Uno sciamano greco nella Sicilia del V secolo a.C.

Giuseppe Lampis

Amicizia e Contesa 

Amicizia e Contesa sono forze in opposizione, nessuna delle due è più forte dell’altra, se lo fosse non ci sarebbe opposizione effettiva ma al massimo un astioso e riottoso servaggio della più debole.

Amicizia e Contesa si scontrano, se si scontrano si incrociano. Se avessero ciascuna un regno riservato a turno, il loro rapporto non sarebbe né vero scontro né vera opposizione, ma una danza.

Una simile idea non è estranea alla sapienza antica. Shiva è un dio terribile che crea il cosmo danzando. Anche Apollo, dio che danza per eccellenza, apre mondi i suoi cenni e segni. Superfluo richiamare la frenesia creativa di Dioniso. Il fanciullo re di Eraclito crea mondi giocando.

Non è chiaro se Empedocle volesse dire che quello che agli uomini appare come un conflitto fra dei sia per questi un gioco.

Un gioco al quale gli uomini che sanno devono sottrarsi al più presto.

Quadrare il cerchio 

Tutto quello che Empedocle dice è ambiguo, non che il senso sia subdolamente celato, al contrario: ma non ci si deve fermare mai alla prima affermazione, il senso della prima affermazione, ancorchè perentoria e apparentemente inequivoca, si sottrae a chi sta fermo e non prosegue il viaggio.

empedocleNulla di più netto, a esempio, di quello che Empedocle dice dello Sfero – uniforme, perfettamente rotondo, beato in sé della propria solitudine –, eppure lo Sfero non è né solitario né uniforme e – per uno scandaloso paradosso – non è nemmeno rotondo.

A rigore non esiste lo Sfero a sé, come regno esclusivo di Philia, bensì esiste lo Sfero attaccato da Contesa che sempre accompagna la sua nemica .

Non c’è su scala metafisica un momento in cui lo Sfero non sia aggredito dall’urto.

Perciò, per la stessa ragione e allo stesso modo, non c’è Uno senza quattro. Non c’è sfera senza quadrato.

I matematici hanno cercato per secoli di scoprire il segreto della quadratura del cerchio. Di recente è stato sostenuto da Popper che Platone avesse risolto il problema. Noi possiamo anche non avere questa certezza, e permetterci di non sapere se Platone ci fosse arrivato tramite la tradizione della sapienza dei numeri pitagorica e orfica, della quale era seguace, non è questo il punto più interessante: ciò che conta comunque è che, se pure il problema non fosse stato risolto, era però il loro problema. È questo il punto centrale su cui dobbiamo riflettere.

La reciproca conversione del cerchio e del quadrato hanno un valore alchemico primario. Per restare a Empedocle, si tratta del rapporto tra terra e cielo. Rapporto non meramente fisico-cosmologico, bensì eminentemente escatologico, avente nelle sue quinte profonde e essenziali il rapporto di conflitto tra forze della luce e forze della terra.

Uno, quattro, molti 

Le quattro radici sono dei, la loro individuazione non è inequivoca, la più probabile è la seguente: l’aria (con caratteristiche tali da insinuare che vi si possa comprendere anche l’etere) è Zeus, la terra Hera, il fuoco Aidoneo, l’acqua Nesti (le sorgenti sono le sue lacrime).

Interessante che Hades sia il fuoco, tema ricco di implicanze. Per quanto riguarda la terra il nome di Hera è un perfetto sinonimo della grande madre. Empedocle, nella scelta dei nomi, dimostra una tendenza arcaicizzante, voglio dire che dimostra di volersi tenere connesso con un retroterra sapienziale e dottrinale tradizionale, ciò è una caratteristica degli orfici. In proposito, si veda anche la questione del caos.

I Quattro hanno anima, vita, personalità demoniche, caratteristiche alchemiche; peraltro si incrociano in due coppie alternative, leggero-pesante (aria-terra) e freddo-caldo (acqua-fuoco).

Secondo questo schema, leggero e caldo si corrispondono come si corrispondono aria-etere e fuoco, ovvero come Zeus e Hades.

