Indagine semantica sull’oro

Alessandro Cilona

 

Famigerata è l’importanza che l’uomo attribuisce all’oro, ma nonostante il suo largo utilizzo e la sua principale fonte di stabilità per il commercio mondiale odierno, il motivo di questo valore e della sua selezione unanime rimane perlopiù sconosciuta e inspiegabile, a meno che non si voglia addurre il significato utilitaristico di incorruttibilità fisica, negato solo dai progressi della scienza moderna. Volendo abbandonare ogni semplicismo, in questo breve spazio proveremo a fare uso di una speculazione ragionata, fatta di assonanze e ricorrenze, per dare maggiore senso e profondità ad un elemento che da sempre ha suscitato avarizia, guerre, dissapori e soddisfazioni nella storia dell’umanità.

Horus
Titolatura reale dell’Horus d’oro

Il dizionario etimologico italiano di Ottorino Pianigiani propone due derivazioni per la parola “oro”, la prima è il latino “aurus”, che potrebbe provenire dal sabino “ausum” (splendere, ardere) o dal greco arcaico “ayròs”, la seconda – meno accreditata – è il sanscrito “hari” (raggio di luce, giallo, sole, oppure altro nome del dio Vishnu) da cui “hirana” (oro), che trova una vicinanza sia con il succitato greco “ayròs”, sia con quello classico in “chrusòs”.

Tuttavia, essendo il sanscrito una lingua affermatasi nella sua forma scritta solo nel II millennio a. C., potrebbe essere plausibile che questo termine abbia avuto origine in una cultura più antica o che la parola greca “ayròs” abbia anche una seconda derivazione. L’antico egiziano, attestato dal III millennio a. C., indicava con le consonanti “Hr”o “Hrw” il nome del dio dalla testa di falco che i latini chiamavano Horus, conosciuto anche come Horo, e usavano il fonema “R” per indicare il dio Sole Ra. In breve tempo le due divinità furono assimilate nella medesima persona, e Ra iniziò ad essere rappresentato, circondato da un cobra protettore (detto ureo), sopra la testa di Horus.

La cultura egiziana fu la prima a praticare un’estrazione e un uso massivo dell’oro soprattutto al fine di adornare gli ambienti e gli oggetti del faraone, il quale si faceva nominare “figlio di Ra” o “Horus vivente”. Si potrebbe quindi ipotizzare che la qualità di questo metallo fosse di risplendere della stessa luce gialla emanata dai raggi del Sole, della stessa sostanza di Horus, e si potrebbe immaginare così un nesso tra il sanscrito “hari” e il suo significato “raggio di luce”.

A rinforzare questa connessione etimologica è anche la simbologia legata al geroglifico di Ra (Tabella 1 – a), usato nell’astrologia e scelto dagli alchimisti come glifo dell’oro, che possiede anche una seconda lettura “Hrw” (il giorno), molto simile alla pronuncia di “Horus”.[1] L’importanza del dio solare, inoltre, potrebbe essersi fatta sentire anche nella cultura greca prima ancora del sincretismo religioso che ha portato l’assimilazione di Ra con il dio Ammone e con Zeus, infatti la somiglianza della lettera greca “theta”, θ, la stessa con cui ha inizio la parola “theós” (dio), farebbe da testimone a questa possibile contaminazione, che si ritrova molto simile nel luvio geroglifico (II millennio a.C.) sempre ad indicare la divinità (Tabella 1 – b ).

Ma forse la connessione simbolica adoperata dagli alchimisti tra oro e Ra/ Horus non è stata casuale. Infatti già a partire dalla quarta dinastia dei faraoni venne aggiunto nella titolatura reale il geroglifico di un falco posto sopra il glifo dell’oro “nwb”, da leggersi “Horus d’oro”. L’immagine che rappresenta “nwb” è una collana con dei pendenti, gioiello usualmente in oro, di grande diffusione e importanza presso la nobiltà egizia, che talvolta richiama nella sua lavorazione e nella sua forma il dispiegamento alare del falco Horus. Inoltre il geroglifico “nwb” appare molto somigliante alle rappresentazioni del sole raggiante, sorto dalla dea Nut, e alle tarde immagini del dio Athon-Ra. Quindi, procedendo per parallelismi, si potrebbe intendere che il geroglifico “nwb” racchiuda una metafora celeste per la dimensione di vita umana, dove Ra (la testa), illumina (collana), il mondo vivente, ovvero l’azione del corpo intero circoscritta dalle spalle (Nut).

