Il libro di tutti i libri

Redazione

Roberto Calasso
Il libro di tutti i libri
Adelphi edizioni
2019 pp. 555

 

Il libro di tutti i libri ha in esergo una frase tratta da Die Wahlverwandtschaften (“Divano occidentale orientale”) di Goethe: «Così, libro dopo libro, il libro di tutti i libri potrebbe mostrarci che ci è stato dato perché tentiamo di entrarvi come in un secondo mondo e lì ci smarriamo, ci illuminiamo e ci perfezioniamo».

In copertina Esdra mostra il libro della Legge (Sinagoga di Dura Europos, III secolo d.C.). Museo Nazionale di Damasco. photo zev radovan / bridgeman images.

Questo ultimo scritto di Goethe – ispirato dai componimenti poetici di Hafez, mistico sufi persiano del XII secolo ­– ci fa intravedere una modalità nuova di accostarci al libro, seguendo di vicenda in vicenda, di storia in storia, lo svolgersi della vita in cerchio o a spirale e lo spirito che si fa carne e la carne che si fa spirito in quell’indicibile Realtà, origine di tutte le realtà dicibili. Anche Einstein aveva intuito che la forza non si muove mai in linea retta, ma sempre in una curva vasta come l’universo.

Roberto Calasso  avverte i lettori che «Il libro di Tutti i libri» presuppone innanzitutto una lettura non confessionale – quindi non ebraica, non cattolica, non protestante e certamente non laica – della Bibbia». E in primis ha cercato di cogliere la singolarità del testo biblico, sempre in bilico tra ciò che è detto e ciò che è omesso, perché ogni omissione fa sempre trasparire una rivelazione o un mistero. E seguendo la Bibbia, le storie e le cose come stanno, attenendosi all’essenziale, si scoprirà poi che «dell’essenziale fa parte anche la morchia delle cose».  Bisogna dunque farsi trasportare dalle storie che, per cammini sconosciuti, ci permettono di arrivare dove non avremmo mai pensato: «le storie ebraiche sono come le storie greche, sono intricate e indipendenti. Capirne una è la via per capirle tutte. E, per capirne una, occorre averle percorse tutte».  Quell’una va seguita con pazienza, «passo per passo, nella sua scansione in libri e capitoli, nei suoi equilibri e squilibri, e soprattutto tentare di illuminare la lettera di ciò che viene nominato e i vasti spazi di ciò che non viene nominato».

Tutti ricordiamo la Seconda Lettera ai Corinzi dell’apostolo Paolo che evidenzia il possibile contrasto tra la lettera (gramma) e lo spirito (pneuma): «La lettera uccide, ma lo Spirito vivifica» (2Cor 3,6), verità riconosciuta da ogni cultura tradizionale.

Tuttavia dobbiamo ritrovare,  suggerisce Calasso,  «la capacità di riconoscere la lettera, di abbandonarsi alla Bibbia, così come si presenta, compagine elusiva e informe, come un magma in perpetuo movimento…». «È un campo di forze dove elementi incompatibili tentano di neutralizzarsi o di eludersi. Ma spesso sussistono, forse anche perché così incompatibili non erano…».

Il primo capitolo è intitolato “ La Torah in cielo”.

Se la Torah è la dottrina impartita dai genitori ai figli, dai saggi agli stolti, dal sacerdote al popolo e da Dio agli uomini mediante i profeti e, in breve, è la Legge e le prescrizioni, è anche un racconto di eventi, un insieme di storie. Hokhmah, Sapienza, figlia di Iahvè, «nata quando ancora non c’erano gli abissi» (p.16) amava le storie. Consigliera e artefice del piano della creazione, aveva drizzato la sua tenda nei cieli,  per poi visitare ogni angolo del cosmo, e tuttavia voleva anche trovare un altro luogo su cui drizzare la sua tenda sì che infine si stabilì a Sion e concluse il suo racconto. Ma «nella stessa terra, un giorno, il Figlio che era suo fratello, non avrebbe trovato “dove poggiare la sua testa” » (p.18).

