L’uomo mangia ciò che è

Laura Mazzone

Da parecchi anni ormai il cibo occupa un notevole spazio mediatico nella civiltà occidentale: in Italia, nel 2015, si è svolta a Milano l’Esposizione Universale che ha avuto per tema “Nutrire il pianeta, Energia per la vita”, con la finalità di studiare lo sviluppo sostenibile e la sicurezza alimentare. L’idea è stata quella di allestire per 183 giorni un gigantesco laboratorio in cui spaziare dalle tradizioni culinarie più antiche, nostrane ed esotiche, al mondo della tecnologia e dell’innovazione nella prospettiva di un possibile miglioramento della produzione alimentare mondiale. Già prima di questo evento mediatico globale, varie trasmissioni televisive avevano iniziato a dedicare innumerevoli rubriche alla buona cucina e nel 1999 ha visto la luce il primo canale tematico specializzato in scienza culinaria, Gambero rosso Channel. A questo fenomeno si è aggiunta la proliferazione di riviste che offrono all’arte culinaria le loro pagine patinate, nonché molteplici siti internet, tra cui Cultura Gastronomica Italiana, guida telematica sulle origini della gastronomia realizzata con il contributo del Consorzio B.A.I.C.R. (Biblioteche e Archivi Istituti Culturali di Roma), dell’Istituto per i Beni culturali della Regione Emilia Romagna e dell’Università di Bologna.

Ricette popolari, ingredienti segreti delle bisavole trovano posto oggigiorno non solo nella tradizione orale delle famiglie in cui sono tramandate le pietanze che hanno fatto la storia di intere generazioni, ma entrano di diritto nelle lezioni della scuola alberghiera e di formazione enogastronomica, nei testi di studio delle Università, nelle disquisizioni erudite di riviste filosofiche.

Considerata la risonanza che, ancora all’inizio del terzo millennio, la preparazione e la consumazione del cibo suscita in ognuno di noi, forse è legittimo interrogarsi se dopo l’homo sapiens o l’homo faber, non sia il caso di riferirsi all’uomo anche come homo gaster.

Il cibo è considerato uno degli elementi chiave per la conoscenza dell’uomo, per delimitare barriere etniche, politiche, sociali o, al contrario, un modo per conoscere culture diverse, mescolare civiltà ed incamminarsi sulla via dell’interculturalismo: è il mezzo, ancor prima della conoscenza della lingua, per entrare in contatto con l’altro.

Nelle Dispute conviviali (II, 10) di Plutarco è scritto: ”Noi uomini non ci nutriamo l’un l’altro semplicemente per mangiare e bere, ma per mangiare e vivere insieme”. Convivio, cum vivere, vivere insieme. Ciò che si fa insieme agli altri inevitabilmente assume un significato sociale di cui partecipano le varie componenti dell’identità culturale dell’uomo, da quella economica, sintomatica, specie nel passato, della differenza di classe all’interno della gerarchia sociale a quella religiosa, che si esprime nella condivisione di regole e pratiche alimentari, oppure filosofica, segno distintivo, ad esempio, di chi segue diete vegetariane imperniate sul rispetto della natura animale vivente o ancora etnica come segno di appartenenza – attraverso l’assunzione del cibo nazionale, sia esso cous cous, riso o fagioli, ad una medesima razza o area geopolitica.

Krater attico a figure rosse risalente al 430 a.C.
Museo del Louvre, Parigi

I sapori e la fragranza dei cibi hanno il potere di evocare, far rivivere luoghi di provenienza o comunque dell’esistenza, intessuti di memorie, ricordi, storie e persone. Non c’è nulla di più nostalgico del pasto di un emigrato.

Assaporare gli aromi dell’infanzia è un nostos, un ritorno a casa.

La memoria di un sapore, la reminiscenza di una fragranza hanno il potere di restituire alla vita non solo luoghi, ma anche istanti di tempo già trascorsi. Queste le parole con cui Garcia Lorca, nella conferenza Canciones de Cuna, racconta come nell’attraversare la Spagna e paesi stranieri “canzoni di culla”, ninne nanne e dolci piuttosto che maestose cattedrali di pietra, gli hanno rivelato la presenza di un tempo che non fugge.

En todos los paseos que yo he dado por España, un poco cansado de catedrales, de piedras muertas, de paisajes con alma, me puse a buscar los elementos vivos, perdurables, donde no se hiela el minuto, que viven un tembloroso presente. Entre los infinitos que existen, yo he seguido dos: las canciones y los dulces. Mientras una catedral permanece clavada en su época, dando una expresión continua del ayer al paisaje siempre movedizo, una canción salta de pronto de ese ayer a nuestro instante, viva y llena de latidos como una rana, incorporada al panorama como arbusto reciente, trayendo la luz viva de las horas viejas, gracias al soplo de la melodía.

E questo perché nella melodia, come nel dolce, è racchiusa l’emozione della storia, la sua luce permanente senza date e fatti. L’amore e la brezza della Spagna sono racchiusi nei brani musicali o nel ricco impasto del torrone, richiamando l’essenza delle epoche passate, a differenza di pietre, campane, persone e persino del linguaggio.

