Trattato di Antropologia del Sacro Il credente nelle religioni ebraica, musulmana e cristiana

AA.VV.
Vol V – a cura di Julien Ries

Jaca Book-Massimo, Milano 1993, pp. 362

Giuseppe Lampis

Dopo i primi tre volumi del Trattato di Antropologia del Sacro, nel settembre del 1993 è uscito il quinto (quello previsto sulle religioni e culture asiatiche australiane e amerindie non era ancora pronto).

trattato1Julien Ries, che dirige l’intera opera, è autore dell’introduzione e del breve saggio conclusivo, la prima sulla parabola evolutiva dall’homo symbolicus all’homo religiosus del Vicino Oriente fino alla specifica esperienza abramica, il secondo sulla trasformazione dell’idea di sacro in quella di santo nelle tre fedi monoteiste di cui al titolo.

Il Trattato ha finalità didattica e vuole offrire un quadro di massima di una nuova disciplina, l’antropologia religiosa. Si può individuare l’antropologia specifica delle singole religioni, dalle Upanishad al pensiero biblico, ma sotto di esse si può cogliere una disposizione permanente dell’uomo alla religione. I documenti che, dal Paleolitico ad oggi, esprimono il rapporto dell’uomo con il trascendente sono alla base della nuova disciplina. L’uomo, come soggetto dell­’esperienza del sacro, è il tema dell’antropologia del sacro: Julien Ries, dell’Università di Lovanio, ha coordinato un ampio lavoro interdisciplinare per rendere l’universo di simboli, miti e riti, in breve il vissuto, dell’homo religiosus, lungo la linea che ha preso avvio da Rudolf Otto, Gerardus van der Leeuw, Mircea Eliade, Friedrich Heiler.

Ogni volume del Trattato esegue, pertanto, il compito di lumeggiare, secondo diversi approcci ma in un quadro di sostanziale comparatismo, l’dea propulsiva che sta alla base di grandi complessi religiosi accomunati da storie e tradizioni specifiche.

trattato3Nel presente, tra l’introduzione e le conclusioni di Julien Ries, troviamo saggi sul mondo prebiblico sumero e babilonese, sull’Antico Testamento, sulle pratiche del giudaismo, sul Nuovo Testamento, sull’antropologia cristiana, sulla fede musulmana.

Il filo che tutto lega è evidenziato nelle conclusioni. Siamo qui al cospetto di tre grandi tradizioni religiose che rappresentano un culmine dell’esperienza umana, ma anche un incontro difficile e spesso ricco di contrasti: i tre grandi monoteismi abramici hanno riferimenti comuni della massima importanza e molti fatti, a partire dalla stessa sede geografica e storica, li stringono.» è perciò necessario andare a vedere quale esperienza costitutiva sia alla base di tale intreccio.

Il ceppo fondamentale delle tre religioni è nella rivoluzione ebraica, con la quale si esce dalle ierofanie cosmiche e si trova il sacro nella storia degli uomini. Il monoteismo avvicina l’uomo alla sfera divina e lo impegna ad una nuova responsabilità : se Dio si esprime nella storia, l’uomo è chiamato ad eseguire il compito che gli viene assegnato e le sue azioni dovranno manifestare il piano divino. La nuova ierofania, per l’Ebraismo, è dunque l’uomo stesso, immagine di Dio.

L’approccio di Ries concerne proprio l’idea di sacro e la sua evoluzione nell’idea di santo.

Il sacro biblico non è comprensibile senza il quadro di riferimento sumerico e accadico, e il lessico dei redattori dell’AT contiene i termini derivati dall’antica radice semita QDSH la quale ha già avuto una lunga storia nel momento in cui si forma l’ebraico. Il significato che viene ricevuto così, con la nozione di consacrazione, è quello positivo di appartenenza e di avvicinamento piuttosto che quello di separatezza. Del resto, Sumeri e Semiti attribuiscono alle divinità un potere di irraggiamento e splendore di fronte al quale il credente è sempre preoccupato di conoscerne e osservarne il senso.

