1
I terzoliceisti erano i più grandi. Scendevano quindi per ultimi; noi aspettavamo giù nell’atrio che arrivassero. Lì era già tutto un brusio disordinato e festoso di quelli che spingevano e sciamavano in giro. Non c’era da perdere tempo nell’attesa perché la meccanica dell’uscita era scorrevole quanto quella dell’entrata. C’era un intervallo fra gli altri e i terzoliceisti che pareva e credo fosse davvero più netto, perché loro avevano gli esami e indugiavano un poco oltre il suono perentorio della campanella. Poi si sentiva un calpestio deciso, via via più forte, dell’impeto di una valanga, sebbene non casuale; sembravano correre per le scale con la foga di una compagnia di assaltatori, certo avevano il passo più lungo di noi, e credo che qualcosa imponesse loro di correre davvero. In fondo erano la squadra più selezionata e addestrata e quindi dovevano piombare giù così con spavalderia e irruenza, nondimeno con una capacità di compattezza che prendeva la nostra ammirazione. Un tempo saremmo stati noi al loro posto. Eccitati eguali a loro per cose appena ascoltate, riservate ai più grandi. Li precedeva la folata di vento del treno che sta per sboccare dalla galleria. Ancora avvolti in una nuvola di polvere li precedeva il suono delle cornamuse alto nelle ardue battaglie per atterrire gli altri.
2
I camerieri della sala da tè trattano i clienti abituali con i modi degli infermieri di una casa di cura verso i pazienti cronici.
3
Due ragazzi escono di casa e traversano il prato. Camminano sciolti, liberati da ogni peso. Quasi certamente hanno finito di sbrigare i compiti di scuola e prima dell’ora di rientrare per la cena in famiglia hanno due o tre ore durante le quali gironzolare insieme nel paese e scambiarsi le idee. Non sono abbastanza grandi da sentirsi menomati senza la compagnia delle ragazze e non la cercano. La loro è quell’età intermedia nella quale non hanno ancora le inquietudini devastanti della giovinezza e non più la fragilità dell’infanzia. Essi provano per un breve periodo il piacere di non avere bisogno di altro che fare due passi. Se avranno fortuna torneranno a assaporare quel piacere, ma ciò potrà accadere – se accadrà – fra molto tempo, quando saranno ormai vecchi, quando – se avranno avuto una famiglia – i loro figli già grandi non saranno più un peso e un obbligo e la loro moglie li avrà spediti fuori di casa perché avrà voluto starsene per conto suo prima di cena. Allora, però non daranno quei piccoli calci all’erba con la spontanea scioltezza dei muscoli, non sentiranno il sangue scorrere leggero e non basterà loro di portarsi addosso una magliettina di cotone. Inoltre, adesso stanno scoprendo il mondo, allora invece riterranno di conoscerlo e sarà difficile e faticoso essere capaci di scoprirlo, come ancora dovrebbero.
Ecco, due piccoli animali felici, con l’inconsapevolezza e l’istintività semplice di due selvaggi che escono a godersi il tepore del pomeriggio. Bisogna ammirare e rispettare questa fortuna, dono prezioso, ringraziando di poterla vedere; una rivelazione effimera eppure ricca di potenza.
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Dai greci l’immortalità–divinità è intesa nella forma giovinezza. Perfezione del corpo un momento prima che compaiano i segni del disfacimento, l’attimo della fioritura visto dal versante della pienezza.
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Dai greci l’immortalità e la divinità sono concepiti in termini di immarcescibile giovinezza. Quella giovinezza che appartiene al corpo un attimo prima che il minimo segno di disfacimento faccia la sua profetica comparsa. In breve la fioritura vista dal versante della primavera, allorquando sta raggiungendo la pienezza dei suoi colori e sembra che non possa mai arrestarsi.
5
Gli uomini dispongono di un potere mostruoso, parimenti del resto a tutti i viventi, quello di dare a loro volta la vita, procreando. Si pensi, far passare dal non essere all’essere, dal potere essere e ancora non essere all’essere già! Perché allora non ne approfittano fino all’estremo in maniera il più possibile estesa in ubriacature senza altra sosta che per l’esaurimento delle forze? Eppure, forse è proprio quello che essi fanno, e tutte le vane chiacchere sul problema della morte riguardano soltanto i popoli che hanno esaurito la loro voglia di esistere e nei quali si è inceppato il senso profondo e istintivo della comunità per fare luogo in vece sua a un avvitamento individualistico.
La paura della morte in forma di problema acuto e difficile sorge in senso proprio, tale da contrassegnare una cultura, soltanto in presenza di un ethos irreversibilmente individualistico. Deve essere così che la natura si difende e si perpetua, spegnendo i fiacchi, consegnandosi alle foreste lussureggianti e abbandonando le stoppie e gli sterpi rinsecchiti agli incendi. Il suicidio demografico, da una prospettiva epocale, assomiglia alle autoregolazioni interne dell’ecosistema che sposta i suoi equilibri.