En la melodía, como en el dulce, se refugia la emoción de la historia, su luz permanente sin fechas ni hechos. El amor y la brisa de nuestro país vienen en las tonadas o en la rica pasta del turrón, trayendo vida viva de las épocas muertas, al contrario de las piedras, las campanas, las gentes con carácter y aun el lenguaje.

In una delle pagine più suggestive della Teogonia, Esiodo offre una spiegazione poetica e mitica dell’origine della condizione umana individuando proprio nella scelta del regime alimentare il momento in cui si consuma il passaggio dal tempo beato degli antropoi a quello tragico dei andres, quando ha termine la favolosa età dell’oro in cui gli uomini, ignari di ogni sofferenza e della donna, il bel male per eccellenza, sedevano presso gli dei ed i pasti erano comuni e comuni i seggi fra gli dei immortali e gli uomini mortali.

 

[Prometeo] infatti, quando separarono dèi ed uomini mortali
a Mecone, allora un grande bue, con animo consapevole
offrì, dopo averlo spartito, volendo ingannare la mente di Zeus;
per la stirpe degli uomini, infatti, carni ed interiora ricche di grasso
pose in una pelle, nascostele nel ventre di bue,
per la stirpe degli dèi, poi, ossa bianche di bue,
per perfido inganno,
con arte dispose, nascoste nel bianco grasso.
E allora gli disse il padre dei uomini e degli dèi:
“O figlio di Iapeto, illustre tra tutti i signori,
amico mio caro, con quanta ingiustizia
facesti le parti”.
Così disse Zeus beffardo che sa di eterni pensieri;
ma a lui rispose Prometeo dai torti pensieri, ridendo sommesso,
e non dimenticava le sue ingannevoli arti:
“O Zeus nobilissimo,
il più grande degli dèi sempre esistenti,
di queste scegli quella che il cuore nel petto ti dice”.
Così disse meditando inganni, ma Zeus
che sa eterni pensieri
riconobbe l’inganno, né gli sfuggi, e mali
meditava dentro il suo cuore
per gli uomini mortali e a compierli si preparava.
Con ambedue le mani il grasso raccolse;
si adirò dentro l’animo e l’ira raggiunse il suo cuore,
come vide le ossa bianche del bue,
frutto del perfido inganno:
è da allora che agli immortali la stirpe
degli uomini sulla terra
brucia ossa bianche sugli altari odorosi”.
(535-557)

Si tratta di uno dei numerosi miti che ha per protagonista Prometeo, il Titano dispensatore della techne agli uomini, in cui si racconta che Zeus, divenuto re degli dèi, dopo aver ripartito i compiti tra gli immortali, decise di circoscrivere anche il ruolo degli uomini, stabilendo una giusta ripartizione degli onori. L’inganno di Prometeo, che abbatte, macella e cuoce sul fuoco un grande bue e ne ripartisce le parti destinate agli dèi ed agli uomini, assegnando subdolamente ai primi le ossa prive di carne ben nascoste sotto uno strato di grasso appetitoso ed ai secondi, avvolto nella pelle e nello stomaco ripugnante, tutto ciò che di delizioso vi è della bestia, consegna gli esseri umani ad un destino mortale. Da quel momento il mito narra come gli uomini per vivere dovranno sottostare alla legge del ventre e si comporteranno come tutti gli animali che popolano la terra, l’aria e le acque. La loro fame non si placherà mai perché segno di creature in cui la forza si consuma e si esaurisce, esseri votati alla fatica, all’invecchiamento ed alla morte. Solo gli dèi, inebriandosi di odori e profumi, estranei a tutto ciò che cade nel dominio del corruttibile resteranno eternamente giovani ed immortali. (J.P.Vernant, Mito e religione in Grecia antica, 1990).

La felice età dell’oro in cui non esisteva differenza tra crudo e cotto, in cui la natura non aveva bisogno della cultura e della techne, è tramontata: consumare cibo cotto mediante il fuoco, sia esso arrostito o bollito, diviene il tratto distintivo del genere umano.

L’inganno di Prometeo, tuttavia, con il conseguente furto del fuoco agli immortali ed il dono di esso agli uomini, mentre suggella la separazione tra immortali e mortali, lascia aperta una via di comunicazione tra gli antichi commensali del banchetto celeste: l’uccisione, macellazione e cottura della vittima da parte del mageiros (termine che sostanzia contemporaneamente nella Grecia antica il sacrificatore, il macellaio ed il cuoco) ripristina – attraverso la reiterazione del sacrificio offerto da Prometeo – una parziale comunicazione tra alto e basso, tra sacro e profano.

Dall’aspetto alimentare del mito discendono varie implicazioni, tra cui due appaiono delimitare la condizione umana: da un lato il sacrificio introduce tra gli uomini il consumo della carne, secondo precise regole e restrizioni, che veicolano la finalità religiosa di onorare gli dèi invitandoli ad un banchetto che è anche il loro banchetto, dais theon, dall’altro gli uomini possono mangiare carne solo in occasione del sacrificio (M. Detienne e J.P.Vernant, La cucina del sacrificio in terra greca, 2014).

