Il nichilismo europeo Considerazioni sugli antefatti spirituali della guerra europea

(da átopon Vol. VI)

Karl Löwith
Laterza, Roma-Bari 1999
Tit. orig.: Der europäische Nihilismus: Betrachtungen zur geistegen Vorgeschichte des
europäischen Krieges, Stuttgart 1983

 

Giuseppe Lampis

Le date della presente edizione non debbono trarre in inganno. I nostri nonni chiamavano Guerra europea Grande guerra la prima guerra mondiale, il grande massacro con cui si concluse effettivamente il secolo XIX e con cui si aprì l’epoca presente. Le menti legate all’equilibrio liberale della Vecchia Europa colsero bene il senso dello sconvolgimento attraverso il quale si consumò il declino della sua centralità a favore di due nazioni nuove e fino a allora marginali, Russia e America. Ciò che accadde fu già da allora interpretato spiritualmente, vale a dire come dovuto a una vicenda dello spirito (nella fattispecie a una sua malattia).

nichilismo
Friedrich Nietzsche

Si parlò così di tradimento degli intellettuali (come si intitola un lucido saggio del 1927 di Julian Benda, La trahison des clercs ) e di fine della Grande illusione (come si intitola un famoso film del 1937 di Jean Renoir nel quale si tratteggia il declino delle aristocrazie e dell’etica cavalleresca e internazionalista che era stato il loro aspetto migliore e che era stato spazzato via dall’irrompere dei nuovi stili di vita). L’idea del tramonto acquisì via via una connotazione filosofica e fu espressa sotto varie forme: Benedetto Croce ripensò in proposito alle leggi dei corsi e ricorsi storici di Vico secondo le quali l’umanità si rinnova barbaricamente e tragicamente, altri invece parlarono di nichilismo, riutilizzando un vecchio concetto e adattandolo a quello che a loro parve essere il nuovo ethos prevalente.

Karl Löwith parla qui di nichilismo nel senso che fu imposto da Nietzsche. Si tratta di un senso arduo e ambivalente. Il nichilismo nietzscheano è quello della morte di Dio , della fine dei valori assoluti e ontologicamente fondati: per esso niente è vero, tutto è permesso , di modo che smascherata l’inconsistenza e la relatività dei valori si apre l’epoca tremenda dell’uomo solo di fronte al destino. Il nichilismo nietzscheano chiude quella che fu sentita come età della sicurezza e apre un tempo di penuria nel quale sapranno essere risoluti e sapranno decidersi solo uomini dotati di natura ferina, di eccezionale capacità di sacrificio, di volontà non corrosa dalla morale cristiana, uomini che essendo stati capaci di accettare che la vita finisce con loro saranno diventati per ciò stesso capaci di fare sì che inizi con loro.

Löwith vede erompere in Nietzsche il punto critico e ne indaga la incubazione e la formazione storica. Era Löwith uno degli ultimi grandi storici della filosofia, mente lucida e penetrante, conoscitore profondo della cultura europea moderna, uno dei grandi intellettuali che si sentirono travolti da un destino irreversibile, di cui vollero indagare il significato.

L’articolo qui tradotto fu preparato nel 1939 e pubblicato in Giappone l’anno dopo, in esilio, sospinto lontano dalla sua Germania a causa delle persecuzioni razziali. Era Löwith un ebreo che si sentiva profondamente e tipicamente tedesco, come molti altri, come Thomas Mann, per limitarmi a un esempio particolarmente rappresentativo. In loro si esprimeva l’anima aperta, universalistica, classica, romana, goethiana della Germania.

Ma in questa terra oramai prevaleva un’altra potente spinta proveniente fino dai tempi antichi di Arminio e che era esplosa in età moderna con Lutero: lo spirito della protesta (la più autentica anima originale barbarica del mondo tedesco) secondo il giudizio di Dostoevskij che Löwith fa proprio e con cui corona la sua analisi. Il popolo tedesco nel suo cuore profondo gli appare un popolo contro , dunque, di cui ancora non si sarebbe capita la parola nuova.

Ma, poi, sarà proprio vero che non si capisce? Löwith si ritrae inorridito di fronte a quella che non può non avere ascoltato e che, in definitiva, riferisce così bene. D’altronde il suo germe sta precisamente in quella Vecchia Europa che egli tanto ama. D’altronde basta considerare il momento storico in cui l’articolo esce, il 1940. In quel tempo, la Germania in armi ha già inghiottito l’Europa e confinato l’Inghilterra ai margini in una disperata difensiva, l’America al momento non ha nessuna voglia di intervenire a dissanguarsi per gli altri che appaiono lontani, la Russia di Stalin ha stretto con la germania hitleriana un patto di spartizione dell’egemonia che non dové sembrare ai contemporanei occasionale e estrinseco come le convenienze politiche successive imposero di raccontare. Non così apparvero le cose, in quel tempo, agli spiriti del liberalesimo europeo che intuirono le affinità culturali dei contraenti il pactum sceleris .