Gli incroci di contrari risiedono, in sostanza, nell’intimo dell’essere eterno.

L’essere in Empedocle si pone in quattro modi.

L’Uno ha dunque 4 radici, quattro rizomata . M. L. West vi trova in ciò una eco della tradizione arcaica dell’albero del mondo, del resto parlare di radici è effettivamente fin troppo allusivo a un vivente axis mundi, tronco unico dal quadruplice impianto.

Gli elementi, ovvero le radici, sono l’essere. La materia è essere e è eterna; l’essere è materia, e la materia è animata e divina.

Il divenire dipende da Philia e Neikos. Il divenire interviene sull’essere quadruplice mediante una coppia di forze contrarie. Philia e Neikos non sono essere e divenire, in altri termini essere e divenire non sono contrari. L’essere unico è tuttavia già plurale e per questo suscettibile di patire la azione del divenire, della genesis e della phtorà .

La pluralità dei quattro non è dovuta all’azione di Neikos, essa è originaria. Essendo originaria è intrinseca dell’Uno. Il quattro è costitutivo dell’uno. Qui c’è una plateale collegamento con il mondo dottrinale e religioso dei pitagorici, per i quali la tetrade è sacra, riceve il giuramento degli iniziati, è il numero magico simbolico rappresentativo per eccellenza del tutto .

Non c’è vuoto, l’essere è pieno: è il pieno. Se è pieno, esso è insieme uno e tutti, uno e molti. Se è pieno è materia. La materia eterna non muore, può solo combinarsi in varie disposizioni interne. La vita e il movimento, la trasformazione e il divenire avvengono per riassetto di parti eterne e in sé incorruttibili e immodificabili. Il vuoto è apparente, esso è aria.

Il divenire è riassetto e mixis . In Eraclito il fuoco, unica materia originale, si trasforma, cambia intrinsecamente, gli altri elementi risultano dalle sue mutazioni e dai suoi scambi. In Empedocle, invece, la vita non è trasformazione in senso qualitativo di una materia, ma mescolanza di quattro eterni immutabili. La trasformazione è frutto non di perdita del proprio essere a favore di un altro, bensì di una mescolanza.

Questa tesi cospira verso la convinzione che la trasformazione sia illusoria e che, cioè, la vita sia illusoria, che il ciclo delle nascite e delle morti sia apparente e non sostanziale.

Apparente o illusorio non vuole tuttavia dire irreale: ma vuole dire di peggio, che la realtà è illusione o, più drammaticamente, che la illusione è reale.

Se questo fosse il pensiero di Empedocle, esso sarebbe un commento agli ultimi due versi del proemio di Parmenide, una soluzione – o una delle più alte soluzioni – del rapporto tra aletheia doxai sul quale l’antico maestro ha taciuto trattando i posteri da bambini a cui si raccontano favole, come dice Platone.

Per Empedocle la doxa o le doxai sarebbero una realtà alla rovescia, un rovescio della realtà, non sarebbero l’essere e però apparterrebbero all’essere, sarebbero cioè un grado della realtà, accessibile e reale a chi ci sta dentro dalla sua ottica, irreale e lontana se considerata dall’ottica di chi se ne è tornato al livello degli dei.

Forse non potremo risolvere mai il dubbio se Empedocle abbia teso a conciliare Parmenide e Eraclito o se il suo canto testimoni proprio che Parmenide e Eraclito contengono una stessa dottrina sostanziale di fondo. Della quale, Empedocle sarebbe, in tale caso, un ulteriore rappresentante.

E’ a questo proposito che entra in gioco l’orfismo o la religione dei pitagorici o dei greci d’Italia e Sicilia.

Il turno 

Cosa voleva indicare, sotto la superficie di una sorridente ironia, Platone nell’accennare alla dottrina empedoclea di un «turno» fra i contrari? Se la questione fosse di stretta pertinenza cosmologica e fisico-scientifica si capirebbe una critica, una critica abbastanza forte, addirittura di mollezza, superficialità e debolezza teorica. Ma il termine usato da Platone, malakos , si riferisce a una dimensione etica. Proviamo allora a pensare se per caso l’idea di un turno non combaci con la dottrina orfica.

