Paolo Riberi
L’apocalisse gnostica della luce
Parafrasi di Sēem
Edizioni Ester – Bussoleno (Torino)
La Parafrasi di Sēem è uno fra i più lunghi e intricati testi gnostici della biblioteca copta di Nag Hammadi, affiorata tanti anni orsono dalle sabbie del deserto egiziano: un vero enigma dottrinale al crocevia di gnosticismi, alchimie e filosofie platoniche. Paolo Riberi, coptologo e storico delle religioni piemontese, è il primo a darne una coerente ed esaustiva traduzione italiana. Forse trascende dagli intenti di questa nota far rilevare come l’opera di Riberi, studioso subalpino, si collochi nell’alveo di ricercatori blasonati che a discendere da Emanuele Filiberto, furono cultori della disciplina alchimica e fors’anche gnostica. Nostradamus venne a Torino su richiesta di Emanuele Filiberto, mentre le quattro tele di Francesco Albani (1578 – 1660) dedicate ai quattro elementi, furono acquistate per i loro contenuti alchimici, così come cultore di alchimia fu il principe Eugenio, i cui quadri nella pinacoteca sabauda sono densi di significati alchimici.
Nel duomo di Torino, mi faceva notare il dotto amico scrittore Piero Flecchia, c’è la cappella dei santi Crispino e Crispiniano, che è un trattato di alchimia, intorno a una Madonna del Latte. Chi sapeva e giungeva in una città, cercava in una chiesa segnali come quello della cappella nel duomo di Torino e si riconnetteva alla confraternita. Il D’Azeglio, nella sua autobiografia ha alcuni accenni all’esoterismo, ed è quasi certo che la sua trama politica, che portò a casa Savoia il centro Italia, si impiantò su residui circoli esoterici, rispetto ai quali la Massoneria come la Carboneria erano qualcosa di periferico. Per capire a cosa mi riferisco, bisognerebbe seguire attentamente le tappe di Goethe in Italia, perché Goethe fu un esoterista gnostico dotto di alchimia, e in Italia venne con dei contatti solo apparentemente massonici. Scendendo al XX secolo torinese, torna alla mente la pittura di Casorati, le sue celebri Uova, ma anche alla scultura di Giulio Paolini come il suo di Giasone, rigurgitanti di riferimenti alchimici e gnostici.
Secoli prima Dante, a Bologna, era entrato a contatto con la tradizione esoterica di matrice neoplatonica, che lo pose in contrasto con un precedente insegnamento gnostico mediato quasi certamente attraverso l’amico Cavalcanti. Questa tradizione diventata filo panteista in ambito veneto – si pensi al Baffo o al Casanova – giungeva fino al Foscolo: Gabriele Rossetti, ne venne a contatto perché per un certo periodo fu segretario del Foscolo. Tale tradizione esoterica panteista fu rilanciata dal Gravina, che la veicolò attraverso l’Arcadia: Voltaire fu non caso un arcade. La tradizione esoterico-gnostica tendeva diversi in rivoli settari, e lo si scorgeva anche in una poesia di Cavalcanti, che rimproverava Dante di non seguire l’insegnamento che un tempo li aveva uniti. Quindi il Riberi è in buona compagnia.
La Parafrasi di Sēem sublima la distruzione del corpo, la croce alla quale il Salvatore è avvinto: l’interiorizzazione del sacrificio avviata dalla rivoluzione upanishadica ha determinato una medesima oblazione del corpo, essenziato dai fluidi sessuali e ravvivato dal fuoco del tapas, all’origine dei più tardi sistemi tantrici e vajrayana. Un’acqua luminosa, trasmutata in elixir di lunga vita, che combinava l’interazione del principio lunare e solare, seminale e sanguigno. Il mercurio alchemico altro non è che il seme divino. Penso ai testi di David Gordon White, ignaro delle ultime traduzioni di Raniero Gnoli. Nell’India medievale il simbolismo sessuale divenne un linguaggio comune condiviso dalle sintesi hathayogiche, tantriche e appunto alchimiche. La Parafrasi di Sēem sembra assemblare l’erotica manichea (e poi catara) che trovò il suo pendant fin nel lontano Assam, ai piedi del Bhutan; per Eliade, con il Gandhara, era la terra tantrica per antonomasia (X-XVII sec.). L’ambito in cui si produsse un forte scambio tra regalità tribali e tradizioni tantriche riferibili al culto della Yoni.
Come nella Parafrasi di Sēem, i praticanti dello Dzogchen buddhista manifestano il Corpo di Luce o «Corpo d’arcobaleno» quando gli elementi grossolani e osceni sono stati reintegrati nella propria natura luminosa. Esistono vari tipi di corpi di luce, a seconda delle capacità dello yogi. Il corpo d’arcobaleno del grande trasferimento è il corpo di luce supremo. Lo manifestano soltanto gli yogi che giungono al termine della quarta visione del thògal. Quando i fenomeni si dissolvono nella Dharmata (tib. chos-nyid-kyi zad-pa), l’aspetto materiale del corpo comincia a svanire e se lo yogi si concentra su «un dito di materia» realizza un corpo in cui la materia è trasmutata in luce. Egli si autopercepisce come trasparente e insostanziale, ma gli altri, che continuano ad avere una percezione karmica ordinaria, continuano a percepirlo sotto la forma consueta. Lo yogi non muore e può dimorare indefinitamente in questo mondo per agire per il bene degli esseri senzienti. Così nella Parafrasi di Sēem l’abiezione è la forma estrema di vita che può redimere le azioni umane.