Per Löwith il punto alto di equilibrio dell’Europa è rappresentato dalla grande sintesi razional-cristiana di G. F. W. Hegel, ma subito dopo Marx da una parte e Kierkegaard dall’altra già silurano il primato della teoria (della ragione teorica) a vantaggio della decisione , atto di una volontà non più consustanziata di valori eterni che si esercita sul terreno della prassi sociale per il primo e sul terreno della interiorità per il secondo.

La frattura in tale modo introdotta nei riguardi di Hegel raggiunge il massimo con Nietzsche, che è l’ultimo peraltro a sentirsi legato ancora allo spirito filosofico europeo nel senso vagheggiato da Löwith. Löwith ha scritto sull’argomento, praticamente nello stesso periodo, un libro memorabile (** Von Hegel zu Nitezsche : ** Da Hegel a Nietzsche: Una frattura rivoluzionaria nel secolo XIX ) e il presente articolo non può non riportare i risultati di quella indagine. Ma ciò che più mette conto di osservare è che non si tratta di mera ripetizione. Qui c’è qualcosa di meno e qualcosa di più: il meno è dovuto alla natura sintetica dell’articolo, il più al fatto che Löwith risiede ormai in Giappone (il suo esilio proseguirà per qualche anno negli Usa e si concluderà con la chiamata all’università di Heidelberg) e da ciò viene sollecitato a un bilancio più generale, se così si può dire, dello spirito europeo.

A tale proposito, risulta fondamentale proprio la postfazione dedicata al lettore giapponese.

Il Giappone gli appare superbo e ingenuo nel tempo stesso: esso non può sentirsi così divino da prendere il meglio di sé e il meglio dell’Europa scartando il resto, non può fare la sintesi tra antichità e modernità con sicumera ottimistica, non può prendere la tecnologia e il progresso europei senza trascinarsi dietro anche la storia europea.

Ignoro il motivo che indusse Löwith a sbarcare in primo luogo nel Giappone imperiale del 1936. E’ certo che ne restò affascinato ma anche deluso. L’Oriente gli risultò come una propaggine, più o meno involontaria e passiva, dell’Europa, incontrata troppo tardi quando oramai essa era divenuta fonte solo di contagi infetti. Il problema storico nato in Europa non avrebbe potuto trovare a suo avviso soluzione presso altri ma doveva trovarla in essa.

Ma di quale soluzione si trattava?

Löwith è stato allievo di Heidegger e qui sta il suo martirio. Infatti egli sta dentro il regno della rappresentazione heideggeriana delle cose ma vi si sente straniero. Da europeo, egli sente che Heidegger sta parlando del suo problema eppure la sua anima non resta convinta da quel parlare.

Possiamo tentare di spiegarne il motivo. Non si tratta del rapporto Heidegger-nazionalsocialismo (Heidegger non è razzista, e tolse ben presto il suo appoggio al nuovo) ma di qualcosa di più radicale. Possiamo dire che si tratta di un dissenso profondo sulla natura della storia, che per Löwith è quella proposta nella filosofia di Hegel (sintesi di Dio e mondo, Dio e uomo, Valori e stato) mentre Heidegger gli pare volere dire che l’uomo, pur essendo storicità, lo è bensì nel senso strettamente fattuale. Per questo motivo, il ritorno ai Greci di cui si tratta in Nietzsche e Heidegger per lui non ha senso.

Per Löwith invece i Greci sono piuttosto coloro di cui parla Hegel: i vincitori della battaglia di Maratona contro il despotismo asiatico, i portatori dello spirito della libertà individuale e della critica razionale.

La tragedia della posizione di Löwith si consuma nella sua incapacità di riconoscere e concludere che purtroppo proprio da lì, da quello originale spirito critico greco ionico, da quell’individualismo creativo e libertario, è stato scoperchiato il vaso di Pandora del progresso tecnico e della massificazione che produce i tiranni.

Löwith vede nello spirito giacobino il germe che ha infettato l’Europa. Lo stesso Napoleone e l’idea di una unificazione del Continente sotto il regno della ragione sono impossibili senza il giacobinismo. La potenza teorica di Hegel sta però nel fatto che egli porta a perfetta maturazione la sintesi della tradizione razionale con il cristianesimo. Con lui si conclude l’ultima fase dell’incontro tra grecità e cristianesimo e con lui, pertanto, si realizza la fine della storia.

L’Europa autentica per Löwith è in definitiva quella della unità cristiana. Ma la prima unificazione cristiana dell’Europa fu opera franco-carolingia e fu spezzata dall’insorgere della protesta tedesca (è la avversione della Germania nei confronti della Francia a impedire quella sintesi felice e infatti ancora si ritrova alla base della Guerra Europea qui studiata da Löwith).