6
La rivolta contro il mondo moderno non può non esprimersi in rovesciamento del cristianesimo ellenizzato, politico–universalistico, normalizzato. Il mondo va sbucciato di questa crosta infetta e svirilizzante sotto la quale la civiltà classica si è andata a riparare e a prostituire ai suoi peggiori sentimenti. Nietzsche aveva ben capito. Il nemico dunque è chiaro: Hegel; grandissimo, robustissimo, eppure mosso da un ethosmoderno che va abbattuto per ritrovare l’uomo primordiale, bestia piena, in cui il gesto e la parola hanno un senso.
7
Prendo spunto dalla visione dogon del sacrificio. L’uccisione della vittima serve a restituire il suo sangue alla terra. Il resto entra invece in un circuito alto, propizio agli uomini, una volta depurato del delitto. Ciò che va restituito è interdetto agli uomini e pertanto impuro, esso stesso, i suoi portatori, i suoi manipolatori.
Il mondo contiene il positivo e il negativo, e questi vanno debitamente separati e istradati, perché la vita continui a svolgersi nel verso creativo. Positivo e negativo sono valori concreti e indicano fasto e nefasto, vitale e mortale, e danno luogo a consentito e proibito, puro e impuro.
L’atto sacrificale realizza la suprema discriminazione, per questo è atto creativo per eccellenza. Esso separa il negativo dal positivo e lo immette nel circuito costruttivo, incanalandone le potenze altrimenti distruttive. Il sangue che cola proviene dal fegato e il fegato è la sede della miscela dei flussi benigni e maligni. Da lì si dipartono la fecondità e il profumo o il fetore e l’acidità. Al fegato affluiscono le grandi correnti cosmiche della luce e dell’acqua, del dio e della parola. Tutto ciò che si palesa, esprime e manifesta dà luogo a una corrente a più riprese che si moltiplica nell’uomo. Pertanto il luogo della fecondità dell’uomo svolge un compito essenziale per tutto l’universo.
Dio è acqua e parola, umido vapore che scende luminoso da una bocca. L’utero femminile è sul modello di dio creatore. Il sacrificio serve a garantire la fecondità dell’utero e a togliergli gli influssi bloccanti e sterilizzanti.
Il grande ciclo della trasformazione deve venire inteso per un ciclo generativo, che va agevolato, attivato messo in atto, applicato, mediante tutta una serie di atti che tolgono gli inciampi e i contrasti.
(Sacrificio: tributo e debito al Male – il tributo ha origine sacra – per sbloccare la generazione, cioè il mondo.
Il cosmo è tenuto in ostaggio da forze che esigono un tributo. Tutti e ciascuno devono offrire il proprio tributo. Restituire equivale a vivere.)
8
Dogon.
Ogni anno, con le nuove nascite, un’invasione barbarica nel villaggio sommerge la società. Il bambino è il più vicino alla morte, egualmente al vecchio.
9
Sakura, il ciliegio in fiore dei giapponesi.
Hanami 花見«guardare i fiori» designa la tradizionale usanza giapponese di godere della bellezza della fioritura primaverile degli alberi, in particolare di quella dei ciliegi, i cui fiori si chiamano sakura.
La varietà di questi alberi, usati a scopo ornamentale, il somei yoshino,ha il nome scientifico di prunus yedoensis.
Dal Giappone medioevale proviene la cerimonia e la festa del guardare il fiore che cade: hanami.
Pensare la bellezza, con questo detto:
Hana wa sakura gi hito wa bushi: «tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero».
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In alcuni casi, la montagna del mondo asiatica è sormontata dall’albero del mondo. In alcuni immaginari popolari le stelle sono foglie dell’albero del mondo; alcune popolazioni turche pensano che ogni uomo vive finché la sua foglia rimane attaccata all’albero e finché la sua stella rimane in cielo.
La tradizione che la bellezza non dipenda dalla durata indefinita quanto piuttosto dalla perfezione della forma specifica si è mantenuta in Giappone in relazione al fiore di ciliegio che è cifra del guerriero aristocratico.
«Albero dei destini» e legame fra le esistenze umane e le foglie lo troviamo in Omero Iliade 6, 146–9, Mimnermo 2, 1–3, infine in Ungaretti (Soldati, 1918: «Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie»).
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L’idea sciamanica asiatica che ogni uomo vive finché la sua foglia rimane attaccata all’albero del mondo nello stesso modo che la sua stella rimane nel cielo si ritrova nell’idea giapponese tradizionale del fiore di ciliegio che è il guerriero (sakura). Sciamani e giapponesi hanno un’idea cosmica della provvisorietà umana e ne fanno una valorizzazione assoluta equiparabile alla bellezza.