Convergere e divergere turno . Prima una vicenda, poi un’altra. Da immortale divenire mortale, da mortale immortale.

Per Eraclito non c’è turno : chi è l’uno è anche l’altro? O la soluzione di Eraclito è più dura? E, cioè, il passaggio e lo scambio non c’è: uno è dio per sempre e l’altro per sempre schiavo. Questo è l’effetto dell’opera di Polemos , quel polemos che Empedocle chiama, illustrando e sviluppando, con due nomi, Philia e Neikos. Per Empedocle c’è una possibilità di prendere una strada migliore della prima. Chi è esule può tornare.

In effetti, la parola usata da Platone per indicare la «alternanza» o la «vicenda» o il «turno» è la stessa di Empedocle B17, 29: en merei .

Come abbiamo già evidenziato sopra, l’altro termine usato da Empedocle, ai vv. 7-8 del medesimo passo, per esprimere il concetto del turno è alloti , ripetuto due volte per introdurre le due situazioni che si avvicendano. I due avverbi vengono tradotti con talvolta … talvolta .

Ma il senso filosofico si renderebbe meglio con «da un verso» «dall’altro verso».

Allos è simile allo alius latino, e indica l’altro, la differenza, la diversità, il secondo che non è il primo ma soprattutto il secondo che è l’opposto; e così va per tutta la famiglia delle parole che si compongono con la sua base; in breve, allos indica quello che noi chiamiamo un’alternativa. Ora la alternativa si accosta e rovescia: si pensi alla congiunzione avversativa allá , con la quale una nuova affermazione si oppone alla precedente e la sostituisce nel primato.

Siamo dunque nel campo del rapporto fra gli opposti. Gli opposti coincidono o si seguono incatenati? Se la antitesi abolisse la tesi essa sarebbe la antitesi di nulla e dunque non sarebbe una antitesi e cioè sarebbe nulla essa stessa.

Non abbiamo dovuto aspettate Hegel per muovere questa obbiezione a Fichte. Il punto era già al centro della sofisticatissima metafisica greca delle origini, era il punto di Parmenide e di Eraclito come lo era di Anassimandro. E era il punto della religione iranica e del Vedanta , in specie della scuola adwaita, la scuola della non-dualità.

Il problema dei due mondi in Empedocle, in altre parole, è una delle forme assunte dal problema del rapporto tra gli opposti. In ultima analisi, al fondo, è il problema del due.

Sfero e caos 

Un altro tema che esige un chiarimento preliminare è quello dello Sfero.

Nello Sfero le componenti sono eguali , esso è apoion , senza qualità (o le qualità sono le cose, i molti?). Del resto, come potrebbe Philia unire il simile al dissimile se questi si escludono ontologicamente? Vuole dire che i diversi sono comunque qualcosa di compatibile, infatti sono modi dell’essere, i quattro sono isà .

Lo Sfero «sta raccolto» estériktai , «beato nella quiete che lo avvolge», monoeides «uniforme», «da ogni parte eguale a se stesso» kykloterés , «e del tutto illimite» kai pampan apeiron .

Lo Sfero è l’Uno, esso è assenza di mondo o cosmo, dunque è acosmico, in quanto tale a rigore è caos. Ma gli intepreti identificano il caos, la akosmia, con lo Antisfero, cioè con quello stadio del divenire in cui si presentano i 4 elementi in masse separate.

Però non c’è cosmo né nello stadio dell’Uno né in quello dei 4. Tutto dipende da una erronea e riduttiva interpretazione modernizzante del caos, il caos non è solo il disordine, esso è anche la compresenza di tutti gli ordini senza nessun punto di riferimento privilegiato. In verità per il pensiero greco arcaico il caos è l’origine. Il caos è tutto e uno nel tempo stesso. Lo apeiron di Anassimandro, o di chi inventò per primo questo concetto, è l’indefinibile e l’inafferrabile in quanto è tutto. Non si riduce a un solo ordine e per questo può giustamente dirsi disordine, ma il disordine dell’immenso è la sede infinita di ogni ordine. Tant’è che ogni ordine che se ne stacchi e si renda visibile si consuma nella vicenda di un debito che va restituito o di una colpa da espiare finchè si torni a somma zero.

