Mitoanalisi della postmodernità

Gilbert Durand
La sortie du XX° siècle, pref. M. Maffesoli
CNRS éditions, Paris 2010, pp.770

Id., L’immaginazione simbolica, tr. it. di A. C. Peduzzi, pref. di P. Mottana
IPOC,
Milano 2012, pp.116

Maria Pia Rosati

L’inizio del terzo millennio ha reso quasi ossessivo l’interrogarsi sulla crisi del mondo contemporaneo, sul vuoto, o meglio sul baratro che si spalanca dopo i terremoti che sembrano colpire contemporaneamente la terra, spazio fisico abitativo dell’uomo, ma anche metaforica sede di ogni certezza vitale, sia tutte le istituzioni, fedi, ideologie nelle quali si è creduto e per le quali si è lottato tra lacrime e sangue: democrazia, libertà, politica, cultura, religione ecc. Ci troviamo di fronte a nuovi fenomeni che ci paiono stravolgere a temibile velocità il mondo che abbiamo conosciuto. Assistiamo alla frammentazione del campo sociale, alla dislocazione di popoli, gruppi etnici, al sorgere di nuovi gruppi sociali, al fatto che i legami economici, culturali e professionali non funzionano più come fattori di unità durevole. Le tradizionali griglie di comprensione antropologica, sociologica, psicologica, ampiamente insufficienti, descrivono un mondo in via di sparizione e dunque non sono in grado di illuminarci sulla lettura di quei fenomeni che si stanno spiegando sotto i nostri occhi. È urgente dunque innanzitutto assumere nuovi modelli teorici, strumenti concettuali rinnovati capaci di leggere le realtà di oggi in rapida e talvolta sconvolgente trasformazione.

Menade con tirso
Menade con tirso

La sortie du XX° siècle di Gilbert Durand, il grande sociologo e antropologo dell’immaginario, ci offre una importante chiave interpretativa dei possibili sviluppi del terzo millennio, alla luce della comprensione del tormentato XX° sec.
Gilbert Durand si sofferma su quella corrente di pensiero, o forse meglio stile di vita, determinato in primis dallo sviluppo delle tecniche dell’immagine, del quale egli è stato studioso e interprete acuto e evidenzia la profonda rivoluzione culturale provocata in occidente, dopo secoli di iconoclastia e di predominio del logos sull’immaginale, dalla diffusione indiscriminata e incontrollabile di immagini che invadono la vita dell’uomo dalla nascita alla tomba. Le innovazione tecniche, salutate, oseremmo dire, come nuove possibilità ludiche di cui tutti avrebbero potuto godere, sono presto sfociate in una moltiplicazione esponenziale di immagini e video provocando una rivoluzione epistemologica ed assiologica pari per importanza al fenomeno del Rinascimento nei sec. XIII e XIV o all’istituzione scolastica del XII e XIII secolo. Contemporaneamente a questa rivoluzione ‘ludica’, crollavano antiche certezze e consolidati costumi, mentre si venivano evidenziando nuove frontiere della fisica (teoria della relatività, meccanica ondulatoria, nascita della fisica quantistica ecc.), nuove discipline come l’etnologia, la psicoanalisi, nuove modalità di critica letteraria e artistica, nuove metodologie di studio come il comparativismo che a loro volta aprivano il campo a nuove antropologie a nuove epistemologie, rese possibili anche dalla inaudita facilità ad avere a disposizione di tutti, in ‘tempi reali’, un numero impensato di immagini e documenti, provenienti da ogni parte del mondo. E come Giano bifronte il ludus ha mostrato ben presto anche la sua altra faccia, quella di polemos.

Le esigenze storico-sociali e psicologiche che hanno portato alla nascita della fotografia sono chiaramente focalizzate da Lorenzo Scaramella (cf. L. Scaramella, La fotografia il tempo, l’anima in átopon, 2010/vol VII) e fatte risalire al 1789, l’anno della rivoluzione francese, che aveva rappresentato, in maniera decisiva e violenta, il passaggio del potere economico e culturale dall’aristocrazia alle classi della borghesia e del popolo. La nuova cultura borghese pose quindi con prepotenza il problema del “numero”, della quantità : tutti esigevano avere ciò che un tempo era esclusivamente riservato a pochi nobili.

