, al tempo che tutto divora, al mutamento, all’estinzione e che la sua vita, come dice il poeta, è ombra di un sogno: «Effimeri, chi siamo, chi non siamo? Sogno di un’ombra l’uomo” (Pindaro Pitica, VIII, 95-96).
Tuttavia, ci insegna Platone, al mondo della physis, a ciò che viene da fuori (exothen), dagli altri possiamo opporre un dentro (endothen), un’intimità creata in noi stessi a partire da noi stessi (autous up’auton). Dalla voce che si leva nella nostra intimità nasce l’Io che cerca di conoscere sé stesso; dal passato che custodiamo nell’intimo della nostra coscienza scaturisce la sorgente della memoria, la possibilità del ricordo e ha origine una domanda di senso.
La prospettiva in cui viviamo la nostra esperienza individuale forgia la nostra anima e la nostra mente, ci fa consci di quello che siamo, crea la nostra peculiare memoria, grazie a quel filo che nel fluire del tempo collega le impressioni derivate dai fatti dispersi, dagli eventi esterni della vita. Il soggetto si costruisce attraverso ricordi nati dalla sua interiorità e dalla modalità in cui vive il loro fluire interiore.
Il processo di interiorizzazione, la presa di coscienza di ciò che incontriamo, la tensione necessaria a strutturare nell’intimità la memoria profonda, costituiscono il cammino di individuazione, il vettore del Sé. Esistere è un trascorrere che termina con la morte e l’oblio, ma l’uomo può divenire “pastore e custode dell’essere” se sa creare un mondo interiore coerente che accolga le singole effimere esperienze, i più significativi vissuti individuali strutturandoli nella trama di una memoria vera e costruendo nella coscienza, nell’endothenuna diga che impedisca al tempo e alla natura di tutto travolgere e dissolvere.
La sorgente di Mnemosyne
Il discorso interiore nato dall’esperienza della nostra profonda intimità e consolidato nella memoria diviene linguaggio poetico e poietico che ci fa riconoscere il passato nel presente e vivere la presenza anche nell’assenza.
L’esigenza di chiarezza, di libertà intellettuale e spirituale, propria dell’uomo, la sete di vita spirituale si esprime in antiche memorie, in antichi miti, in antiche sapienze appartenute a uomini che vivevano in una dimensione simbolico-religiosa immediata, naturale.
Nella mitologia greca, per gli appartenenti al movimento mistico religioso dell’orfismo, Mnemosyne, figlia di Chronos e Oceano, è madre delle Muse e alla sua sorgente debbono abbeverarsi le anime dei defunti che vogliono sfuggire all’oblio e alla morte definitiva e, superata l’esperienza del corpo, avviarsi alla salvezza nell’esperienza dell’aldilà, unendosi allo spazio infinito del cosmo.
Ai nostri giorni, seppur confusa, nasce la necessità di riscoprire l’antica sapienza di cui sempre l’anima ha sete, o, per usare la metafora orfica, ritrovare la via che porta alla sorgente di Mnemosyne da cui scaturisce la salvifica acqua della vera memoria.
L’immagine della sete, metafora così estesa nel tempo e nello spazio, esprime il disagio e la tensione dell’anima e il dubbio profondo che veglia inquieto nell’intelletto; esprime anche la speranza dell’uomo di riuscire a delineare, scoprire o ritrovare una via, un metodo, una visione che gli consenta di realizzare un’intima comprensione del senso del proprio essere nel mondo.
Sono state ritrovate nei sepolcri degli iniziati ai misteri orfici in Magna Grecia, a Creta e in Tessaglia le laminette auree che gli orfici ponevano al collo del defunto e sulle quali sono incise chiare istruzioni come viatico al viaggio oltremondano. I testi evidenziano la raggiunta consapevolezza del proprio vero essere, la memoria della propria origine celeste, testimoniata nella formula di riconoscimento che i mystai debbono pronunciare: «sono figlio della Terra e del Cielo stellato». È un’antica formula ricca di significati in cui si sottolinea il desiderio di volersi sottrarre all’ambito puramente ctonio, puramente terrestre, per affermare il legame con il cielo notturno, il cielo sidereo, il cielo stellato in cui gli astri rivelano lo spazio infinito del cosmo e aiutano a sciogliere i vincoli con l’esperienza terrena.
