Domus de g’ànas da: ‘ Sa bia de sa palla'. La Via Lattea in Sardegna Roma, Mythos 2003, pp 87-96

Indichiamo alcuni tra i più rilevanti temi della spiritualità
della Sardegna antica trattati dal saggio
di Giuseppe Lampis, ‘ Sa bia de sa palla’. La Via Lattea in Sardegna, Roma, Mythos 2003

Giuseppe Lampis

In qualche antica casa campidanese di contadini si può ancora vedere appoggiato in un angolo, oramai abbandonato, uno di quei strumenti che furono essenziali all’alba della civiltà agricola. Chi non lo conosce lo può scambiare per uno strano vaso o per la vera di un pozzo in disarmo, invece è la vasca di una macina, su lakku ‘e sa moba ; guardando meglio in giro, forse si può scoprire in un altro angolo la ruota della macina, moba mola .

domusSono gli elementi costitutivi dell’arcaico mulino di casa. Bisogna immaginarlo in una casa autosufficiente il più possibile sul piano tecnico, almeno per la soddisfazione delle funzioni primarie del mangiare, del bere, del vestirsi.

In casa c’era sa dommu ‘e sa moba , la casa della macina, con questa che ne occupava il centro perché su mobenti , l’asino che la doveva mettere in azione, avesse lo spazio sufficiente a girare in tondo attaccato al rudimentale meccanismo.

Quando i tempi mutarono, e siamo nell’epoca della luce elettrica, la macina venne accantonata, per fare spazio a altre cose la cui utilità si era fatta prevalente, fu tolta dalla sua rimessa e sistemata in sa práttsa , vicino al forno, rovesciata in modo che il suo fondo pieno servisse da piano di appoggio.

La macina è scolpita nella viva pietra del basalto grigio scuro. Già questo fatto documenta la data remotissima della sua invenzione.

Le spighe del grano maturo vengono mietute a giugno, i covoni sparsi nell’aia vengono trebbiati, trebaus , calpestati, da cinque cavalle non dome legate strette a fianco a fianco le quali si fanno girare come un raggio tumultuoso attorno a un palo per tutto il giorno. Le cantilene dei cavalieri trebbiatori scesi dal nord che le guidano con lunghe briglie da terra sono più belle e inquiete di quelle dedicate alle donne.

In loro assenza si procede con più coppie di buoi, come ci mostrano le tazze d’oro di Vafiò di Creta con i tori in mezzo al grano figurati a sbalzo.

Dalle spighe così pestate e ripestate fuoriescono i chicchi dorati avvolti nel loro germe; completata la trebbiatura, si passa a bentuai , a ventilare il miscuglio che si è formato sull’aia; sfruttando la differenza di peso dei componenti che sono stati separati, gli uomini che maneggiano il ventilabro ne lanciano in aria gonfie palate, i chicchi più gravi ridiscendono vicino mentre il vento (si aspetta che esca una giornata di vento, e in Sardegna non si aspetta a lungo) fa cadere lontano la pula più leggera.

Il principio della macina è assai semplice. I chicchi raccolti e ricoverati nel granaio vanno schiacciati per ricavarne la farina. Successivamente si passa attraverso vari setacci dal tessuto più o meno fitto, di peli di cavallo anticamente e poi di fili di seta; certe fasi sono inframezzate dallo scuotimento del già setacciato dentro cesti particolarmente larghi dalla bassissima sponda ( pobina c’ibíru ); così si ottiene la separazione delle parti più grosse da quelle più fini; via via la crusca, póddi , dal fiore, s’ètti , e da questo la semola, símbula 

*

La macina, mola moba , è una massiccia ruota di pietra che si dispone coricata in orizzontale, un grosso coperchio. Nella parte inferiore è piatta. Nella parte superiore si solleva al centro in un collo cilindrico vuoto attraverso il quale mediante un imbuto di fieno si carica il grano da macinare. Sul bordo, alle opposte estremità di un diametro, sporgono due orecchie forate che fanno da anelli per innestarvi la stanga del motore del mulino. Nel nostro caso fa da motore l’asino, per antonomasia il molente, molenti , a cui si bendano gli occhi affinché vada dritto per la sua strada senza accorgersi che si volge ripetitivamente su se stesso.

Sa moba trascinata dalla forza dell’instancabile asino gira su un piatto di pietra e schiaccia il grano che ha ricevuto riducendolo in farina. Periodicamente di anno in anno uno scalpellino, pikkadòri , viene chiamato a ribattere con la martelletta la base della macina che deve rimanere rugosa e costellata di piccole asperità sporgenti più di una grattuggia per mantenere intatta la sua capacità di sfrangere il cereale che incontra e preme sul piatto.