Nel 1839, a pochi metri di distanza dal luogo dove cinquanta anni prima era divampata la ‘rivoluzione delle rivoluzioni’ con l’assalto alla Bastiglia, il mondo dell’immagine e dell’immaginario viene rivoluzionato dall’annuncio ufficiale della nascita della fotografia e con essa si ribadisce la fine, già proclamata con la rivoluzione del 1789, di una concezione del mondo teocentrica e piramidale. Da quel giorno e sempre più rapidamente un nuovo linguaggio, con una nuova sintassi è entrato nella nostra cultura, introducendo inaudite possibilità ma anche dubbi e problemi. Senza che ci fosse neppure il tempo di rendersene conto, la potenza evocativa e sconvolgente dell’immagine irruppe nella nostra cultura, modificandola profondamente. Opporsi era opporsi all’etica stessa, ad essa sottesa; era come opporsi alla verità, perchè quella riprodotta dall’obiettivo era ritenuta tale.

Labirinto di Cnosso
Labirinto di Cnosso

Oggi, al tempo della comunicazione mediatica di massa, ci ritroviamo ancora una volta di fronte al problema del numero, sebbene di opposta valenza: quello di un “eccesso di quantità ’ di immagini, che però non sono più concepite nella mente (l’immaginario) e prodotte dalle mani dell’uomo, ma da strumenti ottici sempre più tecnicamente perfetti e ‘automatici’.

Per cogliere la logica intima degli avvenimenti, siano essi politici, economici o sociali, è necessario dunque coglierne la carica immaginaria, che Durand chiama il ‘lusso notturno della fantasia’. A sostegno delle teorie di Durand, Michel Maffesoli cita, nella prefazione al testo, autori quali Èmile Durkheim che sosteneva che ‘la società non è niente altro che l’idea che essa si fa di se stessa’ e Max Weber che asseriva che ‘l’irreale è ciò che fonda il reale’.

Infatti proprio gli studi sull’immaginario, iniziati da Durand nei lontani anni ’60 del secolo passato, e che hanno portato all’opera magistrale Le strutture antropologiche dell’immaginario, hanno rivelato come l’immaginario sia una potente leva metodologica e come solo da questo angolo visuale possano essere comprese non solo le opere dell’arte e della cultura, ma le istituzioni, i mutamenti sociali e di costume, le rivoluzioni materiali e spirituali, le stesse scoperte scientifiche, sempre dovute ad un nuovo modo di guardare il mondo, e anche tante tragedie dell’umanità, anche recenti, il cui ricordo ancora ci sconvolge. Infatti i miti respinti da cieche convinzioni assolutiste che tutto vorrebbero controllare, come pure dall’ascetico razionalismo, possono risorgere in maniera subdola e prepotente mostrando un volto terribile e indomito. Troppo facilmente, per citarare solo un macroscopico esempio, uno dei popoli più civilizzati d’Europa, culla di una parte immensa della cultura europea, patria di geni in ogni campo delle scienze dell’uomo, Goethe, Schiller, Bach, Beethoven, Hölderlin e Einstein, e che sembrava potesse essere baluardo alla follia napoleonica, “è precipitato nelle braccia di un mitologizzatore da operetta, o piuttosto di tragi-commedia, e ha aderito fino al crimine al sistema così semplicistico del mito del XX secolo di Alfred Rosenberg”. In realtà il nazismo, come la Rivoluzione francese, avevano fornito con ingenuità e brutalità surrogati di riti e di miti, improbabili protesi del religioso, a popoli bruscamente privati della ricchezza archetipale della tradizione. E, come aveva dolorosamente intuito già nel ’36 C. G. Jung, Wotan, respinto dalle Chiese riformate e dallo Stato prussiano, sconvolse nel profondo le coscienze germaniche, proprio come Dioniso, nel mito rappresentato nella Baccanti di Euripide, offeso per non essere riconosciuto nella sua divinità, aveva trasformato le morigerate donne di Tebe in allucinate menadi simili a terribili fiere che vagavano nei boschi cibandosi di carne cruda.

Artemide con swastika. Grecia, circa 700 a.C
Artemide con swastika. Grecia, circa 700 a.C

Lo studio degli archetipi, e cioè di ciò che rimane vivo sub specie aeternitatis, ha il merito, come scrive nella prefazione Maffesoli, di fornirci una modalità importante di comprendere e dunque affrontare la crisi del nostro periodo, quella che viene chiamata oggi postmodernità. Così, egli coraggiosamente afferma, possiamo anche guardare alla pretesa crisi economica che colpisce la nostra società come a uno slittamento da un immaginario ad un altro, dal moderno al postmoderno. In ogni tempo le rivoluzioni materiali si accompagnano o per meglio dire hanno origine da quelle spirituali.