Il secondo capitolo “Saul e Samuele” ci presenta Saul, inviato dal padre a recuperare asine smarrite. Impresa difficile sì che Saul, che dopo tre giorni di marcia aveva smarrito la strada,  deve ricorrere a un ‘veggente’. Allora Iahvè fece sì che Samuele incontrasse Saul, ritrovasse le sue asine e lo ungesse per farne il primo re d’Israele. «Iahvè era anche un allegorista. Le asine smarrite e ritrovate erano anche il popolo che agognava un re ma non sarebbe stato in gradi di sceglierlo, se il veggente Samuele non l’avesse unto con l’olio che teneva in un flacone» (p. 23). Samuele sapeva che avere un re non era una buona cosa per il popolo, ma il popolo voleva essere come gli altri popoli che avevano tutti un re.

Ed ecco in questa storia, simile a una favola,  improvvisamente ci troviamo di fronte a qualcosa che non riguarda solo i protagonisti: il popolo di Israele non sarebbe più stato un popolo sacerdotale «da allora, la storia di Israele sarebbe stata scandita da una successione di re, come la storia di tutti i popoli intorno. Ma sarebbe sempre rimasto qualcuno per ricordare le parole di Samuele, che considerava la regalità come una degradazione, anche se l’aveva instaurata con le sue mani» (p.29). Il re Saul, un giorno si trovò ad iniziare una guerra contro i Filistei, senza aver ascoltato Iahvè e senza che Israele fosse pronto. Ebbero così inizio errori carichi di conseguenze.

A  tale proposito possiamo rilevare alcune ‘omissioni’ della Bibbia. «Nel Deuternomio si legge: “Ricordati quel che ti ha fatto Amaleq”. Parole che risuoneranno per secoli alle orecchie degli ebrei, ominoso avvertimento. Ma da nessuna parte è scritto “Ricorda quello che hai fatto a Amaleq”. E non era poca cosa se nessun essere vivente venne risparmiato» (p. 34).

Inevitabile passare al difficile tema del sacrificio. La parola decisiva contro il sacrificio sarà detta da Gesù, che era solito presentare la novità sconvolgente come brevissima aggiunta a una citazione della scrittura,  così cita Osea: «Se sapeste che cosa è: Voglio la misericordia e non il sacrificio, mai avreste condannato innocenti». Per primo ha osato parlare dell’innocenza delle vittime sacrificali e ha assimilato il sacrificio alla condanna a morte.

La sovranità regale continua a mostrare il suo lato negativo anche con il successore di Saul, Davide, il pastore giovane e bello che aveva ucciso Golia e che aveva il potere di far innamorare di sé. Ma anche il nuovo re si trovò in difficoltà quando Iahvè gli chiese imperiosamente di fare un censimento, che era un modo di segnalare un vivente isolandolo e facendone un bersaglio per le forze del male. Era un modo di uccidere e era anche un modo per colpire gli ebrei obbligandoli ad essere colpevoli: «Con il censimento, si ricordava duramente a ciascuno che la sua vita era retta dalle briglie di un Altro, che poteva lasciarle allentate, per qualche tempo, ma poi bruscamente poteva stringerle – e farle diventare un cappio» (p. 51). Anche Davide, che pur aveva sempre fatto ciò che Iahvè aveva chiesto, fu sempre tormentato dal ricordo indelebile di quando aveva desiderato Betsabea e aveva mandato a morire suo marito Uria l’Ittita. Iahvè non aveva mai detto nulla, ma un giorno il profeta Nathan venne a narrare a Davide la storia di un uomo ricco che per non intaccare le sue mandrie aveva sottratto a un uomo povero l’unica pecorella, che era tutto per lui,  per darla a un suo ospite e  Davide con veemenza sentenziò che il ricco meritava la morte. Natham concluse la storia con quattro parole: “quell’uomo sei tu”» (p.56). In tempi ancora a venire anche Gesù avrebbe raccontato storie indelebili che furono chiamate ‘parabole’.