Il Dio di Abramo accompagna l’uomo nel suo cammino, gli parla e lo ascolta; il Dio di Mosè si impegna con il suo popolo: nello strato pù antico dell’AT, i termini derivati da QDSH indicano già una consacrazione legata alla storia della salvezza.

Saranno i profeti, e soprattutto Isaia, a trasformare la nozione di sacro in quella di santo. La condizione di santità si interconnette con la pratica della giustizia, e non è pù qualcosa di eccezionale e momentaneo ma un’impronta costante. Per Isaia, Dio è il santo che chiama l’uomo a essere conforme con la sua volontà giusta e ad appartenere in tal modo alla sua santità. Ma, dopo l’esilio, Israele rifluisce su di un senso del sacro e del santo circoscritto al culto e riferito alla prospettiva messianica, anche se sempre in relazione con la vita dell’uomo e con la sua salvezza.

In sostanza, la parabola impressa all’esperienza del sacro da parte dei profeti approda a un risultato fortemente innovatore: il culto del sacro non concerne più la natura bensì il tempio interiore. La centralità della fede indica che sta nel cuore dell’uomo la sede propria della potenza divina.

trattato2L’affermazione del monoteismo ha comportato la demitizzazione delle forze cosmiche, la soppressione dei culti di fertilità, il superamento del numinoso legato agli idoli, l’assoggettamento del potere politico alla giustizia di Jahvé; l’intera comunità si consacra al Dio unico che è un modello e un comandamento. Dopo l’esilio e la scomparsa della re – che era l’Unto del Signore – gli uomini potranno salvarsi e santificarsi, infine, accogliendo il Messia, vivendo nellannuncio dell’avvento dello Spirito di Dio, e cioè seguendone la giustizia.

Il cristianesimo è una reinterpretazione radicale dell’AT. Il Dio santo si avvicina agli uomini attraverso il suo eccellente inviato. Questi è il Santo di Dio, e in comunione con lui gli uomini sono rinnovati e cooptati in una nuova creazione. In effetti, Gesù è l’Uomo perfetto in cui si esplicita la originaria potenza di Dio dapprima raccolta in sé. I Padri della Chiesa hanno lavorato sulla nozione di immagine (dal libro della Genesi: Dio creò l’uomo a sua immagine) e hanno identificato nell’uomo la rivelazione, il farsi visibile, di Dio.

I cristiani sono pertanto gli uomini nuovi, misticamente associati al Cristo risorto, investiti in tal modo dallo Spirito di Dio, chiamati e consacrati non per via esterna e rituale bensì per via spirituale dalla parola: dall’esprimersi divino, si potrebbe dire.

Uno sviluppo e un’intensificazione di grande portata, dunque, dell’dea di santo già presente in Isaia. Il Cristo è l’Uomo, e l’Uomo è la santità stessa di Dio che si affaccia fra gli uomini e, accomunandosi a loro, muta il loro statuto.

La nuova antropologia cristiana nasce dalla liberazione integrale dal numinoso delle forze naturali (che saranno riutilizzate e riconsacrate in un’altra ottica, quella messianica) per far luogo al numinoso della parola: il Cristo-Parola. L’esperienza del sacro è esperienza di dialogo e comunicazione.

Dal canto suo, l’Islam configura un monoteismo intransigente in cui Allah penetra tutto l’universo e ogni uomo senza alcuna mediazione. Allah non si fa mediare neanche dalla sua stessa parola, la quale non è realtà autonoma e capace di sussistere di per sé. La onnipotenza di Dio è rigorosamente senza limiti. Nessuna persona gode di una consacrazione permanente, né possono darsi strumenti sacramentali: solo ed esclusivamente Dio è santo, al-quddus, e può dare santità.

