Homo loquens Oralità e scrittura in occidente

(da átopon Vol. VI)

Paolo Miccoli
Urbaniana University Press, Roma 1998, pp. 159

Giuseppe Lampis

Con questo saggio l’autore si colloca nella discussione sollevata dal Preface to Plato (Cambridge, Mass.– USA, 1963)1 di Eric A. Havelock.

homoloquensHavelock sostiene che la filosofia greca dipende dall’avvento della scrittura. L’introduzione di questa tecnica di comunicazione avrebbe liberato a suo avviso le energie fino a allora impegnate nella memorizzazione del sapere orale e permesso il passaggio dal linguaggio concreto al linguaggio astratto.

In altri termini, il passaggio dall’universo di Omero a Platone dipenderebbe dalla introduzione della scrittura.

Una volta gli studenti del liceo apprendevano fra le prime cose di filosofia dell’importanza della scoperta del concetto da parte di Socrate e apprendevano altresì che la consapevolezza di questa scoperta si fa piena insieme con la scoperta del soggetto universale (l’anima) che il concetto implica e presuppone.

Successivamente, in riguardo alla formazione del pensiero logico– astratto, sono stati valorizzati anche i cosiddetti filosofi presocratici sottraendoli alla classificazione di Aristotele che ne faceva dei pensatori ancora incompleti. Non solo, ma gli studi sono risaliti ancora più indietro nella individuazione degli elementi scatenanti del processo in questione, a Esiodo e a Pindaro e persino a alcune espressioni della mitologia, scorgendovi già la presenza di nozioni universali.

Ebbene, le cadenze di questo itinerario della crescita del logos astratto vengono sostanzialmente assunte da Havelock e però fatte dipendere dalla rivoluzione della scrittura nei confronti della cultura orale.

La scrittura di cui parla Havelock non è quella ideografica o geroglifica, riservata programmaticamente a una cerchia ristretta e ancora interna all’universo della oralità, bensì quella alfabetico– lineare che trasforma radicalmente la natura della comunicazione e del contesto in cui si formano i lessici. Lo scrittore che usa la scrittura alfabetico– lineare entra in una epoca nuova nella quale la trasmissione dei suoi contenuti si libera del rapporto immediato e diretto con un pubblico fisicamente presente.

Egli mediante la scrittura può rivolgersi a un pubblico generico, invisibile, assente, distante nel tempo e nello spazio, e di conseguenza egli stesso si converte nel complemento speculare di tale pubblico di lettori deconcretizzati e diviene scrittore generico, universale, quasi astorico.

Il sapere di tali sapienti riconvertiti alla scrittura, e da essa riorientati, si sgancia dal pathos della immediatezza della comunicazione orale e si trasforma progressivamente in senso astratto.

Alla comunicazione orale è giocoforza seguire le regole della rappresentazione teatrale, in cui trionfa la mimesi, mentre la scrittura raffredda e razionalizza inesorabilmente.

La cultura orale si trasmette con la memoria e deve essere organizzata per la memoria; la sua sintassi e il suo lessico dipendono dalle esigenze della memoria. Per Havelock essa ha perciò bisogno di basarsi su immagini concrete e sulla legge della analogia con cui tali immagini si connettono e richiamano. La scrittura invece non ha bisogno delle immagini concrete e dei loro nessi analogici e lascia libere tutte le energie per la costruzione di un logos astratto.

La cultura orale di cui parla Havelock è quella dell’Iliade e dell’Odissea. Ignoro a quali risultati porterebbe la sua tesi se fosse applicata ai libri Veda, ma – come è facile intuire – si tratta di una idea dalle conseguenze formidabili e dall’impatto ermeneutico inaudito.

Nel caso specifico, dato che la scrittura greca fu introdotta a partire dal V secolo a. C. e raggiunse la sua massima diffusione tre secoli dopo, Platone viene ripensato come il filosofo tipico della svolta; non a caso egli entra in contrasto con la etica e il sapere connesso con la poesia epica (in quanto basati sulla mimesi e non sulla verità dei concetti ideali astratti).

La corrente di studi che ha preso le mosse da Havelock si è andata a collocare nel più ampio quadro del dibattito sulla nascita della filosofia, come era naturale, ma si è anche intrecciata con discussioni di filosofia e di sociologia del linguaggio, ritornando – a ben vedere – alla vera matrice sottesa alla stessa idea di Havelock.

Miccoli esamina i principali esponenti di questa arena, da Detienne a Mc Luhan. Il suo intento si presenta esplicitamente fino dal titolo del suo lavoro: l’uomo è innanzitutto colui che parla e non colui che scrive. Il pensiero si incarna sì nella parola che «prende rilievo di intercomunicazione civile e spirituale sulla base di quella convenzione logica occidentale che è la scrittura alfabetico– lineare» (p. 14), e però la parola possiede una natura che eccede questa convenzione.

Miccoli riconosce che è vero che la parola si è fatta catturare dalla scrittura e che il parlante si è fatto estraniare e desoggettivizzare. La scrittura tipizzata alfabetico-lineare corrisponde alla vittoria del logos cartesiano e però c’è qualcosa nella natura profonda della parola che resiste. La parola originaria sta prima di questo destino storico e a essa si può tornare – hölderlinianamente –  da poeti .

Miccoli si richiama a Husserl e specialmente a Heidegger, di modo che riformula così il problema sollevato da Havelock: cosa ha prodotto specificamente l’uso della scrittura? Quale destino essa simboleggia?

A dire il vero, Heidegger, molto prima che l’attenzione fosse attirata dalla tesi di Havelock, aveva già sostenuto che con Platone si erano prodotti una cesura e un mutamento d’epoca.

E’ interessante constatare come Havelock confermi questa tesi con argomenti ancora più heideggeriani – se si vuole – di quelli dell’autore originale, dal momento che sostiene l’incidenza decisiva della tecnica nella formazione della filosofia platonica.

Per Heidegger infatti la tecnica (e quindi anche la scrittura) è l’ evento in cui si mostra l’epoca moderna.


Nota 1
Il titolo della traduzione italiana si direbbe più fedele dell’originale al contenuto del testo: Cultura orale e civiltà della scrittura da Omero a Platone , Roma – Bari 1973.


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