Il caos è lo zero indiano. Non il vuoto del nulla assoluto, ma il pieno assoluto. I sinologi ci spiegano che questo è altresì il Tao di Lao-tzu. Il Tao è cavità, abisso, come lo spalancamento del chaos greco, eppure esso è origine, in esso c’è tutto. Riusciamo noi a pensare il tutto come un abisso?

Nel caso di Empedocle siamo a una versione del massimo interesse, affine a quella pitagorica. L’Uno, lo Sfero, non è semplice, ma è densità dei 4, esso è la tetrade prima della esplosione. Il caos è nell’Uno, si potrebbe dire.

Naturalmente, se si fraintende il rapporto metafisico tra 1 e 4, se non si coglie che i 4 sono l’Uno, si finisce per spingere e irrigidire i 4 in uno «stadio» estremo e distinto di caos, dirimpetto all’Uno-Sfero che di rimbalzo sarebbe il non-caos ovvero l’ordine. A questo punto, la interpretazione di Empedocle si fa impossibile. Infatti, lo Sfero certamente non è ordine o cosmo.

Bisogna invece partire dalla idea giusta di caos. Se si procede così, il cosmo riacquista il suo valore di vicenda interna al caos. Vicenda che da esso parte e a esso ritorna.

Qui emerge la specifica tonalità storica dei greci: i greci non sono affascinati dal caos, non sono indiani. I greci sono attratti dalle cose, dal mondo e dai mondi che si aprono. Ogni mondo, un cosmo. Una forma. Ogni apertura, un dio, il dio, il dio della luce e della apertura, Apollo in primo luogo, l’iperboreo.

Si può essere incerti su quasi tutto quello che i frammenti ambigui di Empedocle ci consegnano, ma non si può non cogliere che c’è un tema assolutamente inequivoco: lo ego . Empedocle parla di sé. Il tema che lo affascina è se stesso.

*

Il processo va dai molti all’uno e dall’uno ai molti (4:1 e 1:4). Si tratta di un itinerario ritornante, con due processi che partono e terminano nel medesimo stato di quiete.

La vera divisione è quella dei 4, le cose del cosmo sono soltanto una sosta provvisoria, esse consistono nell’equilibrio transitorio di una aggregazione instabile.

Dicevamo che il doppio movimento dall’Uno ai molti, convergenza divergenza (“divergendo sempre converge”), si presenta come contrazione e diversione, contrazione rarefazione, sistole diastole, inspirazione espirazione. Coagula solve .

Questa dunque la vicenda del Grande Vivente che riprende la dottrina di Pitagora.

Una vicenda alchemica. Philia sta dentro, Contesa fuori, Philia rappresenta la forza centripeta yin, Contesa la forza centrifuga yang.

Il ciclo e i cicli 

La dottrina dei cicli tradizionale vede il ciclo comunque come uno sbilanciamento. Il principio non si rompe se non per uno sbilanciamento delle forze interne, finchè queste sono in equilibrio non succede niente. La origine è già un concetto drammatico. Il principio si rompe. Ma siccome la rottura non può essere stabile, cioè siccome il principio non può di per sé essere rottura, ecco che deve ricomporsi, e il principio si pone come rottura risanata.

Ma questa dottrina è la trascrizione su scala metafisica di una vicenda alchemica, etico-escatologica. La dottrina della ricomposizione o dell’eterno ritorno è la dottrina della liberazione dal tempo.

La dottrina dei cicli tradizionale è basata sulla decadenza . Il ciclo prende le mosse da una decadenza. La decadenza sta nella progressiva umanizzazione degli dei. Gli dei decadono e poi si ricomincia. Lotta tra dei di luce e razze degli elementi tellurici. Sfero, 4 elementi, uomini e animali … questo è il ciclo della discesa.