Questo rudimentale e efficiente ingranaggio, una evoluzione sostitutiva del mortaio, in sostanza sfrutta il semplice primordiale effetto di due pietre pestate o strofinate l’una contro l’altra. La macina con il piatto poggiano su una vasca a tronco di cono appena svasato, anch’essa scolpita nella pietra. Le due pietre non sono di solito le stesse, quella della macina deve avere una certa morbidezza. Nella casa dei miei avi la vasca era in pietra di Santu Nicoba (San Nicolò Gerrei, il capoluogo dell’altopiano a oriente della pianura), un assai remoto immemorabile lavoro in materia marrone e non grigia, trachite e non basalto.

Sa moba sembra un elmo arcaico, ricorda da lontano quello del Guerriero di Capestrano, o quelli di alcuni bronzetti nuragici, salvo l’aggiunta dei due anelli drizzatti sul bordo. Visto di profilo, un sombrero a larghissima tesa sollevata in due riccioli ai bordi e con una bassa torre cilindrica al posto della cupola.

Per chi conosce l’uso dello strumento e i nomi delle sue parti, la macina ha un «collo» e due «orecchie».

La vasca sottostante, abbiamo detto, è un tronco di cono rovesciato con la base appena più stretta del piano superiore, un enorme tozzo secchio. Alla base è pieno e sopra è aperto, con un piccolo parapetto circolare per alloggiarvi la macina e il suo piatto.

Questa vasca si chiama lakku de sa mola lakku ‘e sa moba ; in casa ci devono stare anche altre vasche, quella per abbeverare le bestie – dalle dimensioni di un sarcofago – affiancata al pozzo, lakku ‘e is bois , e quella per le galline piccola come un tegame, lakku ‘e is puddas .

Ora, su lakku ‘e sa mola ha sul davanti una apertura rettangolare, che durante la macinazione resta chiusa da una porticina piatta di legno che si fa scorrere dall’alto a saracinesca in una apposita scanalatura. Quando su lakku è pieno del macinato le donne con una paletta di legno la svuotano facendo scendere la farina in una krobi , un cesto largo, accostata alla soglia.

Il piano della porta della vasca della macina non segue la curvatura del fianco, esso resta rigorosamente dritto e tangente alla curvatura, tanto che sembra sporgere leggermente in avanti. La sua cornice è scolpita con cura, si nota un’architrave, ispessita e quasi sporgente per contenere il taglio della tavola di chiusura che vi scorre dentro.

Un’architrave, una soglia, gli stipiti. Quella del maestro di San Nicola era decorata da infiorescenze scolpite. In breve è la porta di una casa, di una antica capanna, di una domu. Quando ci siamo accorti di questo, la macina sovrapposta ci appare come un tetto circolare di frasche.

Infine appare come il busto di quella testa stilizzata che la macina sovrastante rappresenta. Un altro esempio della propensione degli scultori sardi neolitici a proporre betili aniconici al massimo con le mammelle e dei tagli simbolici.

Guardando ancora con più attenzione si vede un’altra cosa, che di certo è la più significativa. La porticina de su lakku della macina è simile alla imboccatura di una domu de g’ána, della grotticella funeraria della prima civiltà neolitica sarda. Stessa forma, stessa composizione delle parti.

 *

Le civiltà agricole contengono nel loro fondo originale la credenza in una similitudine tra la vicenda della vita e la vicenda del frumento.

In Africa la evidenza di questa filosofia è immediatamente affidata alle porte scolpite dei granai Dogon. Esse contengono una mappa del paesaggio esemplare dell’anima umana, un breviario, una bibbia, ricordano le sculture delle cattedrali romaniche, sono nate dallo stesso impulso.

Il granaio e il mondo dogon sono esattamente la medesima cosa. I fabbri celesti, gli antenati mitici, quando portarono giù in terra tutto il sistema utile agli uomini usarono un granaio a forma di cesto circolare. Tale primordiale cilindro raccoglie in sé un simbolismo complesso e molteplice, da cui emerge la figura del busto dell’artefice e insieme del corpo della donna.

Di altri popoli a noi più vicini, dei villanoviani italici prelatini, conosciamo le urne funerarie a forma di capanna con tanto di coperchio per tetto.

Ma il rapporto tra macina e tomba concerne una curvatura dottrinale e religiosa specifica dei Protosardi; la affinità con la visione degli Africani oggi risospinti nella regione subsahariana occidentale non deve impedire di cogliere peraltro una differenza di tonalità che si fa sostanza: l’accento sardo cade sulla identità di macina e tomba e non su quella di granaio e donna.

Entrambe di pietra, entrambe grotta, entrambe casa nella grotta. Se qui c’è un busto, un torso con una pancia sotto quella testa che distrugge i semi, esso appartiene a una irascibile dea ctonia della montagna.

Donna, dea, macina, tomba.

Giuseppe Lampis


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