Possono sussistere sacralizzazioni temporanee (quella che si acquisisce all’inizio di ogni pellegrinaggio alla Mecca, per es.; o nella profonda genuflessione con il viso verso la stessa); alcuni, a partire dal profeta, godono di particolare considerazione, ma la consacrazione – e l’interdizione – scaturiscono solo dal comando di Dio.

trattato4Il termine per indicare il sacro, nell’Islam, risale alla radice HRM (diversa come si vede da quella biblica): essa contiene sia il significato di mettere da parte ciò che è consacrato (luoghi, tempi), sia di interdire (cose o atti impuri).

L’unico vero ruolo dell’uomo è quello di ubbidire a colui che tutto pervade e tutto può.

L’impostazione antropologica delle ricerche non deve essere fraintesa. I tre grandi monoteismi non sono lo stadio superiore di una catena evolutiva, né poggiano il loro valore sul fatto di aver innovato o modernizzato, per così dire, rispetto alle precedenti esperienze. Se così fosse, la iconoclastia dell’uomo moderno e il compimento della secolarizzazione o della demitizzazione sarebbero conclusive e supreme.

Al contrario, l’avvicinamento e la intima presenza del sacro non abolisce l’attesa o l’ubbidienza. Piuttosto, in tale forma, si indica che anche e soprattutto nell’interiorità non c’è posto solo per l’uomo banale e mondano. Insomma, l’approccio antropologico, lungi dal chiudere l’uomo nella sua dimensione orizzontale, mostra che gli è invece costitutiva l’apertura verso una dimensione trascendente: e, al tempo stesso, mostra che il divino lo compenetra nella sua più peculiare natura.

La dialettica di avvicinamento e attesa è chiara in tutti e tre i monoteismi.

In quello ebraico, prevale il tradizionalismo: l’attributo di sacralità, che definisce la potenza di Dio, non si traduce mai definitivamente in quello di santità ; la santità è una condizione in cui Dio e uomo possono ritrovarsi insieme perché ambedue conformi a una regola unica, la giustizia. La giustizia, mentre eleva l’uomo a Dio, fa scendere Dio verso l’uomo. Tale idea è preparata da quella di alleanza e patto e riceve l’impulso decisivo dal riconoscimento che gli atti di Dio e gli atti degli uomini rientrano in un destino comune. L’idea di santità considera la possibilità di una divinizzazione dell’uomo e di una umanizzazione di Dio. Ora, il pensiero ebraico non arriva mai a tanto: la sua idea di sacro resta qualificata dalla trascendenza, nonostante l’avvicinamento e l’alleanza. Il Dio dell’alleanza resta comunque lo stesso di quello della promessa, vale a dire di quello legato a un fine da compiere perché non compiuto. Dio accompagna sì l’uomo, ma resta Dio. Non solo: ma, mentre l’idea di santità valorizza l’interiorità atemporale e aspaziale, la sacralità è legata al concreto, del rito e del tempio. Quando il tempio sarà distrutto e il popolo disperso, il tempio-città sarà comunque con l’uomo storico ma nella forma del tempo e dello spazio sovraumani della promessa.

Nel cristianesimo, la rivelazione della divinità nella parola introduce oltre un passaggio stretto, che non è già la meta. L’ascolto e il dialogo possono darsi in una lingua e in una sede ritrovate e tuttavia sono aperte alla trascendenza, tanto che la conclusione che potrà esserne data coinciderà con la stessa conclusione del cammino umano. L’uomo che rende visibile Dio è un risorto, e ogni uomo deve – da morto quale è – farsi vivo per poter essere quell’uomo e il vero se stesso.

Nell’islamismo, l’esperienza di Dio è esperienza di abbandono totale e di fede senza residui.

Dunque, lo studio antropologico, che accerta differenze e contrasti fra le tre storie e i tre credenti, riesce a mettere in luce una base comune alle tre tradizioni, le quali risalgono a un patriarca comune, ad Abramo, il pastore che ubbidisce, ascolta, parla con Dio.

Giuseppe Lampis


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