Ai nostri giorni lo sviluppo tecnologico sta paradossalmente fornendo un nuovo bacino di incubazione per la nascita di nuove mitologie, di una nuova fantasia ‘postmoderna’. L’immaginario, relegato ad aspetto ludico o addirittura bandito nei secoli impregnati dalla logica aristotelica-tomistica, dagli illuminismi della ragione e infine dal positivismo e dalle metodologie tecnico-scientifiche, sembra rinascere, ma non quale altissima espressione della creatività umana, bensì pericoloso strumento al servizio del potere mediatico della pubblicità, novella Circe incantatrice, che nessun eroe della tempra di Ulisse sembra saper contrastare.
Si è parlato di ‘realismo magico’ che impregna ogni cosa del quotidiano rivestendola di un’aura immateriale, di una parvenza spirituale, parvenza appunto, che crea solo nuovi totem pronti ad essere consumati non in un pasto sacrificale, ma in patologici accessi bulimici.

Eppure, proprio dalla constatazione del troppo rapido tramonto della belle époque e dal disorientamento provocato dall’angoscioso periodo che è seguito, e da cui non siamo ancora usciti, nasce la voglia di riaffermare con Durand ciò che da sempre è valido e fa sì che possiamo continuare a credere nella bellezza del mondo e ad avere la forza di impegnarci a svolgere il nostro compito di uomini liberi.

È questa la lezione che ci viene non solo dall’opera di studioso di Durand ma dalla sua stessa vita, a cominciare dalla sua eroica azione di resistente all’età di diciannove anni per cui è stato insignito delle più alte onorificenze internazionali tra cui quella di ‘Giusto tra le nazioni’. Proprio in quella occasione, a Chambèry nel maggio 2001, abbiamo ascoltato Gilbert Durand, non domato né dagli anni né dalle conseguenze della deportazione e delle torture, pronunciare alla presenza di tanti ebrei che aveva aiutato a sfuggire alle deportazioni la sua ferma professione di impegno al Dovere di Giustizia che comporta vigilanza e un no deciso contro coloro che, grazie alle nuove tecnologie, hanno soltanto centuplicato le modalità di nuocere (cfr. Gilbert Durand Saper dire no www.atopon.it).

Punizione di Prometeo e di suo fratello Sisifo, kylix a figure nere,  ca. 550 a. C.
Punizione di Prometeo e di suo fratello Sisifo, kylix a figure nere,
ca. 550 a. C.

Durand ci distoglie dall’illusione che possano crearsi miti nuovi, perché nonostante lo strepitoso sviluppo delle tecnologie, il potenziale genetico dell’uomo, sul piano anatomo-fisiologico, come sul piano psichico, è rimasto invariato da quando gli uomini hanno cominciato a ‘pensare’, cioè dalla comparsa dell’homo sapiens sapiens, circa 15 o 20 mila anni fa. “Il gioco mitologico, dal numero di carte limitato, viene instancabilmente redistribuito e per lo meno da millenni la specie homo sapiens ha potuto sperare e sopravvivere a causa di questo ‘sogno continuo’ nel quale, per saturazione intrinseca o per avvenimenti estrinseci, si trasmette l’eredità mitica.(…) Non soltanto miti eclissati ricoprono i miti di ieri e fondano l’episteme di oggi, ma ancora i saggi ai vertici della saggezza della natura o dell’uomo prendono coscienza della relatività costitutiva delle verità scientifiche, e della realità perenne del mito. Il mito non è più un fantasma gratuito subordinato alla percezione o alla ragione. È res reale che può essere manipolata per il meglio o per il peggio” p. 41. (Traduzione dell’autore).

Ma Durand ci dice anche la sua fede, anzi la sua certezza, che ci sono uomini saggi che pur nell’isolamento, lavorano in solitudine alla riscoperta degli antichi miti al fine che proprio da queste antiche mitologie trascurate o dimenticate si possa costruire la Gnosi della nostra modernità.