Uno-molti 

Empedocle si occupa del nesso uno-molti. A suo avviso, i molti, cioè il mondo, sono prodotti da un processo dialettico. Dall’uno molti e dai molti uno.

Da questa ottica, egli si riconnette palesemente a Eraclito. Tuttavia noi vediamo altresì che nell’affrontare questo tema egli tiene fermo il punto essenziale di Parmenide, la eternità e la immodificabilità dell’essere.

In prima istanza, Empedocle si presenta – e così è stato letto da eminenti interpreti – come uno che tende a risolvere due problemi posti rispettivamente da Parmenide e da Eraclito. Per il primo la immodificabilità dell’essere esclude il non essere, nascite e morti, e tutto il divenire; per il secondo il divenire è tanto reale da doversi ammettere la realtà del non essere.

Recenti acute interpretazioni di Parmenide e di Eraclito tendono, per così dire, a eraclitizzare il primo e a parmenidizzare il secondo. Il baricentro della lettura tradizionale di scuola è stato spostato e lo schema del filosofo dell’essere contro il filosofo del divenire ha perso prestigio.

Il poema di Parmenide, porrebbe sì in principio la perfetta e invalicabile unità dell’essere pieno sferico ma per affrontare proprio il problema della compatibilità con esso e in esso delle cose del mondo, lungi dal respingerle come mera nullità.

Dal canto suo, Eraclito non sarebbe il teorico del panta rei ma avrebbe visto nella molteplicità la espressione di una forza divina unica eterna né accrescibile né diminuibile.

Non è il caso di appesantire il filo del discorso riepilogando le tappe di questo sviluppo della storiografia filosofica: volendo tenersi all’essenziale, è sufficiente notare che tutto è partito da Nietzsche e dagli sconvolgimenti provocati dall’avere egli messo il dionisismo al centro del mistero della cultura greca.

Nietzsche ha aperto una prospettiva insospettata e feconda. Dalla sua intuizione, parte Heidegger e su Heidegger ci si misura, imprescindibile la sua meditazione sui pensatori greci iniziali, in particolare per la questione della sostanziale convergenza di Parmenide e Eraclito i tre saggi con cui si chiudono Saggi e Discorsi Vorträge und Aufsätze , 1943-1954).

Non essendo sicuri, come si diceva, che i due illustri antichi maestri rappresentassero posizioni antitetiche per eccellenza, di conseguenza siamo incerti se la filosofia di Empedocle rappresenti un tentativo di soluzione di quella ipotetica antitesi o se invece sia una fedele geniale ripetizione della sostanziale solidarietà dei due.

Si esamini il rapporto di Empedocle con i due pensatori cardine della prima filosofia greca. Egli dice due cose. Primo che l’essere non è uno ma quattro. Se fosse un uno compatto non si potrebbe articolare.

L’essere non può che avere le caratteristiche metafisiche indicate da Parmenide, in primo luogo deve escludere da sé il non essere. Ogni essere non può né nascere né morire, non può né venire dal non essere né andare nel non essere. Sicchè l’essere non diventa quattro, è quattro.

In altre parole, l’essere è uno, ma l’uno è quattro. Il principio, la base di tutto, è quattro. Il manifestato si manifesta secondo lo schema trascendentale del quattro. I quattro sono elementi materiali solo nel quadro aristotelico, in Empedocle sono prima di tutto dei, radici del mondo, viventi dal potere infinito, sempreviventi direbbe Eraclito.

Questo concetto, sia matematico, sia religioso, non è una invenzione stravagante, appartiene alla maggiori tradizioni sapienziali, ivi compresa quella dei pitagorici e orfici.

(Heidegger riprende il tema dei Quattro in In cammino verso il linguaggio Unterwegs zur Sprache , 1959), 1° saggio: Il linguaggio , (trad. Caracciolo, 1990): “… cielo e terra, i mortali e i divini. I quattro costituiscono, nel loro relazionarsi, un’unità originaria.”

