Marco Toti
La preghiera e l’immagine
L’esicasmo tardobizantino (XIII-XIV secolo): temi antropologici , storico-comparativi e simbolici
Prefazione di J. Ries
Gallerie d’Italia – Jaca Book
Milano 2012 pp. 185 + XV
Nel X secolo a Bisanzio, Simeone il Nuovo Teologo insegnava che i cristiani potevano sperimentare il divino attraverso la luce increata della trasfigurazione, qualcosa di molto vicino alle pratiche teurgiche del tardo neoplatonismo. Lo scopo di questo viaggio spirituale nel cuore dell’interiorità umana era la theōsis, la partecipazione alla vita divina. Simeone suscitò aspre polemiche, ma dai suoi insegnamenti si sviluppò un filone che accompagnò la spiritualità bizantina durante tutta la sua storia, in forte contrasto con il concetto occidentale del peccato originale, e in reale continuità con gli ammaestramenti dell’antico neoplatonismo. Nella fase tarda dell’impero l’orientamento spirituale inaugurato da Simeone fu rappresentato dall’esicasmo – da hēsychia, «quiete, calma, pace» – una forma di spiritualità ascetica basata su una preghiera interiore da ripetere incessantemente, che ebbe tra i suoi principali ispiratori Gregorio Palamas, arcivescovo di Tessalonica.
Per portare a termine la preghiera occorreva mettersi in una condizione di tranquillità, sedersi, inclinare la testa sul petto, guardare verso il centro del ventre, trattenere il respiro, fare uno sforzo mentale per trovare il «luogo del cuore», cioè per rappresentarsi quest’organo, ripetendo il nome di Gesù Cristo. Una invocazione del nome divino, quindi, collegata a procedimenti psico-fisiologici prolungati e laboriosi; il tutto svincolato dall’autorità ecclesiale e dalle reale presenza del praticante in uno specifico luogo sacro, egli stesso, infatti, diventava il tempio oggetto della contemplazione.
L’esicasmo, la cui tecnica è ciò che di più affine alla teurgia abbia potuto produrre il cristianesimo, non fu propriamente né un movimento né una dottrina, ma un insieme di pratiche spirituali i cui seguaci valorizzavano l’interiorità mistica a scapito della dialettica. Proprio per questo aspetto legato alla preghiera e alle più antiche esperienze monastiche venne guardato con sospetto: il «palamismo», così fu genericamente designato il movimento esicasta, venne dapprima condannato ufficialmente, in seguito ufficialmente approvato dai concili di Costantinopoli a metà del XIV secolo.
Questa premessa per introdurre il bellissimo libro di Marco Toti, notevole storico delle religioni nostrano, che in questa opera ha tracciato le linee di convergenza tra la le tecniche di orazione e la metafisica bizantina dell’icona, tra meditazione e immagine. Importanti sono le precisazioni che il Toti fa in margine ai punti di convergenza tra la preghiera esicasta e specifiche tecniche dello yoga (pp. 31 ss.).
Riguardo al legame tra controllo del respiro e attenzione mentale presenti in entrambi i sistemi, Toti parte da Gregorio Palamas, citando come il «controllo del respiro può, infatti, essere considerato come una conseguenza spontanea del prestare attenzione all’intelletto; poiché il respiro è sempre silenziosamente inspirato ed espirato nei momenti di concentrazione intensa, specialmente nel caso di coloro che praticano la hēsychia sia corporalmente che mentalmente». nello Yogasūtra il prāṇāyāma, il controllo del respiro, in combinazione con la postura corporea, è finalizzato ad unificare la coscienza. Di fatto in Gregorio Sinaita il controllo della respirazione non costituisce la sostanza del metodo, che invece risiede, in perfetta linea con la spiritualità esicasta, nel «rammemoramento di Dio» (mneme tou Theou), talora connesso con la preparazione alla morte.
Toti sottolinea inoltre come la postura del meditante trascriva lo sforzo mediante l’abolizione della tendenza naturale del corpo al movimento. Sedere in terra – ciò che certamente costituiva una innovazione rispetto al consiglio patristico di pregare in piedi – esprimeva il radicamento della persona in una dimora sicura comparabile alla funzione dell’āsana nello yoga, che, rappresentando la concentrazione al livello del corpo – integrata dal prāṇāyāma –, costituisce da un punto di vista fisico la fissazione dell’attività mentale su un punto (in sanscrito ekāgratā). Il Toti rileva inoltre la possibile convergenza etimologica e quindi semantica, tra hesthai («stare seduti») ed hēsychia («quiete»); sembra inoltre logico il legame con il sanscrito ekāgratā . Evidente, da tale punto di vista, è dunque l’utilità delle posture, finalizzate al conseguimento dell’osservazione di sé, punto medio tra stasi e rilassamento: affinché ci si predisponga alla creazione del divino in noi.
Non è la prima volta che delle tecniche di realizzazione, come quelle praticate dallo yoga e dall’esicasmo, sono comparate e valutate nelle loro comuni caratteristiche e nelle loro differenze: in un importante libro di qualche anno fa, Esicasmo e Yoga – e oggi in imminente nuova edizione aggiornata per le Edizioni WriteUp di Roma – Flavio Poli aveva messo a confronto i due importanti sistemi meditativi. Il Poli aveva rapidamente ma con grande chiarezza passato in rassegna le varie tendenze nello studio delle mistiche, e quindi affrontato in un’ampia sintesi storica il problema dei possibili contatti fra l’India e il mondo mediterraneo prima e dopo l’avvento dell’Islam. Sia il Toti che il Poli hanno esaminato temi di portata veramente vasta, riassunte le varie opinioni e le soluzioni proposte di volta in volta dai principali indirizzi di studio. Dopo l’analisi molto dettagliata delle due vie spirituali indù ed esicasta ‒ con frequenti riferimenti anche alla tradizione islamica ‒ entrambi gli autori sembrano propendere per una parentela piuttosto profonda fra i due atteggiamenti; questa parentela, tuttavia, non è, o almeno non è soltanto, dovuta a determinate influenze e contatti storici, pure possibili, né ad un preteso e quanto mai opinabile comune sostrato simbolico.
Al di là da ogni precomprensione dottrinale, la distinzione tra estasi quale «uscita visionaria dal corpo» ed «enstasi» quale «ritorno in sé», presente nella teologia sottesa all’esicasmo, è nell’analisi di Toti, legata al carattere dell’antropologia cristiano-orientale ed alla nozione di epektasis, inizialmente abbozzata da Ireneo e Origene e sistematizzata da Gregorio di Nissa, una sorta di inclinazione infinita verso il divino. Una condizione interiore simile a quella che nell’antico ermetismo rendeva l’uomo simile a quel Dio tanto anelato ma mai afferrato.