Tabella 1 - Lista dei geroglifici citati nel testo
Tabella 1 – Lista dei geroglifici citati nel testo

L’oro perciò era stato collegato esplicitamente dagli egizi con la divinità splendente, era definito infatti “la carne degli dei”, forse proprio in virtù della sua incorruttibilità fisica, ed era inoltre connesso con la figura del faraone e, di conseguenza, con la vita dopo la morte, riservata in un primo tempo al solo re, il quale avrebbe dovuto ricongiungersi al termine dell’esistenza – in quanto “Horus vivente” – con il “defunto” padre Osiride attraverso la piramide in cui era collocato.

La religione egizia infatti immaginava che avvenisse nel sepolcro il transito dell’anima del faraone verso Ra, e la prima piramide, realizzata per Djoser, mostra una forma a gradoni che sottolinea architettonicamente il processo di ascensione, evidenziato anche dal geroglifico della “doppia scala” (Tabella 1 – c). Le successive piramidi, invece, hanno la conclamata forma classica che si ritrova accennata nel geroglifico del “raggio di luce” (Tabella 1 – d), non a caso originariamente erano ricoperte di calcare bianco che rifletteva i raggi solari, mentre sulla cuspide risiedeva il “pyramidion”, ovvero una piccola piramide in basalto nero o granito con dei geroglifici incisi che serviva a terminarne la punta e a darne efficacia come “macchina per la resurrezione”. Il “pyramidion” posto in cima agli obelischi era invece senza incisioni e ricoperto di lamine d’oro o di metalli affini per indicare il dio Ra; in entrambi i casi era ritenuto un simbolo di vita, in quanto riproduceva la prima montagna della cosmogonia egizia, il “benben”, che emerse dalla terra a generare il primo dio, Atum.

Si potrebbe ipotizzare che se Osiride fosse venerato come dio portatore di civiltà e dell’agricoltura, a ragione il figlio Horus avrebbe potuto rappresentare lo scambio dei beni e del raccolto, anche sotto forma di moneta, che nell’Antico Egitto si manifestò per un buon periodo di tempo come sistema di scambio basato sul peso dell’oro.

Tralasciando questa fantasiosa supposizione che non trova riscontro nella religione attualmente conosciuta, la mummificazione e la deposizione dei nobili nella camera d’oro delle piramidi, che come un fascio di luce edificato puntano la direzione in cui ha avuto origine ed è stata destinata la vita di questa classe dirigente, rimangono un segno tangibile della credenza di un’appartenenza solare dei faraoni, della loro consapevolezza di essere figli del Sole e non della Terra, e quindi letteralmente non “humani” perché preparati per la risurrezione. Dunque, per un processo quasi inconscio, l’atto ancestrale e istintivo di accumulare oro doveva essere mosso dal desiderio di circondarsi di divino e avvicinarsi quanto più all’eternità e alla pienezza dell’esistenza.

Lo dimostrerebbe anche il sanscrito, nel momento in cui utilizza la stessa radice per indicare l’oro, il Sole, il dio supremo Vishnu e, non ultimo, l’emozione della contentezza attraverso il verbo “hary” (gioire, essere gratificato); rimasto nell’indoeuropeo “har” e trasferitosi nel greco antico in diversi vocaboli tra cui “khaíro” (gioire), “kharisteion” (offerta di ringraziamento) e “khárisma” (grazia divina), che nella lingua italiana si sono sviluppati nei termini “grazia”, “gratuito”, “eucaristia” e “carisma”.[2]

Alessandro Cilona

_____________________________________________

[1] Tutti i geroglifici egizi presenti in questo articolo sono stati visionati nell’aspetto, nel significato e nella pronuncia in Alan Gardiner, List of Hierogliphic Signs.

[2] Cfr. Franco Rendich, Dizionario etimologico comparato delle lingue classiche indoeuropee, 2° ed., Palombi, Roma 2010, pp. 74-75.


Articoli correlati