Nella cultura greca il rito sacrificale, che pone l’annientamento della vita della vittima come centro sacro dell’azione umana, assurge a rito fondante della storia dell’umanità configurando una doppia dimensione, ascensionale e discendente, tra uomini e dei. Il racconto mitico suscita anche una serie di riflessioni sui gesti e le pratiche del sacrificio, nonché sui presupposti del rito stesso – ritus dalla radice sanscrita ri, che esprime l’azione dello scorrere, dell’andare, termine associato a forme greche come artus ordinamento, ararisko armonizzare e arthmòs congiungimento – ovvero sull’insieme di quei segni, portatori di una dimensione simbolica, in uno spazio ed in un tempo specifico “culturalmente” condivisi da una comunità.

Il sociologo americano George Ritzer, autore de Il mondo alla McDonald’s e La globalizzazione del nulla, sostiene che una delle maggiori ironie del mondo contemporaneo è che ci si trova di fronte alla trasformazione di gran parte del cibo da “qualcosa” in “nulla” o comunque in “non cibo”. Il riferimento ai non cibi richiama la definizione dei “non luoghi” dell’antropologo francese Marc Augè, ovvero di quei luoghi “ideati e controllati a livello centrale e privi di contenuti distintivi”, come gli aeroporti oppure i grandi centri commerciali, sempre uguali a se stessi in ogni parte del mondo, così come lo sono gli hamburger di McDonald’s e tutti i piatti preconfezionati, serviti nelle mense di scuole ed ospedali (Slowfood, 2010, num. 44).

Lo stesso tipo di non cibo è consumato anche nei popolarissimi luoghi di ristorazione veloce, fast food.

Sui banchi frigoriferi all’interno grandi spazi prevalentemente bianchi, fanno mostra, insieme a piatti ideati dall’industria alimentare allo scopo di sfamare senza nutrire, anche pietanze della grande cucina internazionale dalle suggestioni asiatiche o africane, senza alcun riferimento alla cucina locale, storica o geografica dell’avventore: non cibi in non luoghi dell’alimentazione, il cui consumo frettoloso – spesso nell’intervallo lavorativo del mezzogiorno – avviene in solitudine, perché un pasto non preparato, ma semplicemente confezionato, magari con ingredienti non esistenti nell’emisfero del mondo in cui è mangiato, non è qualcosa da condividere.

Uno dei peccati capitali della nostra economia sembrerebbe l’aver dimenticato, anche se da qualche anno la ristorazione regionale e tradizionale, sotto il nome di slow food, ha parzialmente riguadagnato il terreno perso, che il cibo non è una qualsiasi merce, replicabile ovunque, il cibo è cultura, fa parte dell’identità dell’individuo, delle sue tradizioni e che alle origini del genere umano c’è un rito, un sacrificio, che ogni volta invita al medesimo banchetto, mortali ed immortali.

In un articolo comparso sul settimanale l’Espresso (Mondo Cannibale) si legge che nel globo terrestre ci sono circa un miliardo di persone in sovrappeso, localizzate soprattutto negli USA, per non considerare l’aumento di intolleranze e disturbi alimentari che affliggono sempre più le ultime generazioni.

Il mondo cannibale cui fa riferimento l’articolo segnalando l’ incremento di patologie dovute ad una sbagliata modalità di nutrizione, da quelle cardio vascolari alla ipercolesterolemia ed al diabete, fino a quelle che producono distorsioni sull’apparato scheletrico in conseguenza dell’aumento di peso corporeo, sembra incarnare un paradosso, quello della vita che uccide la vita. In un episodio dell’Odissea, Circe e Tiresia esortano Odisseo a non visitare l’isola di Trinacria dove pascolano le mandrie del Sole, sette armenti di vacche, trecentocinquanta animali, uno per ogni giorno lunare, fatti della stessa sostanza del Tempo, che non generano e non muoiono mai, incarnazione della Vita inesauribile. Ma i compagni di Odisseo, per paura di morire di fame, non rispettano il divieto e massacrano la mandria del Sole. Ciò che si compì allora fu una lesione primordiale, che mai si sarebbe sanata. La vita uccideva la vita. (Roberto Calasso, L’Ardore, 2010). Gli uomini divorarono avidamente le più belle vacche della mandria e continuarono per sei giorni di seguito, non più spinti dalla fame, ma per puro piacere, inebriati dalla bramosia di divorare carne morta. Al solo fine di mascherare la propria cupidigia inscenarono un sacrificio pur non ricorrendone gli elementi per il rito: ma quella carne non era morta, infilzata sugli spiedi, continuava a muoversi ed ad emettere un suono raccapricciante. Perirono tutti in mare, tranne Odisseo che si era astenuto da quell’orribile massacro.

In Occidente non abbiamo tempo per il rito perché non abbiamo tempo per fare posto al tempo nel quale il rito ci fa entrare. Forse è giunto il momento, ancor prima di affrettarci a trovare risposte, di porre la domanda giusta.

Laura Mazzone

 


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