Heidegger al contrario vide culminare in Hegel proprio quella unificazione concettuale del mondo che ne ha permesso la riduzione a deposito di materie prime da sfruttare. Hegel e il cristianesimo sono a suo avviso consustanziali con il sistema scientifico-industriale della tecnica e del destino di questa. Non si può prendere l’uno senza l’altra e distinguere.

A questo punto l’allievo di Heidegger si trova stretto nella aporia. Il problema del senso della storia, che è il problema saliente di Löwith, si impone con due facce: o il senso, alla storia, proviene da qualcuno, sia esso l’animale più forte del dolore, o il nuovo profeta zarathustriano, o l’uomo ultraumano che vuole di volere (Nietzsche); oppure il senso trascende gli uomini in quanto tali e eviene come una apocalisse che li eccede e li determina e che essi non governano in alcun modo (Heidegger).

Già pochi anni dopo, Löwith (scomparso nel 1973) dovette avere la controprova. Studiando la storia da hegheliano (cristiano) avrà dovuto constatare che essa non andava verso il trionfo del III Reich bensì verso quello degli Usa. Avrà constatato che il regno della tecnica e della industria si realizzava in quella nuova più grande Europa, allo stesso modo che la Megale Hellas amplificò e attuò la piccola madre patria d’origine.

Proprio di questi tempi un giapponese americanizzato, Francis Fukuyama ( The end of History and the last Man , New York 1992) ha sostenuto di trovare negli Usa la incarnazione realizzata della profezia di Hegel circa la fine della storia.

Fukuyama parte dalla interpretazione di Hegel che Alexandre Kojève dette nelle sue lezioni degli anni 30 ( Introduction à la lecture de Hegel , Paris 1947).

In breve: la storia è conflitto, ma il motore del conflitto non è tanto il desiderio di benessere materiale quanto il desiderio di riconoscimento . Il riferimento verte sulla dialettica della dominazione di cui si tratta nella Fenomenologia dello Spirito : al Signore non è sufficiente che il Servo si pieghi a soddisfargli i bisogni materiali, egli vuole anche e soprattutto essere riconosciuto .

Così, quando gli uomini si saranno riconosciuti reciprocamente senza riserve allora, cadendo il movente principe del conflitto che crea storia, la storia sarà compiuta e avrà toccato la sua fine.

E’curioso prendere nota di quanto sopra, e non intendo riferirmi tanto al fatto che uno studioso di origini nipponiche tessa un elogio – se si vuole – dello spirito liberale1 degli Usa attuali, quanto piuttosto al fatto che l’elogio attribuisca un senso spirituale-hegeliano all’incontrovertibile evento storico della egemonia mondiale degli Usa. E come potrebbe risultare diversamente, se di egemonia si tratta, se anche applicassimo un criterio spirituale alla Löwith? Nessun dominio potrebbe fondarsi soltanto su un fatto materiale.

Seguendo il concetto chiave proposto da Löwith si dovrà osservare che la decisione che incrinò l’idea imperialcristiana incarnata nella sua Vecchia Europa non aprì affatto la strada al III Reich. Alla luce dell’esperienza lo stesso Löwith dovrebbe piuttosto prendere atto che la sua famosa frattura rivoluzionaria nel secolo XIX non si fermò alla realizzazione delle effimere premesse della Neue Ordnung nazionalsocialista e che invece è sfociata nella affermazione di una potenza planetaria – garante del liberalesimo globale – basata sul sistema tecnico-industriale dominante.

Martin Heidegger nel suo Unterwegs zur Sprache (1959)2 include un dialogo tenuto qualche anno prima con un eminente studioso giapponese intorno a una parola della sua antica tradizione. La parola giapponese è iki , inafferrabile e intraducibile da termini europei moderni: “il vento della pace silenziosa del rapimento illuminante”, “puro rapimento della pace del silenzio nel suo richiamo”.

Solo un mero avvicinamento è lentamente possibile al suo lontano significato; nessun risultato immediato può essere raggiunto: il cammino di avvicinamento esige un simmetrico allontanamento dal lessico europeo attuale. Per mettersi sulla strada giusta occorre una presa di distanza dall’Europa, più radicale di quella proposta da Löwith, che per togliere i guasti della modernità si limiterebbe a espungere il giacobinismo. Quel testo riporta solo un breve fascinoso squarcio.

Quando Löwith dice che antichità e modernità non possono incontrarsi alla pari ha ragione, perché è il moderno che deve ridiventare antico.

Ma come?

Nota 1
In versione hegeliana. Come è noto, in filosofia hanno avuto corso due accezioni contraddittorie e inconciliabili della idea di liberalesimo, l’una con ascendenza hegeliana l’altra con ascendenza lockeana. Non è il caso di spiegare qui le differenze tra le due idee e di libertà e di soggetto titolare di libertà rappresentate dalle due suddette linee di pensiero.

 

Nota 2
Tr. it. A. Caracciolo, In cammino verso il Linguaggio, Milano 1973; tr. franc. J. Beaufret, Acheminement vers la parole, Paris 1976. 


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