Il testo inciso nella laminetta aurea trovata in una tomba (databile alla fine del secolo V, inizio del IV) in Magna Grecia nella necropoli di Hipponion, presso Vibo Valentia dice:
A Mnemosyne è sacro questo (dettato): (per il mystes) quando sia sul punto di morire.
Andrai alle case ben costrutte di Ade: vi è sulla destra una fonte,
accanto ad essa si erge un bianco cipresso;
lì discendono le anime dei morti per aver refrigerio.
A questa fonte non accostarti neppure;
ma più avanti troverai la fredda acqua che scorre
dal lago di Mnemosyne: vi stanno innanzi custodi,
ed essi ti chiederanno, in sicuro discernimento,
che mai cerchi attraverso la tenebra dell’Ade caliginoso.
Di’ «son figlio della Terra e del Cielo stellato;
di sete sono arso e vengo meno: ma datemi presto
da bere la fredda acqua che viene dal lago di Mnemosyne»
ed essi sono misericordiosi per volere del sovrano degli Inferi,
e ti daranno da bere (l’acqua) del lago di Mnemosyne;
e tu quando avrai bevuto percorrerai la sacra via su cui anche gli altri
mystaie bacchoiprocedono gloriosi.
Sin dalla più remota antichità era usanza offrire acqua al defunto al fine di farlo rinascere e ridargli nuovamente vita, ma non per essere nuovamente reimmesso nel flusso della vita, nel travaglio delle sofferenze, nel giro di nascite e morti, bensì per rompere il ciclo negativo della vita terrena e risorgere alla vera vita, quella fuori del tempo, eterna ed immortale. A questa vita aspirano le anime degli iniziati ai misteri orfici che hanno fatto professione di assiduo esercizio intellettuale per aprirsi nuovamente ad una condizione metafisica, perduta o dimenticata, sepolta sotto il peso delle cure terrene, e arrivare a conoscere, con l’aiuto della divina Mnemosyne, madre di tutte le Muse, l’elemento divino presente nell’uomo e i principi che regolano l’esistenza umana in seno alla vicenda cosmica. Essi, con l’aiuto della formula iscritta sulla laminetta orfica che doveva accompagnarli nella loro avventura ultraterrena, debbono rifiutare l’acqua della fonte più prossima, quella posta vicino al bianco cipresso, la fonte dell’oblio le cui acque fanno sì che gli uomini dimentichino sé stessi, la propria origine celeste e la propria meta, dunque il senso della loro vita, il loro Sé.
Forte è la tentazione di cercare un immediato refrigerio nelle acque dell’oblio per alleviare la sofferenza del vivere dimenticando il dolore, sé stessi, il proprio essere.
Ma c’è un’altra possibilità: cercare la “fonte di Mnemosyne” che dà l’acqua del ricordo.
La vita è una fitta trama di eventi e di immagini che formano un continuumdenso, in cui convergono spazio e tempo, suoni e sapori, emozioni e pensieri, e in cui il soggetto e l’oggetto continuano l’uno nell’altro senza soluzione di continuità.La vera memoria non è mera trascrizione del passato, o un archivio dei resti della vita e della nostra biografia. Èsempre l’uomo che a partire dalla sua stessa interiorità dà vita alla sua memoria, ne fa coerenza interiore che gli permette di opporsi ad una memoria esteriore, inevitabilmente falsa e indifesa, e di confrontarsi con la propria vicenda destinale per comprenderne il senso.
Ricordare è un immergersi negli strati più profondi della propria psiche per entrare in contatto con la propria condizione ontologica e compiere una vera metànoia, una profonda trasformazione nell’essere.