Scene dal Libro di Ester nella sinagoga di Dura Europos, anno 244

Davide avrebbe desiderato costruire un tempio per Yahvè ma sapeva di non essere stato un re giusto, «come la luce del mattino quando il sole sorge,/ un matttino senza nubi,/ che fa brillare l’erba sulla terra dopo la pioggia». Il tempio lo avrebbe costruito Salomone, il figlio che gli aveva generato Betsabea.  A lui Davide raccomandò: « Conosci il Dio di tuo padre e servilo con un cuore perfetto e slancio dell’anima, perché Iahvè sonda tutti i cuori e discerne tutte le forme dei pensieri»(p. 64).  E Salomone costruirà un tempio bellissimo ad opera dei migliori architetti e con i materiali più preziosi, legni del libano, pietre e metalli preziosi che Davide aveva da tempo cominciato ad ammucchiare  per il suo progetto già tracciato in tutti i particolari. Salomone quando fu unto e divenne re seppe evitare gli errori che aveva fatto suo padre e chiese a Iavhè: «dai al tuo servitore un cuore che capisce» (p. 73). Nel suo nome era scritto Pace «shalom» e Il primo libro dei Re dice che il suo «cuore era vasto come la sabbia che è in riva al mare» (p.74). La bibbia dei  Settanta parla di un chýma kardías, “massa liquida del cuore”, la vulgata di latitudo cordis, che includeva il continuo e il discreto, la massa liquida e i granelli di sabbia. Questo era mancato agli ebrei in tante situazioni, ma ora avrebbero potuto gareggiare anche con gli Orientali e gli Egizi perché « La sapienza di Salomone era più grande di quella di tutti i figli dell’Oriente e di tutta la sapienza degli Egizi» (p. 74).

Egli seppe trasmettere al suo popolo «l’estetico», segno di una sovranità sino allora considerata con diffidenza. Anche Davide aveva composto inni, ma Salomone li scrisse e un giorno sarebbero stati letti: nei suoi canti si parlava di alberi, animali, rettili, pesci e tutta la natura era un grande corale. Quando dopo 7 anni  il tempio fu pronto per accogliere l’Arca dell’Alleanza, «la Casa fu riempita della  nube della gloria di Iavhè » (p.79).

«Tutti i precetti e le prescrizioni venivano meno, di fronte a quella nube. Era il ricordo del continuo, della primordiale indistinzione senza la quale i segni incisi sulle tavole di pietra, uniche e solitarie presenze all’interno dell’Arca, non avrebbero mai potuto essere efficaci» (p.79).

Salomone parlò con chiarezza: «Iahvè ha detto che risiede in una nube, e io ho costruito una Casa come tua dimora, un luogo dove abitare per te, per sempre» (p.79). Ma Dio avrebbe accettato di abitare quella dimora e avrebbe accettato la preghiera del suo servitore? «Quando Salomone ebbe finito di pregare, il fuoco scese dai cieli, divorò l’olocausto e i sacrifici di comunione, mentre la Gloria di Iavhè riempiva la casa» (p. 80). La preghiera di Salomone era stata accettata.  Salomone osò parlare allora anche di tutti i popoli della terra, che avrebbero potuto conoscere la grandezza di Israele e del loro Dio. Iahvè fu esplicito: se il popolo non avesse obbedito ai suoi precetti avrebbe strappato Israele dal suolo che gli aveva dato e «Israele diventerà un oggetto di satira e sarcasmo fra tutti i popoli».

Salomone amava anche le donne e dopo la prima moglie egiziana, figlia del faraone, ebbe altre centinaia di mogli e concubine. Da un paese remoto venne anche a visitarlo la regina di Saba per conoscere la sua sapienza e ne rimase meravigliata fino a rimanere senza respiro dinanzi alla magnificenza del suo universo estetico. Poi ripartì verso il suo regno. Molto tempo dopo Gesù disse che la regina del Sud, alla fine dei tempi, si sarebbe levata in piedi per giudicare gli ebrei che non avevano capito chi era Gesù. E Matteo e Luca furono concordi nel riconoscere che se la regina aveva fatto un viaggio di tre anni per conoscere la saggezza di Salomone, non  avrebbero fatto lo stesso né Scribi né Farisei i quali stavano intorno a Gesù e continuavano a chiedergli un segno, perché non sapevano riconoscerlo.