Dottrina per iniziati 

Dobbiamo rivolgerci a Platone che si mostra più interessato al livello esoterico iniziatico della filosofia. Aristotele, che pur conosce quei livelli, afferra Empedocle in contesti diversi, sia metafisici sia fisici, ma in entrambi trascura gli aspetti intimi caratterizzanti il movente di Empedocle.

Platone associa Empedocle e Protagora a Eraclito: seguirebbero la stessa dottrina segreta, che tutto «si muove».

Il movimento è eterno.

Ora, questa è la dottrina del cosmo «grande vivente». Un altro mistero: chi sarà questo Grande Vivente? Un demone, un dio infinito, un infinito dio? Ogni sua pulsazione è un ente del mondo, ogni suo respiro siamo noi. Basta afferrare una sola piccola cosa e abbiamo afferrato tutto. «Tu sei questo, tat tvam asi ».

Qualunque cosa risponde e corrisponde all’intero complesso. Un unico logos unisce i molti, i molti non sono ciascuno un unico irrelato e a sé, preso ciascuno a sé non sarebbero «molti» ma tanti uno. Invece sono uno e molti, molti perché uno e uno perché molti.

Sibilla

Leggere Empedocle provoca sempre grande inquietudine. I versi di Empedocle hanno un potere stregante. Come le voci della Sibilla.

E in definitiva egli trasmette lo stesso messaggio, la stessa risposta della Sibilla di Petronio sospesa in una trasparenza oltremondana: voglio morire al più presto.

Nam Sibyllam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: Sibulla ti teleisrespondebat illa apothanein telo . (da Petronio, cf. epigrafe T. S. Eliot, The Waste Land ,1922).

Empedocle si spiega poco e male, non ha interesse a farsi capire con precisione, neanche quando a prima vista si addentra in un dominio che noi da aristotelici definiremmo scientifico, egli ha un altro movente rispetto a Aristotele, e se mai è più vicino a Eraclito. Una continuità che era stata capita e detta da Platone.

Empedocle vuole raggiungere altri effetti, non è come dovrebbe essere uno scienziato per i seguaci della logica definitoria. Empedocle trascina in un viaggio, descrive un viaggio, alla fin fine è un viaggio. Non serve discutere sulla mappa, se non sappiamo a cosa serve, la mappa del suo mondo per i criteri con cui è tracciata serve benissimo a non fargli perdere la strada che cerca.

Empedocle può essere considerato un pitagorico sulla base del Timeo e del Fedro di Platone. Il suo nesso con i pitagorici è fortissimo. Così, gli interpreti che vogliono vedere in Empedocle un empirista devono togliere di mezzo questa imbarazzante realtà. La loro tesi è che Empedocle si sia misurato con la dottrina pitagorica, esponendone i capisaldi, per «razionalizzarla».

Tuttavia non si vede bene tutta questa razionalizzazione, il linguaggio di Empedocle si presta a grandi confusioni logiche e razionali, le ricorrenti citazioni di Aristotele battono esattamente su questa incertezza.

Al contrario, Empedocle ha accentuato gli elementi ermetici della sapienza tradizionale. L’ermetismo dell’agrigentino deve essere preso sul serio, anche nel senso preliminare e ristretto di discorso chiuso e ambiguo. La trappola del discorso fa parte del processo iniziatico. Empedocle è stato maestro di logica e di discorsi, Gorgia non è un allievo comune e non è senza senso che lo sia stato proprio lui.

In Empedocle c’è ben visibile la dimensione iniziatica del ragionamento. Del logos, si direbbe. Ma di un logos cantato, poetico, sciamanico, e non inquadrabile in quello posteriore di Aristotele. Aristotele, per limitarne la portata filosofica, dice che il discorso di Empedocle è quello di un poeta.

Il poeta era ormai un nome che non indicava più il sapiente. Nella Sicilia del V secolo, ancora per un attimo, fu ancora così, invece, con l’ultimo iatros, Empedocle, il sapiente, il purificatore, il medico, il capo.

Giuseppe Lampis


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