A Durand va infatti riconosciuto il merito di essersi confrontato con tutti i domini del sapere e gli studiosi più profondi, come G. Bachelard, M. Eliade, H. Corbin, J. Servier, G. Dumézil, R. Thom, S. Lupesco, in incontri autentici e dialettici, veri momenti di scambio, quali furono i famosi incontri di Eranos (è lì che nel 1978 abbiamo abbiamo avuto la fortuna di incontrare per la prima volta Gilbert Durand!) al fine di dar vita ad un nuovo spirito antropologico, in cui potessero incontrarsi senza confondersi nuove scienze come l’etologia, la simbologia, la mitologia la psicologia del profondo per creare una nuova epistemologia. Una Hermetica ratio, dunque, che superasse la radicale distinzione tra soggetto e oggetto, materia e spirito, sapere razionale e sapere immaginale e gettasse le fondamenta per costruire un’unica Scienza dell’Uomo erede del sapere tradizionale che sa come l’uomo, al di là di ogni localizzazione spazio-temporale, è sempre ‘lo stesso’, proprio come gli dei e i miti sono sempre gli stessi (cf. G. Durand, Science de l’homme et tradition, le nouvel ésprit anthropologique 1975, ed.3, Albin Michel, 1996). Ma Durand non si limita a parlare di analisi dei miti, di ‘mitoanalisi’, crea una ‘mitodologia’ con una provocazione che vuol essere fondante di una nuova epistemologia del senso (cf. A. Iacuele e M. P. Rosati, Gilbert Durand e la ‘Mitodologia’, «átopon» quad. 1/2006). Ribadisce infatti che c’è un ordine metodologico, logico, epistemologico nell’Immaginario come nella Scienza. La sapienza greca, alle sue origini si mostra come divina mania, parla attraverso linguaggio simbolico dei miti e dei riti misterici, e i primi filosofi ad un tempo vati, poeti, scienziati nelle loro straordinarie intuizioni, espresse talvolta in maniera oscura, hanno anticipato le scoperte più avanzate dei nostri scienziati contemporanei.

La mitodologia, il farsi interpreti di miti, vissuti consciamente o inconsciamente, non può che essere transdisciplinare, deve compiere un ampio comparativismo che richiede maturità di conoscenza, esperienza nata dal confronto di differenti lingue, costumi, religioni, deve percorrere il tragitto antropologico tra due poli in tensione che costituiscono il tessuto della vita: l’archetipico (l’ordito, profondo e verticale) e il socio-storico (la trama che si intreccia orizzontalmente). Scienza sempre aperta e plurivoca fondata sui grandi miti archetipici che da sempre hanno presieduto alla costruzione di ogni sapere, di ogni cultura e della stessa vita sociale. Solo la conoscenza di una pluralità di miti, cioè di visioni del mondo, di cui la mitodologia studia analogie e complementarietà, può evitare pericolosi totalitarismi che nascono dall’esclusività e dall’oppressione dovuti al dominio di una sola logica. Se si respinge brutalmente ogni mitologizzazione antagonista, c’è crisi e dissidenza violenta. A tale momento si dice che gli dei hanno sete e si vendicano scatenando oscuramente, nelle tenebre dell’inconscio la tempesta degli dei avversi.

Vogliamo infine rallegrarci per la recente pubblicazione del testo di Durand l’Imagination symbolique del 1964 nuovamente tradotto in Italiano da A. C. Peduzzi e che Paolo Mottana nella prefazione saluta con entusiasmo in quanto mette a disposizione degli studiosi italiani “un archivio immenso e in continua evoluzione quello dell’immaginazione simbolica, dal valore inestimabile, ma soprattutto (…) dalla valenza terapeutica fondamentale.” Perché l’immaginazione simbolica è la regina delle facoltà più propriamente umane e le immagini archetipali, come possono far ammalare egualmente possono guarire, a condizione che si entri nella logica del mondo immaginale. Occorre cioè rovesciare il processo, per così dire, compiuto dal mondo moderno, abbandonare i binari della ragione ragionante, del pensiero calcolante, per entrare nella corrente delle immagini, che è il gioco stesso della vita. Grande possibilità, che tuttavia spaventa e respinge gli uomini che credono di essere sicuri solo se, ben radicati sulla terraferma, si affidano alle possibilità offerte dalle loro conquiste tecnologiche. Ma il sapere derivato dalla techne, con cui Prometeo credeva di sollevare gli uomini dal dolore, in realtà può tramutarsi in una prigionia ancora più dura. Lo stesso Prometeo, l’uomo-Titano, incatenato alla roccia, è costretto a comprendere come la vera salvezza può venire non dal sapere tecnologico, ma dal radicarsi nel senso del Tutto che ci fa accettare la potenza invincibile della necessità, la legge secondo cui tutto accade. Questa conoscenza, questa episteme può dar senso anche al dolore inscrivendolo nel senso del tutto e liberarci dalla tentazione del dolore disperato che getta nella follia. Meditando sul senso delle cose, a partire da quelle che ci sono accanto, che riguardano ciascuno di noi nella sua individualità nel qui ed ora, ma che sono forme di ciò che è ovunque e in ogni tempo, possiamo riuscire a non cadere nella morsa della pianificazione e del calcolo, dell’organizzazione e dell’automazione e a vivere pienamente il gioco destinale della vita.

Maria Pia Rosati


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