A Salomone, che amava la Sapienza e che aveva detto «l’ho amata e cercata sin dalla mia giovinezza; ho cercato di prenderla come sposa/ e mi sono innamorato della sua bellezza» fu attribuito il Cantico dei cantici, il più alto e intenso inno all’amore. A Salomone  fu attribuito anche l’Ecclesiaste. I due libri biblici sono i soli nei quali non si nomina Iahvé: ambedue «erano fatti di parole scritte sotto un cielo sgombro(…)Parole che suonavano veritiere, senza che alcuno le garantisse» (p. 94). Così i libri più incuranti dell’autorità religiosa, divennero il sigillo della Scrittura, ormai rivolto all’indefinito e sempre più vasto paesaggio della diaspora fra i goym» (p. 90).

Il Cantico, nota Calasso, trabocca di hapax, grecismi, arabismi. Sono parole tra due innamorati: l’atmosfera è attraversata da voci, profumi, sensazioni, fremiti. «è un prodigioso, incantato amalgama, che corrisponde alla mobilità e acuità dell’eros. (…) il risultato è una forma che prima non esisteva – e forse non sarebbe mai stata raggiunta intenzionalmente » (p. 89).  Nessun testo del canone biblico è stato snaturato con altrettanta tenacia nell’intento di diserotizzarlo, e ciò lo ha reso ancora più stupefacente, perché eros ha una forza invincibile, diceva Sofocle, e indomabile. Per sentire tanta forza, bisogna guardare ad Oriente, «ma qui gli amanti sono divini ­–Kṛṣṇa e Rādhā o Śiva e Pārvatī. Nel cantico invece non hanno nomi e spesso non si sa chi dei due stia parlando» (p. 92).  Per Goethe, Oriente era la parola-sigillo che avviava là dove spirava «l’aria dei patriarchi» – e la Bibbia, «la più antica raccolta» della «poesia orientale» (p. 92). Esempi ne erano il Cantico dei Cantici e il libro di Ruth che parlavano soltanto di eros e erano apparentemente così distanti: «l’uno ­– il Cantico dei Cantici dicendo tutto e manifestando il prodigio per cui la metafora può assimilarsi alla lettera, sino a diventare con essa intercambiabile (l’opposto di ciò che gli allegoristi sia ebraici sia cristiani avrebbero fatto per secoli con lo stesso Cantico). L’altro, il libro di Ruth, tacendo tutto».  Per Goethe l’uno racconta «l’ardente inclinazione di giovani cuori, che si cercano, si trovano, si respingono, si attraggono» l’altro accenna soltanto a un ricco contadino e a una giovane serva straniera quando «in mezzo alla notte, l’uomo ebbe un brivido e si voltò. Ed ecco che una donna era distesa ai suoi piedi» p.93). Ma in quella notte venne concepito Obed, un anello nella genealogia del Messia.  E alcune storie, come le favole, non possono essere trasformate né  coartate, sono quello che sono.

Ritorniamo allora alle parole di Goethe poste in esergo a Il Libro di tutti i libri  « Così, libro dopo libro, il libro di tutti i libri potrebbe mostrarci che ci è stato dato perché tentiamo di entrarvi come in un secondo mondo e lì ci smarriamo, ci illuminiamo e ci perfezioniamo».

E così  si va avanti con altre storie fino ad arrivare alla XII, Il Messia.

Dice Gioele: «Avverrà in quel giorno /Che le montagne distilleranno succo d’uva / e le colline faranno colare latte,/ tutti i torrenti di Giuda faranno colare acqua / e una fontana sgorgherà dalla casa di Iahvè /ingrosserà il torrente delle Acacie, Schittim» (p.472). In quei luoghi i figli di Israele con Mosé avevano passato momenti di terribile durezza nel loro esodo dall’Egitto, ma ora la ricchezza delle acque donava insieme fluidità e felicità mentre nel resto del mondo «L’Egitto sarà nella devastazione/ e Edom un deserto di devastazione» (p.472).

Quando verrà il Messia probabilmente nessuno se ne accorgerà. E «la più forte affermazione messianica non si trova nella Bibbia, ma in una preghiera chiamata Gevurot, Potenze, che secondo la liturgia doveva essere detta ogni giorno per tre volte e quattro volte il Sabato: “tu che fai rivivere i morti”»(p. 473).

E con queste parole termina Il Libro di tutti i libri.

Redazione


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